There's a revolution
Quattro decenni in musica e ogni volta sembra appena cominciata, e sempre in modo diverso. C'è qualcosa di magico e un'attesa febbrile ad accompagnare l'uscita di un qualsiasi disco dei Cult, sarà la curiosità per i repentini cambi di muta o forse l'inconfessabile speranza che tirino fuori gli attributi, di certo c'è solo che hanno avuto il merito, a metà anni Ottanta, di guidare il revival hard-rock in un momento in cui le classifiche sembravano aver del tutto dimenticato le chitarre grezze dei decenni precedenti, col peccato mortale di aver raccolto meno di quanto seminato.
Sopravvissuti ai tempi, alle mode e agli innumerevoli cambi di formazione, Ian Astbury alla voce e Billy Duffy con la sua chitarra oggi sono ancora lì, sopravvissuti soprattutto a se stessi. Tanti exploit in curriculum ma anche débâcle, rinascite, periodi di letargo, risvegli e ricadute, come una saga in eterno divenire.
La storia dei Cult ha ufficialmente inizio nel 1984, ma la geografia della band non conosce limiti territoriali ed estende la propria area lungo le traiettorie ondivaghe del suo frontman, inglese di nascita e giramondo d'adozione.
Ian Astbury, la giovinezza, il Canada
Heswall è un paesino del Merseyside a venti minuti da Liverpool, Ian Robert Astbury nasce qui il 14 maggio 1962 figlio di Robert Leighton, ufficiale della marina mercantile di origini irlandesi, e Judith Lindsay, un'insegnante scozzese. Ancora in fasce ha già il ritmo nel sangue, d'altronde Liverpool è un po' la culla musicale del Regno Unito e fucina di artisti di rilevanza mondiale, non ultimi i Beatles di cui le zie, che gli fanno da baby-sitter, sono ammiratrici invasate, i genitori invece preferiscono il gospel e gli fanno ascoltare Paul Robeson e Johnny Mathis. Ma lui cresce nel mito dei Fab Four, un giorno si trova a passeggio con i suoi in una piazzetta pubblica e si imbatte per caso in un'esibizione informale di Paul McCartney, allora impara a memoria “Hey Jude” e la canta davanti ai parenti accompagnandosi col pandeiro, tamburello brasiliano a telaio che utilizzerà costantemente sul palcoanche in età adulta. Passa le serate incollato alla radio, adora “L.A.Woman” dei Doors e si innamora di David Bowie dopo averlo visto in tv con “Starman” a Top Of The Pops, ragion per cui “Life On Mars?” diviene automaticamente il primo vinile che compra.
A soli undici anni la sua esistenza cambia radicalmente, quando nel '73 si trasferisce con la famiglia a Hamilton in Canada, sulle rive dell'Ontario, dove trascorre un'intera adolescenza da forestiero, calato però appieno nelle abitudini del posto.“Mi trovavo a mio agio, non era la prima volta che vivevo da estraneo”, racconterà più tardi. “Sin da piccolo venivo ostracizzato persino nel Regno Unito solo per il fatto che mia madre era scozzese, avevo già cambiato sei o sette scuole e ovunque mi trattavano come uno diverso a causa del mio accento, così imparai a socializzare con i bambini di altre etnìe, più aperti e meno viziati”. In Canada riceve la stessa accoglienza sospetta, trova un lavoretto come garzone in un ristorante, ma subisce molestie e angherie da parte del capo; per paura di essere licenziato, però, non denuncia il fatto e resta parecchio traumatizzato.
Intanto frequenta la Glendale Secondary School, dove pian piano prende le giuste contromisure per ovviare a possibili sindromi da accerchiamento e fa combriccola con i figli di altri immigrati, turchi, caraibici, italiani o pakistani: è una fase educativa che lo segnerà profondamente, via via che entra in simbiosi con la cultura degli Indiani d'America, per lui autentica trance intellettiva se non vera ossessione (la maggior parte dei suoi scritti e l'iconografia delle band in cui suona resteranno legati a doppio filo a questo ciclo vitale, intrisi come sono di ascetismo, mistica e spiritualità indigena non anglicizzata). “Mi interessavo di filosofia e giocavo con loro a Lacrosse (sorta di hockey a racchetta che in Canada è uno dei due sport nazionali insieme all'hockey su ghiaccio), quelle popolazioni hanno una coscienza e una relazione con la Terra così speciale che chi cresce nelle società industrializzate non può nemmeno concepire. Facciamo parte dell'ambiente, la natura non è separata ma siamo un corpo unico, la chiave è sedersi, meditare e istruirsi, su questo insisterò parecchio nelle mie narrazioni”.
