Alive and kicking, ossia vivi e vegeti. Non esiste definizione più banale per raccontare un concerto dei Simple Minds, ma prima o poi bisognerà che i lettori se ne facciano una ragione perché in fondo è davvero la più azzeccata. Se facciamo due calcoli, sono trascorsi quarantacinque anni esatti dall'album di debutto “Life In A Day”: era il 1979 e da allora sono cambiati il mondo, i modi e le mode, lo spirito delle canzoni, i gusti delle persone, le location dei concerti, il prezzo dei biglietti e persino i membri del gruppo. Quello che però non è affatto scontato è che gira e rigira siamo sempre tutti lì, e si riesce ogni volta a tirar fuori una scusa buona per andare di nuovo a vederli, costi quel che costi.
Con più di sessanta milioni di dischi venduti, la band scozzese è considerata una delle più longeve e importanti dell'intero panorama new wave, prima che il clamoroso successo internazionale raggiunto nel 1985 da “Don't You (Forget About Me)” - complice l'inserimento del brano nella colonna sonora della teen comedy diretta da John Hughes “The Breakfast Club” - non troncasse certe ambizioni sonore intellettualistiche e all'avanguardia trasformando definitivamente Kerr e soci da eroi di culto in fenomeno di massa. Quando però i ricordi bussano alla porta, ecco che l'irrefrenabile voglia di esserci spazza via in un attimo i legittimi dubbi della vigilia.
Le perplessità erano dettate anche dalle condizioni di salute del frontman, che nel mese di aprile a Milano aveva accusato alcune difficoltà respiratorie dalle quali fortunatamente pare essersi ripreso appieno. Affiancato dallo storico braccio destro Charlie Burchill (chitarre e tastiere), da Ged Grimes al basso, da Gordie Goudy alla chitarra acustica, da Sarah Brown alla voce e dalla scatenata batterista Cherisse Osei, l'inossidabile Jim è apparso in formissima alla Cavea dell'Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone, dove il 27 e il 28 giugno era atteso per le prime due tappe italiane della tranche estiva del “Global Tour 2024”, che dalle nostre parti in queste ore ha fatto scalo anche a Bari il 30 giugno, a Senigallia l'1 luglio e toccherà infine Mantova il 4 luglio prossimo.
Il doppio evento tenutosi nella capitale, completamente sold out, si inserisce nell'ambito della rassegna Roma Summer Fest, della cui corrente edizione i Simple Minds sono tra i nomi di grido assieme a The National, Deep Purple, The Smile, Marisa Monte, Fontaines D.C., Loreeena McKennitt e Air (che si sono esibiti qui il 21 giugno scorso).
Tornando ai nostri, come al solito c'era un carico di speranze e curiosità legato alla scelta dei brani in scaletta, sempre in bilico (sia in studio di registrazione che sul versante live) tra fascinose sperimentazioni elettroniche e rozze trovate da classifica, spesso nemmeno troppo indovinate. A dispetto dei pronostici, stavolta non c'è traccia di produzioni recenti (“Direction Of The Heart”, “Walk Betweeen Words” e “Big Music”, pur discreti, vengono lasciati ad ammuffire nel dimenticatoio) per la felicità dei meno giovani che, come prevedibile, costituivano la quasi totalità dei circa quattromila spettatori assiepati sugli spalti. Ma forse è giusto così, d'altronde se è vero che la band ha vissuto il suo momento migliore nel corso degli anni Ottanta, perché non premiare gli irriducibili nostalgici mai sazi di quella magnifica stagione? In ogni caso, giunti ormai alla sesta decade di carriera, i Simple Minds vantano un repertorio talmente vasto e stilisticamente variegato che paradossalmente è più facile mettere d'accordo tutti che scontentare qualcuno.
Per le strade e all'interno dell'Auditorium fa già di per sé molto caldo e la temperatura sale ulteriormente verso le 21,10, quando con una decina di minuti di ritardo sulla tabella di marcia finalmente i musicisti irrompono sul palco accolti da un boato. La scenografia è ricca e movimentata, e dal light screen piazzato alle spalle dei protagonisti gigantesche immagini d'archivio scivolano via alternandosi all'abituale "Claddagh ring" luminoso (si tratta della corona, del cuore e delle mani che lo racchiudono che si possono ammirare nel caratteristico logo e su numerose copertine, col tempo è divenuto parte fondamentale dell'iconografia del gruppo).
In partenza si va sul sicuro con “Waterfront” (primo singolo di “Sparkle In The Rain” del 1984), il cui incedere spavaldo offre sempre garanzie, mentre la successiva “Once Upon A Time” attinge invece (come “Sanctify Yourself”, che ascolteremo poco più tardi e di cui faremmo volentieri a meno) da quell'omonimo Lp che nel 1985 segnò un'irrimediabile sterzata verso un pop/rock radiofonico privo di pretese artistiche ma nello specifico tutto sommato ancora accettabile.
