Cult

Love

1985 (Beggars Banquet)
dark-wave, hard-rock

"Creating 'Love' we were trying to make a flower instead of a barbed-wire fence"
(Ian Astbury)
Ci sono dischi, che oggi consideriamo per diverse ragioni "pietre miliari", il cui successo al tempo fu tutto fuorché scontato o calcolato. Li consideriamo "seminali", per via dell'influenza che hanno esercitato su un'intera scena, su una schiera consistente di epigoni, e perché hanno osato andare contro il conformismo imperante - che non alberga affatto, anche oggi, solo nell'ambito mainstream, anzi... - andando coraggiosamente a rispolverare sonorità, atmosfere e immaginari rivisitati con un piglio moderno, con talento, gusto, personalità e intelligenza. Fa sorridere l'idea che un disco come "Love", il secondo parto dei Cult e tuttora il loro album più venduto e celebrato (la band l'ha riproposto in tour per celebrarne il venticinquesimo anniversario), risulti così convincente e compatto nonostante una scelta imprevedibile in termini di produzione, con tanto di qui pro quo, e sebbene la stampa alternative dell'epoca - specialmente nel Regno Unito - abbia trattenuto a stento le smorfie di disgusto nel veder ritornare a galla così impunemente, dopo la grande rivoluzione del punk e della new wave, l'orgoglioso e vigoroso rock dei due decenni precedenti.
Non era affatto cool, in poche parole, riappropriarsi dei Doors, di Jimi Hendrix e dei Led Zeppelin in un anno come il 1985. Non è che ci fossero molte chitarre in classifica: gli Human League di Sheffield, appena l'anno prima, cercarono di farle entrare maldestramente in "The Lebanon", gli Eurythmics le integrarono nel loro menù prima principalmente sintetico mentre i grandi gruppi della generazione punk, come i Clash, avevano sparato le loro ultime cartucce. Mentre il grande pubblico era in visibilio per gli idoli new romantic (i Duran Duran quell'anno erano impegnati nei progetti Arcadia e Power Station), Trevor Horn era il re Mida del pop elettronico e le radio trasmettevano le hit di Howard Jones e King (ricordate le sue Dr. Martens e "Love And Pride"?), c'era qualcuno intento a preparare una rivoluzione con la complicità di un sessionman di lusso alla batteria, armati di una voce tra le più possenti ed emozionanti del rock tutto e di un diapason per dare il nuovo "la" che in molti, in un momento di stanca, si attendevano.

I Cult nacquero dalle ceneri di un'altra band squisitamente darkwave, i Southern Death Cult. Billy Duffy, il biondo chitarrista, proveniva dal punk e aveva fatto parte dei Noisebleeds, un gruppo che ebbe come frontman Steven Patrick Morrissey (ma per via dei cambi di line-up i due non suonarono mai insieme) e si distingue subito per uno stile che farà da traghetto dalla new wave - i ragazzi ascoltavano e rispettavano gli U2, allora consacrati con "The Unforgettable Fire", così come gli Psychedelic Furs e i Killing Joke - al revival dell'hard-rock fino ai primi semi del grunge. Astbury, l'istrionico cantante, ha un background diverso: negli anni Settanta viene conquistato dalla teatralità e dall'eclettismo di David Bowie, ma non limita i propri ascolti a ciò che accade nella scena inglese. Questo perché Ian diviene presto un cittadino del mondo: a undici anni si trasferisce in Canada con la sua famiglia, e a scuola inizia ad appassionarsi alla cultura dei Nativi d'America, che lo accompagnerà per tutta la vita e che andrà a permeare spesso le sue liriche.