Nel '79 percorre la rotta inversa dell'Atlantico direzione Glasgow e si ferma un anno in Scozia, dove completa gli studi stavolta etichettato come “inglese”. Ormai però non ci fa più caso, tanto è abituato ai continui ribaltoni con relativi cambi di usi e costumi. In questo periodo legge Dickens, Byron e Shelley e diviene accanito fan di Iggy Pop e New York Dolls. Il suo vero punto di riferimento, però, è Jim Morrison, dopo che una sera guarda “Apocalypse Now” e ne resta folgorato, tanto da descrivere la pellicola come esperienza estatico-religiosa. “The End” dei Doors è presente nella colonna sonora e lo illumina sulla via della musica, così decide che è arrivato anche per lui il momento di provarci.
1981, Bradford, i Southern Death Cult
Nel 1980 Astbury fa ritorno a Liverpool attratto dalle sirene dell' Eric's Club, che si trova in Matthew Street, di fronte al leggendario Cavern. Risucchiato dalla fervente scena punk locale, si inserisce con chitarra e sassofono per seguire da roadie i tour dei Crass, frattanto mette a punto cover dei Sex Pistols per farsi notare dai Send No Flowers, che stanno cercando un cantante. Quel provino va male, tempo dopo, però, i brani tornano utili come rompighiaccio per la sua prima band, che prende forma qualche mese dopo a Bradford, nello Yorkshire, dove si stabilisce in via definitiva nel 1981 e fonda i Southern Death Cult insieme al bassista Barry Jepson, a David “Buzz” Burrows (chitarra) e Haq Nawaz “Aki” Quresgi (batteria). Il nome deriva dal rito religioso officiato nei dintorni del delta del Mississippi dai nativi americani del XIV secolo, quel South-Eastern Ceremonial Complex talvolta noto anche come Southern Death Cult, appellativo che secoli dopo il cantante adotta per il gruppo con sfumatura ironica e fortemente inquisitoria nei confronti della centralizzazione del potere nel Sud dell'Inghilterra a scapito del Nord, per ragioni storiche, economiche e sociali (industria musicale inclusa).
The fatman takes away what isn't his
He weakens you and me
Lust of your life
Money, life, your money is his life
(“Fatman”)
Il loro unico e doppio singolo “Moya/Fatman” esce nel dicembre 1982 per la Situation Two Records (sotto-branca della Beggars Banquet) e denuncia avidità e ingordigia del sistema oppressivo, tramite una metafora dell'uomo grasso (alcune ristampe aggiungono il brano “The Girl” e ne fanno un triplo A-side, altre nel '83 integrano un paio di estratti live e delle Peel Sessions sino a trasformarlo in una sorta di Lp eponimo a tutti gli effetti, malgrado la band non avesse mai manifestato precisa volontà in tal proposito, tant'è che molte tracce sono di scarsa qualità-audio).
Ad ogni modo, il bootleg semi-ufficiale fa subito proseliti, basti pensare che al quinto concerto sono già presenti duemila persone. “Moya”, “Fatman”, ma anche “Vivisection”, “Apache”, “The Crypt” e “All Glory” (questi gli altri titoli in scaletta) risentono del clima infuocato dell'epoca ed evidenziano chiari retaggi darkwave, o meglio “positive-punk”, come vengono etichettati dalla critica in contrapposizione al sound violento e alienante di Killing Joke e Spear Of Destiny, che da queste parti vanno per la maggiore insieme a Theathre Of Hate e Bauhaus, più spettrali e terrorifici.
Bradford è un villaggio a quindici miglia da Leeds, e le tribù di teenager isolati e disillusi trovano nel nobile condottiero indiano Ian Lindsay (si fa chiamare ancora col cognome della madre) un'alternativa seducente alla routine college/calcio/tv. Quel quinto concerto (a Manchester, nel 1983) purtroppo resta anche l'ultimo dei Southern Death Cult, data la volontà di Ian di imboccare un sentiero più adatto alla sua filosofia pseudo-hippy, influenzata dalla musica anni 60.
Terminato il mandato, Jepson, Burrows e Qureshi formano i Getting The Fear (più tardi Into A Circle) insieme a Paul Hempshire (associato Death In June, Psychic Tv e Current 93), Astbury allora li rimpiazza col batterista sierraleonese Ray Mondo e con James Stewart al basso (entrambi ex-Ritual), più Billy Duffy, chitarrista abile conosciuto dietro le quinte di un concerto dei Theathre Of Hate, per i quali in passato i Southern Death Cult si erano prestati da opener.