Ok, sapevamo che non tutto poteva rispecchiare le migliori fantasie e qualche sortita tra le pagine meno significative del catalogo l'avevamo messa in preventivo, è bello però notare che non siamo a un patetico raduno revival dato che le performance sono energiche e convincenti. Non ci sono nemmeno grosse interruzioni, salvo il doveroso saluto alla platea e un paio di spassose gag di Kerr che, siciliano d'adozione (dal 2004 si divide tra Glasgow e Taormina dove gestisce anche un hotel, ndr) strappa risatine compiaciute a go-go storpiando qua e là l'ormai proverbiale “minchia!” in un dialetto maldestro.
Subito dopo però si inizia a fare sul serio con un trittico superbo e il cuore ha un sussulto: arrivano infatti in pregevole sequenza la penetrante “King Is White And In The Crowd”, “Hunter And The Hunted” con i suoi ossessionanti strati di tastiere e la commovente “Big Sleep”, tutte e tre prese dal capolavoro “New Gold Dream” del 1982, che più di ogni altra cosa ha contribuito a incidere a caratteri cubitali il nome dei Simple Minds nell'olimpo degli immortali. Ad oggi rimane indiscutibilmente la loro vetta ineguagliata, e meno male che dopo una breve parentesi affidata ad altri due colpi da stadio (la corale “Come A Long Way” si può dire una piacevole riscoperta visto che funziona sorprendentemente bene, un po' meno “Let There Be Love” che col tempo è inspiegabilmente divenuto un classico) la band percorre ancora gli intramontabili sentieri dorati (rispolverati di recente tramite delle interessanti riletture autocelebrative "Live From Paisley Abbey") con le ottime “Glittering Prize”, “Promised You A Miracle” e le pulsazioni elettro-dance del manifesto culturale omonimo “New Gold Dream (81-82-83-84)", acclamatissimo dal pubblico.
Piovono applausi entusiasti, si suda e si balla, quindi le atmosfere tornano d'improvviso solenni con la sentimentalona “Belfast Child”, qui resa in maniera talmente appassionata ed enfatica che nell'interpretarla si emoziona persino il cantante, riuscendo nell'impresa di coinvolgere una tantum anche chi, come il sottoscritto ad esempio, sinceramente non l'ha mai apprezzata, malgrado la fama che la precede. Stesso dicasi per “Don't You (Forget About Me)”, per alcuni ennesimo tasto dolente, per altri comprensibilmente un momento clou: di sicuro vedere balzare in piedi all'unisono gente di una certa età per saltellare e cantare all'impazzata risulta gustosissimo e ci trasmette un insospettabile desiderio di intrufolarci nella mischia come liceali nell'orario di ricreazione. Così ci uniamo all'infinito “la la la la” (durerà oltre nove minuti!) che accompagna il pezzo per quasi tutto il suo svolgimento e chissenefrega se la canzone non è proprio il massimo della poesia, siamo pur sempre a un concerto rock e ciascuno è libero di viverlo come preferisce.
L'apoteosi vera però arriva con il gioiello “Someone Somewhere In Summertime”, che sin dal 5 novembre 1982, data della sua uscita sul mercato come singolo, fu capace in pochissime note di sintetizzare gli umori di una generazione: inutile mentire, quarant'anni dopo è impossibile restituire l'incantesimo e la perfezione dell'originale, eppure i brividi sono autentici e per qualcuno è già un motivo sufficiente per essere qui, bastano e avanzano i rintocchi di quell'indimenticabile intro che ogni volta assume il sapore di chiamata alle armi.
Senza accorgercene siamo giunti quasi al termine, e dopo una piccola sosta ai box, si entra nella parte conclusiva dello show che non regala particolari prodezze ma è comunque godibile. Il bis comincia con una versione soul di “Book Of Brilliant Things” che accende i riflettori sulle potenti corde vocali di Sarah Brown, poi arriva “See The Lights” (da "Real Life" del 1991) e si tira addirittura un sospiro di sollievo dato che, personalmente parlando, il ritornello orecchiabile e sdolcinato è comunque uno dei più digeribili tra tutti quelli papabili di inizio anni Novanta candidati all'encore per i saluti finali. Insomma, poteva andar peggio, ma la deriva commerciale pare non aver scalfito di una virgola l'amore dei fan nei loro confronti, così in chiusura tutti sotto al palco per un ultimo tuffo all'indietro negli Eighties a urlare a squarciagola l'inno “Alive And Kicking” come se non ci fosse un domani. Anche in questo caso non è certo la loro hit migliore, ma fa sempre la sua figura e ci lasciamo volentieri trascinare, dopo di che la band si congeda con un inchino mentre le casse sparano a tutto volume “The Jean Genie” di David Bowie, dal cui verso “he's so simple minded” quasi mezzo secolo fa venne ritagliato l'appellativo da consegnare alla leggenda.
Peccato solo per le tante esclusioni eccellenti dal palinsesto, ma che senso avrebbe rimpiangerle o provare a azzardare un elenco? Ci siamo comunque divertiti e per stasera possiamo andarcene a casa soddisfatti, consapevoli che malgrado tutto da quel sogno dorato non ci siamo mai svegliati ed è ancora più forte la voglia di ritornare la prossima volta.
(Foto D’Auria/MUSA - Auditorium)