
Club To Club è al momento uno dei biglietti da visita della Torino che, a partire da metà anni Zero, ha saputo scrollarsi di dosso gli stereotipi da grande provinciale. A fare la differenza non è stato un miracolo, ma la forza e la capacità di pensare in modo diverso, proponendo coraggiosamente un programma che si svolge in autunno, in diverse location della città e, per gran parte, di notte. Volendo a tutti i costi trovare un corrispettivo, sarebbe come se una decina di convogli della metropolitana portassero in giro per la città l'estetica del Pitchfork Festival e del Boiler Room: ce n'è abbastanza per parlare di illuminato esempio di visione e lungimiranza.
Una prima occhiata alla line-up dava fin da subito l'impressione avere a che fare con qualcosa di veramente speciale, con un'infilata di ospiti alla prima visita da queste parti (Chromatics, Flume), altri invece di ritorno (James Blake, Battles, Floating Points, Holly Herndon, Skee Mask) e un discreto manipolo di nomi su cui si gioca il chiacchiericcio degli addetti ai lavori mondiali (black midi, The Comet Is Coming, RAP, Kelsey Lu, Sophie). In poche parole: un po’ meno hype rispetto alle edizioni precedenti, ma livello altissimo della proposta. Come sempre, Club To Club sceglie le cose più innovative, più interessanti, e le serve su un piatto, in esclusiva, prima di chiunque altro.
C'è da dire che non proprio tutto è andato per il verso giusto: a ridosso della settimana del festival, l'amministrazione cittadina ha rimosso l'evento domenicale Club Palazzo, che prevedeva (come nella fortunata edizione 2018) dieci ore di musica più un’edizione speciale del Balon con vintage e botteghe di antiquariato, design, dischi e vinili, arte e laboratori (un evento capace di portare lo scorso anno 15mila persone durante il pomeriggio), indicando tra le motivazioni la mancata consegna di permessi da parte dell'associazione che si occupa dell'evento (tema che ricalca la purtroppo recente difficoltà nell'organizzare qualsiasi cosa a Torino: una querelle che vede le istituzioni, peraltro anche sponsor del festival, gettare sulle manifestazioni l’ombra di possibili indagini giudiziarie, preferendo loro quasi sempre la cancellazione dell’evento). Una triste storia tutta torinese, che però non ci impedisce di restituire alla musica il suo ruolo centrale, e parlarne.
Cominciare un report dalla serata di giovedì alle OGR (avendo perso per motivi personali Slowthai la sera precedente nella stessa location) equivale a una partenza in salita, ma è facile riscattarsi se l'attrazione del giorno è l'artista americana che più di ogni altro incarna l'attuale idea di Simon Reynolds a proposito della cosiddetta conceptronica, un termine di cui tanti addetti ai lavori ora amano riempirsi la bocca.
Holly arriva con il suo spettacolo PROTO e un impianto concettuale di tutto rispetto, che si prefigge di esaltare l'interazione uomo(donna)-macchina grazie a Spawn, intelligenza artificiale il cui nome evoca già da subito supereroi in odore di dannazione.
I suoi algoritmi (Spawn nella sua forma completa stasera è in realtà assente) giocano con le voci della protagonista e della compagnia teatrale/danzante al suo fianco, nel riuscito tentativo di umanizzare una volta per tutte il rapporto tra la tecnologia e il mondo dell'arte. Holly trasuda grazia e perseveranza, lasciandosi deformare il timbro vocale a piacimento. Il risultato è al contempo estraniante e familiare, un ossimoro in musica che esalta a perfezione la portata di questo incredibile progetto.
Calato nella debordante tecnologia del rinnovato stage design del festival (ampiamente sotto-utilizzato per via dell'unico visual a disposizione dei due inglesi - una bandiera sventolante recante il nome del progetto), il loro materiale riesce a sembrare un oggetto ancora più misterioso di quello sentito su disco.
Dub techno autarchica, quasi totalmente senza cassa, talvolta malinconica (per quanto un simile aggettivo possa sposarsi col genere), ricamata da parti vocali sospese su nuvole lontane. I RAP sembrano avulsi dal contesto del festival, ma non perché se la tirano, è che danno l’impressione di stare ancora cercando un posto per atterrare su questo pianeta, o forse quello buono per il decollo. Se lo spettacolo visto stasera è il frutto della loro arte, viene da sperare che quel posto non lo trovino mai.