Nel frattempo a Manchester: Billy Duffy
Emerso dalle strade violente di Manchester, Billy Duffy nasce al St. Mary's Hospital il 12 maggio 1961 da una famiglia ebraico-irlandese e trascorre l'infanzia nel rione di Hulme, prima di spostarsi nell'area di Wythenshawe. Comincia a suonare la chitarra a quattordici anni stregato da Queen, The Who, Thin Lizzy e Aerosmith, e a fine anni Settanta è già un'istituzione per il movimento-punk della City, dato che è un perno dei Nosebleeds (il cui frontman è un certo Morrissey, ma a causa dei cambi di line-up i due non suoneranno mai insieme) e poi degli Slaughter And The Dogs di Mick Rossi. “Da giovane ero un malato di musica - ammette Duffy - e non volevo perdermi nemmeno un concerto, i più importanti si tenevano alla Free Trade Hall dove ne vidi uno storico dei Sex Pistols. Steve Jones mi ipnotizzò con la sua leggendaria Les Paul piena di adesivi, prima di quella sera non sapevo molto di loro se non tramite i giornali, da quel momento però mi fu chiaro che avrei voluto essere come lui. Poi vidi Slade e Thin Lizzy, mi ci portò mio padre, quindi uno eccezionale degli Heatbreakers con i Banshees e il David Johansen Group al Factory Club. E ancora Iggy Pop, il mio mito Mick Ronson e tanti altri, sfortunatamente non capitarono mai Bowie e gli Spiders, sarebbe stato il massimo”.
Fu proprio Billy a presentare l'amico Johnny Marr a Morrissey dopo un concerto di Patti Smith visto insieme all'Apollo nel 1978 (da quell'incontro nasceranno gli Smiths), non soddisfatto però di una dimensione ridotta nel gennaio '79 si trasferisce a Londra per rincorrere sogni di rock'n'roll con gli Studio Sweethearts ( il singolo “I Believe” esce a maggio e sancisce il debutto di Duffy su vinile), quindi un paio di comparsate con Andy Blade Group e Lonesome No More (aprile 1981) decisive a indirizzare il suo stile verso quello più crudo di Buzzcocks e Stooges.
A fine '81 ecco la grande opportunità: viene arruolato dai Theathre Of Hate per aprire i tour dei Clash dentro e fuori dal Regno Unito, inoltre la loro “Do You Believe In The Westworld?” (1982) viene trasmessa a Top Of The Pops, ma per Billy è solo un assaggio di vero showbiz, dato che litiga col cantante Kirk Brandon ed è costretto a cambiare aria. Poco male, negli stessi giorni incontra Ian Astbury che resta impressionato dalle sue capacità e lo vuole fortemente nella sua nuova band, che eredita il nome dalla precedente e lo accorcia in Death Cult. Insieme a loro, dicevamo, James Stewart e Ray Mondo, siamo nel 1983 e viene alla luce l'Ep Brothers Grimm che si piazza subito in cima alle classifiche indipendenti grazie a un riuscito combo di atmosfere goth, percussioni tribali e testi settari (“Ghost Dance” si ispira alle dottrine del santone Wovoka, “Christians” racconta la guerra in Vietnam, mentre “Horse Nations” traduce in note il libro dell'americano Dee Brown “Bury My Heart At Wounded Knee-An Indian History Of The American West”).
Il battesimo live del gruppo si tiene il 25 luglio a Oslo, e nello stesso mese esce l'Ep Death Cult, promosso da un tour in Scozia e vari paesi europei, al termine dei quali Mondo viene deportato nella natìa Sierra Leone (da allora di lui si hanno poche notizie lapidarie) e sostituito alle bacchette da un altro ex-Theathre Of Hate, Nigel Preston. La formazione così composta trova una certa continuità nel tempo e a ottobre del 1983 lancia “Godszoo”, che nelle mire di Astbury avrebbe dovuto fungere da promo per un ipotetico album mai realizzato.
1984, Dreamtime: ecco i Cult
L'agognato full-length è rinviato solo di qualche mese, il 13 gennaio 1984, infatti, la band partecipa allo show televisivo di Channel-4 The Tube, presentandosi finalmente col nome che la consegnerà alla storia: The Cult. I ragazzi scelgono di smettere la connotazione-gotica Death per ampliare l'audience e ci vedono giusto, dato che la loro “Spiritwalker” raggiunge subito il numero 1 della Uk Indie Chart. Esce nell'aprile 1984 e fa da apripista a Dreamtime, album di debutto del 10 settembre successivo che, nomenclatura a parte, di gotico invece mantiene ancora davvero tanto.
Prodotto da John Brand su Beggars Banquet, venne registrato nei Rockfield Studios a Monmouth, in Galles, e remixato agli Eel Pie di Twickenham. La scaletta ripesca buona parte del materiale accantonato in epoca “Death”, abbinandolo a pezzi inediti, il risultato è una formula selvaggia che prova a unire le istanze macabre dominanti della darkwave a influenze hard-rock, enfatizzate dai toni melodrammatici di Astbury, leader morrisoniano fino al midollo. La maestosa “Horse Nation” è una dichiarazione d'intenti in tal senso, imperniata su un drumming brutale squarciato dalle feroci schitarrate di Duffy, libero di sguainare la sua arma impropria, una Gretsch White Falcon di metà anni Settanta divenuta ben presto il marchio di fabbrica della band.