"Love" arriva dopo "Dreamtime", un successo indie che aveva fatto drizzare le antenne a più di qualcuno. Alla fine del 1984 i Cult, sotto contratto con la Beggars Banquet, espressero il desiderio di lavorare con Steve Lillywhite (produttore che aveva forgiato un suono robusto e riconoscibile per gli Xtc, i primi U2 e i Simple Minds di "Sparkle In The Rain") ma commisero l'errore di lasciare un nastro con i provini sulla scrivania del suo manager senza specificare il cognome. "To Steve". Proprio così. Per errore, a trovarsi tra le mani i demo fu il londinese Steve Brown, noto allora per aver lavorato con Elton John, gli Abc per il loro primo singolo "Tears Are Not Enough/Alphabet Soup" e soprattutto con gli Wham! in "Fantastic" (in seguito è stato in studio di registrazione anche con i Manic Street Preachers, tra i tanti), che li ascolta e ne resta rapito. All'inizio ci fu un po' di diffidenza, e si decise che si sarebbe partiti con un solo brano, il 45 giri "She Sells Sanctuary". Poi, in base ai risultati, si sarebbe deciso il da farsi.
Le registrazioni andarono avanti agli Olympic Studios di Barnes, scelti per aver "dato i natali" a dischi dei Free, di Jimi Hendrix e dei Rolling Stones. I risultati non tardarono ad arrivare: di "She Sells Sanctuary" uscì anche una versione 12" - un rock da pista da ballo alla Billy Idol - e divenne il più grande successo alternative dell'estate del 1985, spodestando i New Order dalla cima delle charts "indipendenti". Ma se il pubblico mostrò di apprezzare il limpido e appassionato ruggito di Astbury e l'insolita alchimia tra passato (riff hard rock, un piglio alla Led Zeppelin) e presente (dark e new wave), non perdendosi per niente al mondo le esibizioni live dei nostri, non tutti i critici musicali seppero davvero in quale definizione precostituita inscatolare la loro proposta: "dove credono di andare riprendendo lo stile della band di Page e Plant?", si chiedevano i più indolenti.

Alla batteria in "She Sells Sanctuary" c'è Nigel Preston, poi sostituito da Mark Brzezicki - preso in prestito dai Big Country - che suona in tutte le altre tracce dell'album in via d'ultimazione. La canzone spiana bene la strada per i Cult, e mostra subito alcuni tratti distintivi del sound e dell'immaginario cui amerà ricorrere anche in seguito Ian Astbury: "the fire in your eyes" prende ispirazione dal libro "Lame Deer: Seeker of Visions" del 1972, scritto da Richard Erdoes e basato sulle testimonianze di un medico Sioux nato nella riserva indiana di Rosebud, ma richiama anche un passaggio di "The Soft Parade" dei Doors ("Can you give me sanctuary? I must find a place to hide").
La stessa copertina di "Love" è piuttosto esplicativa, con le sue evocazioni: dallo sfondo nero emergono simboli religiosi, un "uccello del tuono" della tradizione Sioux (un rapace identificato con la tempesta), un simbolo Hopi (riserva dell'Arizona) di una nuvola, simbologia egiziana e medievale, una falce che identificherebbe la morte e il simbolo dello Yin e dello Yang (usato poi per il video di "Revolution", il terzo singolo). L'ispirazione per il denso e originale artwork arriverebbe dalla Teosofia, definita da Helena Blatavsky nel suo libro "La dottrina segreta" "la saggezza accumulata nel corso delle Ere, provata e verificata da generazioni di profeti". La filosofa russa sostenne di aver compiuto un viaggio in Tibet, allora sconosciuto, e lì i Maestri della Fratellanza Bianca le avrebbero rivelato e insegnato arti occulte - alcuni studiosi vedono nel movimento teosofico e nella propugnata libera interpretazione dei testi sacri la nascita della "new age". Non è casuale che la copertina del libro in questione fosse nera con quattro simboli religiosi.