La complessità dei riferimenti nella loro musica travalica di gran lunga la possibilità che quattro ventenni abbiano studiato così tanto i modelli del passato. Post-rock, noise, prog, math, hardcore, ognuno può sentirci quello che vuole senza venire a capo di nulla, poiché questo è lo scopo del loro esordio "Schlagenheim".
Sotto il palco, l'inferno del moshpit, come mai mi era capitato di vedere al C2C; sopra il palco, il batterista Morgan Simpson esprime la sua furia inconsueta facendo da riferimento per le mosse di ognuno degli altri tre, senza mai perdere per un attimo il controllo. Si aggiunga il totale disinteresse del chitarrista/vocalist Geordie Grepp per le umane vicende e il gioco è fatto.
I black midi chiudono l'esibizione dopo aver fiaccato la resistenza (anche nervosa) delle prime file e catturato l'attenzione di quasi tutti. Sotto il palco, sudore che scorre copioso; sopra il palco, un sempre più anaffettivo Grepp indossa cappotto e colbacco e se ne va. Quanto basta per farci innamorare.
Kelsey Lu

Visti sul palco, lei e gli altri due membri della band farebbero pensare a influenze decisamente più black, ma Kelsey attinge dal suo personalissimo scrigno interpretativo per cesellare piccole gemme in bilico costante tra dolcezza e passione, tenendosi con maturità a una certa distanza dal mainstream.
Sa di essere brava, concedendosi talvolta il lusso di indugiare sul virtuosismo vocale, ma porta a casa un risultato ben più grosso: quello di averci fatto assistere alla nascita di una stella.
Aria un po' diversa invece sabato, e non solo per la pioggia che incornicia la serata durante le pause sigaretta all'esterno. Il pubblico è sensibilmente meno numeroso rispetto alla serata a trazione James Blake, ma ci sta. In fin dei conti, in Italia la cultura da festival musicale non ha mai attecchito del tutto, e la gente preferisce quasi sempre presentarsi alle manifestazioni non tanto per scoprire cose nuove ma per ritrovarsi in quelle che conosce già.
Johnny Jewel ipoteca in sequenza il palco Light Over Darkness con due progetti che lo vedono impegnato alla produzione, i Desire e i Chromatics. L'attesa per il secondo, fresco di nuovo album, è molto alta, e non tradisce le aspettative. Consueta estetica synth-pop e riferimenti alla italo-disco declinati con classe ed eleganza, in maniera anche superiore a "Kill For Love", supportata da un suono limpido e compatto che non lesina in intensità, a differenza di quanto proposto dal set dei Desire, che sembrano provenire direttamente dal trailer di "Via Montenapoleone" dei Vanzina, tanto è il profluvio di riferimenti al glamour come concetto di vita, che accostano ammiccamenti bisex a tastiere da suonare con un dito solo.
In chiusura, dopo l'incredibile uno-due Kelsey Lu/The Comet Is Coming, c'è ancora tempo per l'elegante bagno di destrutturazioni elettroniche in salsa clubbing ad opera di Sam Shepherd aka Floating Points (che da queste parti si è già esibito nel 2015). Un djset dal carattere multiforme, che valorizza e riassume il fantasmagorico stage design del festival con visual sincronizzati sul beat. A quest'ora della notte, la gente vuole ballare, e Sam sa ancora come suonare quella canzone.

Senza dilungarmi in altre chiacchiere introduttive vi lascio quindi ai miei highlight e a un sunto finale. E se a tratti le mie parole vi sembreranno doppiare quelli dell’amico e collega, il motivo è presto detto: quando la musica è una passione così divorante e la si fruisce in un luogo elettrico che sembra poter diventare per un attimo il centro del mondo, un sentire condiviso è la naturale conseguenza.
Al C2C Holly Herndon ha presentato "PROTO", uno degli album più belli dell'anno. Non un semplice disco, ma un'intera visione tecno-utopista del mondo: un presente alternativo in cui – diciamo – non hanno vinto Zuckerberg e Bezos, ma Berners-Lee e Swartz.