I testi (firmati Astbury/Duffy) tradiscono le pulsioni antropiche del cantante, vedi la magnetica title track “Dreamtime”, che attinge dalla mitologìa degli aborigeni australiani, mentre la suicida “Butterflies” mima la danza delle tribù Hopi dove le fanciulle in età da marito acconciavano i capelli a forma di ali di farfalla. Ancor più tetra e rassegnata “83rd Dream” (“There are no bright skies/ where the eagle flies”, nello sciamanesimo il numero 83 indica il rito con cui i defunti vengono tratti dalle loro camere, vestiti con abiti ricchi e ornati con piume in testa nella speranza che possano ballare con i vivi).
Let the sun shine on me when I sing the last song
I will give you even my body, spiritwalker
Let all the children kiss the stars before they sing their last song
(“Spiritwalker”)
Tornando a “Spiritwalker”, va precisato che risale ancor prima ai concerti di era-Southern,quando veniva proposta untitled alla Queen's Hall di Bradford con lyrics più o meno simili (le cronache più scrupolose riportano “The War Song” a mo' di titolo provvisorio). Le cavalcate sepolcrali “Gimmick” e “Ghost Dance (Spinning In Circles)” battono sul tempo i Sisters Of Mercy di “First And Last And Always”, infine spiccano “Rider In The Snow”, l'evocativa fatamorgana “A Flower In The Desert” e “Bad Medicine Waltz”, ballad in crescendo e vertice emozionale del disco.
Merita una menzione a parte la ritmata “Resurrection Joe”, singolo non-album (del dicembre 1984) accorpato ad alcune edizioni formato cd.
Insomma, concettualmente non c'è male come inizio: Dreamtime offre uno spaccato completo dei tempi, grazie a un sound ibrido che però ne costituisce paradossalmente il limite maggiore, dato che le diverse contaminazioni gli negano una residenza fissa tra le divinità wave. I Cult sono troppo elitari persino per la scena underground, ma quegli arpeggi melodici e i giri di basso insistiti vengono recuperati e portati in breve al successo da una spiegata ala goth-rock di cui Mission (“God's Own Medicine”), Hèroes Del Silencio (“El Mar No Cesa” e “Senderos De Traiciòn”) e gli italiani Litfiba si fanno portabandiera, così pure Dreamtime (in un primo momento previsto solo in Gran Bretagna)pian piano si fa largo e viene ristampato in circa trenta paesi del mondo, donando grande visibilità ai Cult, che intorno a Natale si imbarcano in un tour europeo a supporto dei Sisterhood di Wayne Hussey.
1985 - C'è una rivoluzione: Love
C'erano alcune linee guida nel movimento post-punk e new wave, cioè stare alla larga da capelli lunghi e assoli di chitarra, così abbiamo pensato: fantastico, è proprio da lì che inizieremo!
(Ian Astbury)
Se Dreamtime aveva acceso timidi focolai di rivolta in chart assediate dalle tastiere elettroniche, il secondo album Love appicca un incendio: è il disco della rivoluzione totale e probabilmente l'unico in quel preciso momento storico in grado di interrompere il synth-monopolio, sebbene alcuni canali stampa dell'epoca abbiano trattenuto a stento smorfie di disgusto nel veder tornare a galla così impunemente il rock gagliardo dei decenni passati. In altre parole, non era affatto cool, in un anno come il 1985, riappropriarsi di Doors, Jimi Hendrix e Led Zeppelin. Non è che ci fossero molte chitarre in classifica: gli Human League stavano cercando di farle rientrare maldestramente con “The Lebanon”, gli Eurythmics le andavano integrando in un menù principalmente sintetico, mentre i grandi gruppi della generazione punk come i Clash avevano sparato le ultime cartucce. Le radio trasmettevano Howard Jones e King, il grande pubblico era in visibilio per gli idoli new romantic, Trevor Horn era il Re Mida del pop elettronico. Sotto banco, però, qualcuno stava preparando il colpo in grado di sovvertire ogni pronostico.
Terminato a fine '84 il tour promozionale di Dreamtime, i Cult esprimono il desiderio di lavorare con Steve Lillywhite, che aveva forgiato un suono robusto e riconoscibile per i primi U2, gli Xtc e i Simple Minds di “Sparkle In The Rain”, ma commettono l'errore di lasciare un nastro con i provini sulla scrivania del suo manager senza specificare il cognome. Così per sbaglio il demo capita nelle mani del londinese Steve Brown (già collaboratore di Abc, Elton John e Wham!), che ascolta le tracce e ne rimane entusiasta, ma vuol mantenere i piedi per terra e sceglie la strada della cautela, ovvero partire con un solo brano per poi decidere sul da farsi in base ai risultati. E i risultati non tardano ad arrivare, quel brano infatti si chiama “She Sells Sanctuary”, ovvero il più grande successo alternative dell'estate '85, forte di un riff di chitarra devastante, che diviene esso stesso il ritornello di una hitche trae spunto per il suo verso principe “the fire in your eyes” dal libro “Lame Deer: Seeker Of Visions” (scritto da Richard Erdoes nel 1972 e basato sulle testimonianze di un medico Sioux della riserva di Rosebud) ma richiama anche un passaggio di “Soft Parade” dei Doors (“Can you give me sanctuary? I must find place to hide”). Alla batteria c'è Nigel Preston, poi allontanato dal gruppo per comportamenti deprecabili e sostituito da Mark Brzezycki (in prestito dai Big Country) su tutte le altre tracce dell'album, ultimato tra luglio e agosto agli Olympic Studios di Barnes (scelti per aver dato i natali ai dischi di Free, Jimi Hendrix e Rolling Stones). Il pubblico sembra apprezzare il ruggito limpido e appassionato di Astbury e l'insolita alchimia tra passato e presente, hard-rock e new wave, psichedelia e tentazioni metal, così “She Sells Sanctuary” - di cui esiste anche una long-version 12''- passa 23 settimane nella Top 100, mostrando subito i tratti distintivi del sound e dell'immaginario di cui anche in seguito il cantante amerà permeare il songwriting.