Il secondo singolo estratto dall'album fu "Rain". Ancora una volta l'ispirazione arriva dai Nativi americani (in particolare dalle danze dei Pueblo del Sud-Ovest degli Stati Uniti), ma Ian non si limita a evocare il potere salvifico/religioso della pioggia, bensì la rende antropomorfa, si rivolge ad essa come se fosse una donna ("here comes the rain... here she comes again"). In più occasioni Astbury, cresciuto in una famiglia matriarcale con una madre e sette sorelle, ha parlato della sua riverenza e ammirazione nei confronti dell'universo femminile, e ha ribadito il suo auspicio affinché le donne abbiano riconosciuti i loro diritti e siano sempre più presenti nella vita politica. Che differenza, rispetto al machismo di molte star dell'epoca e che arriveranno subito dopo (si pensi alla misoginia manifestata dal giovane Axl Rose).
Non ci sono solo i Doors e i Led Zeppelin tra i richiami di "Love": "Big Neon Glitter" è uno stravagante ibrido tra il Johnny Marr di "What Difference Does It Make?" e il The Edge di "I Will Follow", e tira in ballo un idolo di gioventù come Gary Glitter; "Phoenix" si distingue per l'uso dello wah-wah e l'infuocata (letteralmente) atmosfera hendrixiana - il testo richiama un'altra opera della Blatavsky, "Iside svelata", e mischia con nonchalance simbologia egizia e richiami al sesso e al desiderio ("Like a kiss from the lips of Ra that burns on/ The pleasure is getting higher/ A servant of desire/ I'm on fire"). La trascinante "Nirvana", che apre il disco, ha un titolo in sanscrito che indica la "cessazione del soffio", l'estinzione, mentre nella tetra ballata "Brother Wolf, Sister Moon" emerge il fascino esercitato dai lupi in Ian Astbury (in seguito definito "wolf child").
Billy Duffy è particolarmente orgoglioso di "Revolution", anche se in studio di registrazione non tutti avevano le stesse idee per lo sviluppo della canzone ("i ragazzi volevano qualcosa alla Chuck Berry, mentre io avevo in mente Mick Ronson e Phil Manzanera!") e "Black Angel" è la ballata assassina perfetta per chiudere un grande album.

L'accoglienza della critica indipendente, dicevamo, non fu delle migliori. Chris Roberts su Sounds definì "Love" una "schifezza", senza mezzi termini, mentre le principali manifestazioni di stima nei confronti dei Cult arrivarono da Kerrang. In seguito, dopo il trionfo di "Love" (arrivò al quarto posto in classifica in Gran Bretagna e fece conoscere la band in tutto il mondo) arrivarono altri due dischi di ottima fattura, che si allontanavano sempre di più dalle trame dark-new wave degli esordi ("Electric" e "Sonic Temple"). Nonostante siano riconosciuti tra gli ispiratori di gruppi come i Soundgarden e gli Alice In Chains, Astbury e Duffy non riuscirono a imporsi durante lo strapotere del grunge e riemersero, dopo una rottura e una lunga pausa, solo negli anni Duemila.
Sarebbe troppo semplice, ed è sbagliato, fare paragoni tra Astbury e Jim Morrison - Oliver Stone gli offrì la parte nel film, ma il cantante dei Cult rifiutò dopo aver letto la sceneggiatura e lasciò la parte a Van Kilmer - così com'è inopportuno additare i due in quanto opportunisti e incoerenti. I Cult non finiscono con "Love": sono cambiate le mode, i produttori, la sezione ritmica, ma il loro è per molti ancora un riconoscibilissimo marchio di fabbrica. Ian Astbury oggi è un signore di cinquant'anni, tornato in scena con materiale inedito più che dignitoso (anche se la voce non è più la stessa di un tempo) e che ogni tanto si diverte con gli ex-Doors o come ospite nei dischi di Slash. Sempre più saggio e meno cinico e banale di tanti altri suoi colleghi, è senz'altro da annoverare tra gli artisti che hanno raccolto meno di quanto avrebbero meritato.

16/09/2012

Tracklist

  1. Nirvana
  2. Big Neon Glitter
  3. Love
  4. Brother Wolf, Sister Moon
  5. Rain
  6. Phoenix
  7. Hollow Man
  8. Revolution
  9. She Sells Sanctuary
  10. Black Angel

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