Spawn – l'intelligenza artificiale sviluppata per l'opera – è rimasta a casa a Berlino, ma l'intero spettacolo è comunque un'analisi dell'interazione tra umano e tecnologico tradotta in canzoni da club destrutturato, in cui l'impatto fisico è fortissimo: la voce come strumento di liberazione dalla mostruosa solitudine generata da tecnologie usate semplicemente per tutti i motivi sbagliati.
Questa sera, ovviamente, l’aspetto puramente tecnologico del concept va perso. Le voci sul palco delle OGR sono sei e si muovono in tutta libertà con giusto qualche effetto, dando l’impressione di divertirsi un mondo in una specie di gioioso rito pagano.
Detto di "Evening Shades", in cui un pubblico non proprio attentissimo è invitato a un call-and-response che verrà poi dato in pasto all'algoritmo di machine learning, il momento più emozionale del set è l'esecuzione senza microfoni di "Frontier". Quello che rimane più impresso del brano non è tanto l'“avvicinarsi all'altro” che chiaramente rappresenta, ma il modo in cui esso mostra la bidirezionalità del nostro rapporto con la tecnologia anche nel puro canto.
Spogliate di ogni amplificazione, le voci sembrano comunque processate e procedere per piccoli gradini invece che su una curva continua, come se avessero a propria volta “interiorizzato la digitalizzazione” del precedente lavoro in studio - esattamente come Spawn ha imparato a rispondere con suoni e ritmi alla voce umana.
"Canto aumentato", potremmo chiamarlo.
Paolo mi ha chiamato in causa e dunque non posso esimermi, ma devo premettere che James Blake è sempre stato un oggetto misterioso per me, qualcosa da guardare con rispetto pur se da una certa distanza.
Voglio dire: raggiungere il seguito che ha saputo ottenere lui a vent’anni-e-qualcosa con quella musica così rarefatta e personale è sicuramente una faccenda degna di attenzione e ammirazione, al di là dei gusti personali. Sicuramente però l'ho sempre percepito cool più che coinvolgente, e l'ultimo "Assume Form" è stata una bella svolta che sinceramente fino a qualche giorno fa non avrei saputo bene come prendere.
Poi è arrivato il live al C2C e alcune cose mi sono diventate più chiare: il talento nel far coesistere il relativo sole dei nuovi brani (ne ho contati sei, tra cui segnalerei almeno la title track e I'll Come Too, delicatissime) - con tutte quelle influenze pop, latin, trap e rap - con la foschia di episodi classici dal soul-step d'inizio decennio ("The Wilhelm Screen", "Limit To Your Love", "Retrograde"); il pathos e il gusto delle interpretazioni, che non sono andati persi nemmeno dopo che il Nostro sembra essere diventato il feat preferito di un sacco di gente famosa.
Cosa più importante: una qualità di scrittura elevatissima, che rende tutti i brani proposti davvero solidi e mette il songwriter londinese a proprio agio con qualunque fase di una carriera che comincia a farsi significativa oltre che variegata. Ecco: forse al mio terzo (grande) live di Blake, posso dire di averlo finalmente afferrato e, nel processo, anche di aver sentito per lunghi tratti qualcosa di molto simile a un brivido. Lo stesso che ci ha accompagnato all’uscita con la commovente cover di "Vincent" di Don MacLean.
CONFRONTATIONAL QUARTET (black midi, venerdì, Lingotto, Crack Stage)
Dimenticate le reunion, le ristampe, l'hype o tutto quello cui gira intorno un'industria che orienta la nostra conversazione quotidiana sull'argomento intorno a un numero sempre più esiguo di topic (Spotify è l'emblema dell'Internet che tradisce la propria promessa originaria e taglia fuori brutalmente gli outlier): i black midi sono l'esempio di come anche oggi si possa fare rock avant – ovvero musica con due chitarre-basso-batteria – con un'attitudine incompromissoria, rendendo evidenti i propri riferimenti ma rimasticandoli così tanto da renderli di nuovo materia nuova e incandescente.