Parte della critica appare spiazzata e non sa davvero in quale definizione predefinita inscatolarlo, certo è che Love (18 ottobre 1985) è uno degli album più significativi e pregni dell'intera storia del rock, a partire dal denso artwork di copertina di ispirazione teosofica: dallo sfondo nero affiorano caratteri religiosi, un “uccello del tuono” di tradizione Sioux, una nuvola Hopi, simbologia egiziana e medievale, una falce che identificherebbe la morte e il logo dello Yin e dello Yang.
Look da glam-cowboy, a metà tra Spandau Ballet e Adam & The Ants, il secondo trascinante singolo “Rain” è probabilmente il brano più famoso dei Cult e prende ancora una volta spunto dai Nativi americani (in particolare, dalle danze dei Pueblo del Sud-Ovest degli Stati Uniti): Astbury non si limita a evocare il potere salvifico della pioggia, ma la rende antropomorfa, rivolgendosi a Lei come fosse una donna (“here She comes again...”), del resto già in più occasioni aveva espresso riverenza e ammirazione verso l'universo femminile ribadendo il suo auspicio affinché ne venissero riconosciuti i diritti nella vita politica.
La prima traccia in scaletta “Nirvana” a dispetto dei ritmi vorticosi ha un titolo in sanscrito che significa “cessazione del soffio” dunque estinzione, mentre l'inno auto-distruttivo “Big Neon Glitter” tira in ballo l'idolo di gioventù Gary Glitter e scarica tutto il peso dell'esistenza su cassa e rullante (“the wall gets taller while you get smaller, the fear is getting taller”). L'energica title track “Love” misticizza l'amore come atto finale e meta da raggiungere, di contro l'hendrixiana “Phoenix” è un richiamo (letteralmente) infuocato a sesso e desiderio e si distingue per l'uso del wah-wah (“Like a kiss from the lips of Ra that burns on/ The pleasure is getting higher/ A servant of desire/ I'm on fire”, ode ai numi egizi e kick-off che ricorda “I Wanna Be Your Dog” degli Stooges).
Joy or sorrow, what does revolution mean to you?
To say today's like wishing in the wind
all my beautiful friends they've all gone away
like the waves, they flow and ebb and die
(“Revolution”)
Memorabile il terzo singolo “Revolution”, immagine poetica di “sogni senza fine” e una delle canzoni di cui Duffy si dice particolarmente orgoglioso, mentre “Hollow Man” sferra l'attacco tentando l'evasione da una realtà malvagia e inospitale.
Infine la litania al chiaro di luna “Brother Wolf, Sister Moon”, laude viscerale alla natura nei suoi quattro elementi primordiali che riconcilia l'uomo-lupo col suo destino, e la struggente ballata in nero a passo marziale “Black Angel”, che chiude con pathos da pelle d'oca l'album perfetto ed è una di quelle canzoni che forse non “prendono” subito, ma ancora a venti o trent'anni dal primo ascolto vorresti non finissero mai. Sublime, purtroppo però la profezia in closed-roll “It's a long way to go with the reaper at your side, it's a long way to go with an angel at your side, it's a long, long, long goodbye” rappresenta in qualche modo anche il triste commiato dei Cult, che non terminano certo qui la loro corsa, ma di sicuro non sapranno mai più arrampicarsi a tali alture creative. Forse però è giusto così e Love resta un unicum negli anni Ottanta e non solo, talmente semplice nella sua complessità e talmente complesso e strutturato nella sua irripetibile spontaneità.
1987: la svolta Electric
In totale Love vende due milioni e mezzo di copie e raggiunge la quarta posizione in Inghilterra regalando enorme popolarità al gruppo, che consolida il suo status a livello mainstream con un estenuante tour mondiale, accompagnata dal nuovo batterista Les Warner. Sul sito personale di Duffy alla sezione memora-Billy-a si possono reperire curiose testimonianze di quei concerti tramite locandine ricche di humour, che riportano pass e nomi in codice dei musicisti a seconda delle diverse tranche (snodate da ottobre '85 a giugno '86 attraverso Inghilterra, Stati Uniti e Canada ma anche mini-festival in Scozia e Finlandia, a fianco di Pogues e Simple Minds).