I black midi ti fanno risentire i PIL, i Fugazi, i This Heat, ma li frullano con la fame, il ghigno e la serietà assoluta dei vent’anni. I brani in scaletta – "953", "Schlagenheim", "Near DT", "MI", "bmbmbm" e "Ducter" – sono insieme una bomba e un pretesto per divagazioni strumentali snervanti, che tengono il pubblico intrappolato tra gli intricati nodi ritmici di un batterista mostruoso (Morgan Simpson), chitarre lancinanti (che coprono spesso solo gli alti dello spettro sonoro, lasciandoti le orecchie a fischiare per ore: come una versione super-espansa di Steve Albini) e interventi vocali nevrotici.
Se non si perdono (una possibilità) e non si raddrizzano e arrotondano (un’altra possibilità), questi diventano mastodontici.

Nato in Kenya ma residente in Uganda giusto da un paio d'anni, il produttore è noto per una spaventosa prolificità – pare che in pochissimo tempo abbia lavorato a qualcosa come 400 tracce, inglobando sempre più generi nella sua Global Bass già trafitta da ritmiche africane (“ci sono un sacco di influenze nella mia musica”, ha detto a Tiny Mix Tape, “dalla musica tradizionale ugandese che ho ascoltato durante il mio soggiorno alla Gqom sudafricana e perfino alla trap”).
E ho fatto bene a rimanere: il suo set di un'ora piena è stato una cannonata, un vero attentato ai padiglioni auricolari sparato a volumi nucleari su un pubblico che improvvisamente, dopo tanto pogare, ha ritrovato nuova forza per dimenarsi a ritmi forsennati. La più bella sorpresa dell'intero festival, per me.
I suoi Desire sono gli Eighties kitsch di cui proprio non si sente la mancanza, senza grana intorno ai pezzi. A loro difesa va detto che non fingono mai di essere più di quel che sono, in scaletta c'è una cover di "Bizarre Love Triangle" e "Under Your Spell" rimane una bella canzone che in "Drive" diventava semplicemente perfetta.
Eccola lì, l'idea: il film di Refn rappresenta per il cinema di questo decennio ciò che "Kill For Love" dei Chromatics rappresenta per la musica, reinterpretazione pop di canoni estetici codificati che però non impediscono nuovi significati e nuove emozioni. Un gioco di equilibri delicatissimo, e in questo senso il live dei Chromatics è straordinario.
"Tick Of The Clock", "Lady", "Kill For Love": sin dal principio, tutto è riprodotto con grazia, qualità sorprendente per questa musica; i pezzi non diventano bombastici ma anzi si fanno più intimi, ed è la carta vincente dello show, che prende il volo nella coda di "I Can Never Be Myself When You're Around". La voce di Ruth Radelet è una piuma di levità irreale, i visual parte integrante di un world-building di stordente efficacia.
Il finale è per tre cover: "Into The Black", "I'm On Fire" e "Running Up That Hill". Poi sul palco resta Johnny a rumoreggiare col synth: con la sognante versione di "Girls Just Wanna Have Fun" tutto diventa una bolla da cui proprio non viene voglia di uscire.
Era successo al Primavera Sound di Barcellona, con una portentosa esibizione pomeridiana al Ray-Ban Stage dei Sons Of Kemet in versione XL - quattro batterie, sassofono, tuba contrabbassa - è capitato al C2C con "The Comet Is Coming", atmosfere fantascientifiche per un trio che unisce attitudine improvvisativa a un groove micidiale, con i synth di Dan Leavers a settare sfondi spaziali per i polmoni infiniti di Hutchings. La batteria di Max Hallett, manco a dirlo, è qualcosa di inimmaginabile.
Brani come "Super Zodiac", "Blood Of The Past" o "Lifeforce Part II" sono costruiti su riff ululanti che vengono scaraventati in faccia agli spettatori con una potenza selvaggia: mentre come praticamente tutti i vicini di concerto sono indotti a un selvaggio headbanging, mi viene da pensare che quel tiro hard-funk non sia poi così lontano - mutatis mutandis - dalla rabbia del primo album dei Rage Against The Machine (per la comune foga delle esecuzioni che polverizza le composizioni), oltre che naturalmente degno erede delle divagazioni cosmiche di Sun Ra.
È un attimo. Quando rialzo la testa per tornare a guardare in faccia quel magma ribollente, vedo il suono letteralmente rimbalzare sulle pareti e sul soffitto della sala; e sotto a tutto quel frastuono, noi: una massa di corpi ondeggianti, travolti e annichiliti.
ANDMOREAGAIN
Anche la planata sul Crack Stage del Lingotto della sera successiva è stata piuttosto dolce, con i milanesi 72-HOUR POST FIGHT - all’esordio quest’anno per La Tempesta Dischi - a proporre una fusione già matura di jazz, soul ed elettronica con passione e perizia tecnica, nonostante una batteria a tratti fin troppo invadente (i miei due cent: l’avrei decisamente preferita più agile che potente e pestona). Da notare un discreto disinteresse per il groove e l'assenza del basso, che - ottimo pregio, questo - lascia parecchi vuoti nell’impasto sonoro e rende tutto più scarno, aereo e imprevisto, aprendo interessanti praterie per gli eventuali sviluppi futuri del progetto.

Il posizionamento dei due dj-set principali del sabato sera, a inframmezzare e seguire le strepitose esibizioni di Chromatics e The Comet Is Coming, non ha giovato alla mia soglia di attenzione e al mio livello di coinvolgimento. E tuttavia posso dire che se Romy degli XX - alle 3 sul main stage - ha ricordato purtroppo che le sonorità anni Novanta potevano essere piuttosto tremende oltre che colorate e inclusive (in diversi casi, l’effetto “cassetta dance da cestone dell’autogrill” era dietro l’angolo, sebbene mi sia parsa molto apprezzabile l’idea di non orientarsi su sonorità dreamy affini a quelle della band madre), i Nu Guinea hanno invece fatto ballare diverse migliaia di persone riportando indietro la DeLorean di ulteriori dieci-quindici anni con una selezione di grande qualità e coerenza.
Alla fine resta da dire dell’evento di chiusura della domenica pomeriggio a Porta Palazzo che, nonostante la triste questione dei mercatini di cui si diceva - una di quelle cose che mi ricordano sempre che pensare che questo tipo di gestione della cosa pubblica manchi di visione e sia figlio della semplice incompetenza è un errore da cerchiare a penna rossa: il drammatico ridursi dei momenti di condivisione degli spazi cittadini è invece l’effettivo rivelarsi di un indirizzo politico ben preciso - rappresenta una chiusura splendida per una manifestazione difficile da dimenticare anche per chi, come me, ci fosse andato per la prima volta. Una nuova occasione - e l’ultima - per incontrare in un finale felliniano tanti volti conosciuti o appena incrociati nel buio delle notti precedenti, al suono bassoso dei dischi di Stump Valley e Napoli Segreta.
A contornare serate di musica a tratti straordinaria c’erano gli eventi pomeridiani del Symposium nella hall dell’AC Hotel, proprio a pochi passi dal Lingotto. Sabato, stretta fra la discussione Gender And Music (fondamentale il tema, un po’ troppo generici i concetti espressi; sicuramente troppo poco il tempo a disposizione) e una di Vice con Shabaka Hutchings e i 72-HOUR POST FIGHT (che non ho seguito), ho avuto la fortuna di poter assistere alla presentazione della compilation "Napoli Segreta", splendida raccolta di disco-funk partenopea anni Settanta e Ottanta.
Ecco: proprio lì, tra le domande precise del presentatore Max Dax e le risposte tra il serio, il faceto e il guascone dei curatori di un’operazione dallo spirito filologico, tra schizzi di un caffè preparato con petali di fiori distribuiti al pubblico e giochi di prestigio con le carte, mi è parso di cogliere lo spirito più profondo di un festival che vedevo per la prima volta. Non una semplice selezione di grandi e grandissimi artisti, ma un evento capace di giustapporre istanze distanti e diverse per costruire un’idea di mondo cosmopolita, ampia, libera. E ballabile, ovviamente.
(Francesco Pandini)
(Foto di Andrea Macchia, Daniele Baldi, Luigi De Palma, Paolo Ciro)