Terminato il giro, la band si rimette agli ordini di Steve Brown (già artefice del successo di Love) e registra una dozzina di inediti ai Manor Studios di Shipton-On-Cherwell nell'Oxfordshire, ma scontenta del sound di “Peace” (questo il titolo inizialmente previsto per il nuovo album), decide di trasferirsi a New York e affidare il remix del papabile singolo “Love Removal Machine” alle cure del guru Rick Rubin (Beastie Boys, Run Dmc e Public Enemy nel suo biglietto da visita, ma anche Metallica, Audioslave, Tom Petty, Red Hot Chili Peppers e tanti altri). “Non fosse stato per i Beastie Boys forse sarebbe andata diversamente e magari non glielo avremmo nemmeno chiesto”, ci scherza su Astbury ma non troppo. “Ricordo di aver sentito ‘Cookie Puss’ in un club a Toronto nell’85, così domandai informazioni al dee-jay. Mi rispose che erano i Beastie Boys, e pensai ‘Wow! Questo sì che è Suono, nudo, scavato ma terribilmente ritmato, dobbiamo farlo nostro a tutti i costi. Scoprii che era opera di Rubin, quindi andammo a cercarlo fino a Long Island. Rick in quel momento si stava specializzando nell'hip-hop e con la Def Jam faceva cose magnifiche, adoravamo i Beastie Boys e volevamo trapiantare quella verve alle nostre linee rock classiche”. Rubin si dice disposto ad accoglierli sotto la propria ala, a patto però che registrino la canzone da capo per poi eventualmente parlare dell’intero disco. La Beggars Banquet storce il naso, in quanto ha già investito due mesi di tempo e 250.000 sterline, ma dopo aver ascoltato il re-recording newyorkese dà l'ok a procedere.
“Love Removal Machine” esce il 16 febbraio 1987 ed è il primo singolo estratto da Electric, questo il titolo ufficiale scelto dai Cult per la tanto attesa terza fatica in studio, che segna una sterzata verso sonorità decisamente più aspre e il definitivo abbandono dei tratti gotici degli esordi, onde capitalizzare al meglio la rinascita heavy di seconda metà/fine anni Ottanta (Guns‘n’Roses, Metallica, Danzig e Slayer, solo per citarne alcuni, ma in primis Ac/Dc, vero modello di riferimento dell'album e anch'essi in scuderia con lo stesso produttore). Scarno, disadorno, nitido e diretto: Electric è un album paradossalmente sperimentale, per quanto costruito su poche idee basilari e il suono grezzo di quattro strumenti. Chiaro il diktat di Rubin, che spiega: “Amavo la voce di Ian, ma aveva quella morbidezza sinuosa da waver, volevo vederlo connettersi con l'energia e sentirlo di più. Credo di esserci riuscito, gli ululati su quel disco sono l'incarnazione della spavalderia della rockstar, lui ha acquisito fiducia in sé e spinto le corde al limite, con inflessioni che arrivavano in tutti i punti giusti consacrandosi come uno dei migliori della storia, per questo la sua musica è senza età. Quanto a Billy, lo costrinsi a lasciare i pedali a casa, in modo da rendere gli assoli più corti, concentrati e meno agghindati, vennero fuori dei riff memorabili”. E chi se ne frega poi se la maggior parte di quei riff sono spudoratamente scopiazzati, alla gente l'album deve piacere assai, visto che almeno in termini commerciali bissa i fasti di Love se addirittura non li supera (anch’esso quarto in classifica ma per 27 settimane, cinque in più del precedente).
La critica invece resta ancora una volta spiazzata, raramente infatti si è assistito a un elenco di brani talmente simili uno all'altro.“Undici volte la stessa canzone”, ironizza qualcuno, “Buona una, buone tutte”, sentenzia qualcun altro. Ma allora dove sta la verità? Al solito nel mezzo, e il singolone “Love Removal Machine” (identiche note di “Start Me Up” degli Stones) è un buon gancio ma nulla più (intro del video in ossequio al maestro Morricone de “Il buono, il brutto e il cattivo”, mentre il coretto “talking 'bout love” rigira i Van Halen).
Tra gli episodi meglio riusciti sicuramente il secondo estratto “Lil' Devil”, “Outlaw”, la cover degli Steppenwolf “Born To Be Wild” e l'esagitata “Bad Fun”. In tono minore “Electric Ocean”, “Memphis Hip Shake” e “King Contrary Man”, comunque risollevate da qualche prodezza di Duffy che, deposta la proverbiale Gretsch White Falcon, diviene protagonista assoluto con una Gibson Les Paul nuova fiammante. “Nessuno diventa leggenda senza portare il rock alla gente”, dichiarano spacconi i due, che hanno stravolto pure il guardaroba e ora se ne vanno in giro tronfi con stivali, jeans strappati e cinture in cuoio. La sensazione però è che termini aulici quali “devil”, “flower”, “peace” perdano il loro originario potere evocativo e vengano distribuiti un po' alla rinfusa, nel tentativo di mischiare le carte e mascherare evidenti lacune (la copertina con logo e pose da metallari è la meno comunicativa in catalogo).
Ad aprile '87 (stesso mese di uscita di Electric) esordiscono Young Gods e Testament, i Faith No More presentano “Introduce Yourself” e i Whitesnake si fanno sotto con l'Lp eponimo, nessuno di loro però riesce come i Cult a legare a un tempo Cream (“Aphrodisiac Jacket” riporta in vita “Tales Of Brave Ulysses” del 1967), Doors (“Peace Dog” strapazza la morrisoniana “Peace Frog” del 1970) e Ac/Dc (“Wild Flower” riprende a pie’ pari “Rock And Roll Singer” di Angus Young ma somiglia tanto pure a “White Wedding” di Billy Idol), e questo è comunque un merito, visto che, seppur con metodologia un po’ tosta e un po’ tamarra, riemerge un patrimonio musicale altrimenti sepolto. Se Love era stato dunque il disco della rivoluzione, Electric (che in totale vende tre milioni di copie) è quello della rivelazione, grazie al quale i Cult allargano la fanbase e si ingraziano una nutrita schiera di seguaci negli Stati Uniti, loro patria d'adozione dove di qui in avanti piantano le tende in maniera stabile integrandosi alla perfezione nella street-scene a stelle e strisce.
Prima, però, c'è da portare a termine una nuova tournée, in occasione della quale si aggrega alla line-up il bassista Kid Chaos degli Zodiac Mindwarp And The Love Reaction, mentre Jamie Stewart si sposta alla chitarra ritmica: durante le tappe negli Usa fanno loro da opener gli allora sconosciuti Guns’n’Roses, quelle in Giappone invece vengono annullate a causa dei costi elevati (nessun impresario è disposto a versare le circa 30.000 sterline necessarie per il solo equipaggiamento). In ogni caso i concerti sono un trionfo. Purtroppo, però, all'interno della band affiorano divergenze insanabili, tant'è che il batterista Les Warner viene licenziato assieme al management Grant/Edwards (si faranno valere in sede legale per royalties non pagate). Astbury, invece, paga lo stress e si ricovera per esaurimento nervoso (verrà dimesso qualche tempo dopo).
1989: Bob Rock, l'America, Sonic Temple
Who would break a butterfly on a wheel?
Not me, my precious child
(“Soul Asylum”)
Nel 1988, come detto, sia Ian Astbury che Billy Duffy si trasferiscono a Los Angeles, dove, circondati da un nuovo entourage, gettano le basi per il quarto album Sonic Temple, che prende forma tra settembre e novembre nel bunker dei Little Mountain Sound Studios a Vancouver, in Canada, di proprietà dell'esperto ingegnere del suono Bob Rock, che sostituisce Rick Rubin alla regia e prende in mano le redini della produzione, insieme al fido collaboratore Bruce Fairbairn. Vengono approntati un paio di demo, sul primo dei quali il posto lasciato vacante da Warner viene riempito dal futuro-Kiss Eric Singer, mentre sul secondo prova Chris Taylor. Le registrazioni finali, però, vengono affidate a Mick Curry, in quel momento batterista di Bryan Adams, mentre Stewart abbandona la chitarra ritmica e riprende la consueta postazione al basso.
Sonic Temple inasprisce ancor più le sonorità e completa il travaso dal gothic-rock degli esordi alla fusion heavy-blues-metal, da fenomeni indie-alternative ad animali da stadio, in poche parole da Regno Unito a Stati Uniti (dove è certificato disco di platino e raggiunge la decima posizione nella Billboard Top 200, ad oggi il loro picco più alto). A differenza del precedente Electric, quest’album (pubblicato il 10 aprile 1989) ha un taglio più convinto e maggior personalità, ne beneficiano alcune canzoni che stavolta lasciano il segno e divengono tra le più famose dei Cult, ad esempio il primo trascinante singolo “Fire Woman”, lo spaghetti-western “Medicine Train” (il cui verso “a desolation angel shooting from a hip in the sonic temple” dà il titolo al disco), la possente “Sun King” (l’ouverture cine-atmosferica è una costante di quasi tutti i brani in scaletta) e “American Horse” (caratterizzata da strofe semi-rap tipo “We Will Rock You” ).
“Bob Rock è un maschio alfa, un po’ leader un po’ figura paterna”, spiega Duffy, immortalato in posa epica sullo sfondo rosso di copertina. “'Sonic Temple' è riuscito a mantenere una sensibilità europea evitando di ingolfarsi nei cliché, era meno misogino rispetto agli altri nostri lavori. Ian aveva scritto alcuni testi a Parigi o in viaggio, io reintrodussi il pedale wah così da ripristinare il suono delle radici, in stile Mick Ronson o Jimmy Page”. Non inganni l’entrata in squadra di un tastierista, John Webster: i pezzi più sentimentali, infatti, hanno un approccio comunque duro e strafottente, roba che professionisti del settore quali Bon Jovi, Poison (“Every Rose Has It’s Thorn”) e Mötley Crűe al confronto paiono boy-band.
La power-ballad non è nel Dna dei Cult, ma setacciando i cromosomi sbuca fuori “Edie (Ciao Baby)”, uno dei loro brani più emotivi ed intensi e forse l'unica hit veramente da ricordare di questa concitata fase-yankee (il testo racconta la storia di Edie Sedgwick, modella e attrice warholiana morta in giovane età per overdose di barbiturici appena quattro mesi dopo il suo matrimonio con Michael Post, conosciuto tra i corridoi di un'unità psichiatrica). “Sweet Soul Sister” (filmata a Wembley) è l'altro pezzo forte e liricamente impegnato: venne ispirato dalla storia dell’attivista afro Angela Davis, black-panther militante del Partito Comunista a lungo detenuta nelle carceri statunitensi (già Yoko Ono e John Lennon le dedicarono “Angela” e i Rolling Stones “Sweet Black Angel”, qui Astbury ne traduce le gesta in uno sfrontato j'accuse dell'americanizzazione del costume europeo).
Più misurate “Soldier Blue” e “Automatic Blues”, gemma nascosta l'anthem poetico “Soul Asylum” ( il fiero incedere Zep ricorda “Kashmir”, peccato si perda un po' nei suoi 7.26 minuti). Attenzione infine al cameo di Iggy Pop su “New York City”. Chiude “Wake Up Time For Freedom” con refrain in loop gridato a quattro voci.
In totale fanno altri tre milioni di copie contando “Templo Sonico”, edizione per i paesi ispanici con la quale assaltano il mercato latino-americano (il singolo “Sweet Soul Sister” è numero 1 in Brasile).
Il successivo tour mondiale col nuovo batterista Matt Sorum si trasforma nell’ennesima bolgia, attizzata in Europa au pair con gli Aerosmith, mentre negli Stati Uniti i Cult fanno da spalla ai Metallica. Dopo uno show ad Atlanta nel febbraio 1990 giunge però la triste notizia della scomparsa del padre di Ian, da tempo malato di cancro: le restanti tappe in programma vengono annullate, e la situazione interna alla band, già caotica, si fa sempre più traballante. Stanco di far da mediatore, James Stewart si ritira in Canada per stare con la moglie e continua senza troppe pretese negli Untouchables (sono lui e Adrian Smith degli Iron Maiden), la fresca new entry Matt Sorum, invece, adocchiato da Slash proprio durante uno di quei concerti, entra a far parte dei Guns’n’Roses.
Ian Astbury frattanto non se ne sta con le mani in mano e sempre nel 1990 organizza insieme ad artisti del calibro di Soundgarden, Iggy Pop, The Charlatans e Ice-T la due-giorni no-stop “Gathering Of The Tribes”, che si svolge a Los Angeles e San Francisco davanti a 40.000 persone e considerata precursore del Lollapalooza, fondato l’anno seguente a scopo no-profit. Nel 1991 Oliver Stone gli offre il ruolo di Jim Morrison nel film “The Doors”, non contento però della sceneggiatura, Ian declina la proposta e lascia la parte a Val Kilmer, che la spunta su altri illustri partecipanti al casting (tra cui Tom Cruise, Johnny Depp, John Travolta e Michael Hutchence degli Inxs).
1991: Ceremony
All the temples stand in ruin
reaching out to the gods in the sky
while the Earth beats to the rythm
my Indian lover's high, high, high...
(“Indian”)
Sgretolata la band e ridotti praticamente a un duo, i Cult restano ormai solo lo zoccolo duro Astbury/Duffy, ma le divergenze artistiche si acuiscono e i rapporti sono tutt’altro che idilliaci, inaciditi dagli enormi abusi e dai crescenti problemi con l’alcol di Ian, caduto in un forte stato depressivo. Raramente i due si vedono in coppia nello stesso studio, malgrado ciò, si inizia a progettare un nuovo album con l’ausilio di Todd Hoffman al basso e James Kottak degli Scorpions alla batteria, sostituiti durante le registrazioni vere e proprie da Mick Curry e Charley Drayton ai quali si aggiunge un fitto nugolo diperformer (al cello Suzie Katayama, Bentmont Tench all'organo e Scott Thurston al sintetizzatore).
Prodotto da Richie Zito, Ceremony risente di questo clima incerto, oltre tutto la release venne più volte posticipata (se non del tutto annullata in Turchia, Thailandia e Corea) a causa di una lunghissima battaglia legale fronteggiata dalla band, oggetto del contendere la foto non-autorizzata di un bimbo indio in copertina e i 61 milioni di dollari di risarcimento richiesti dai genitori Tom e Jennifer DuBray, a detta dei quali il figlioletto Eternity restò profondamente turbato nel vedere su Mtv la propria immagine arsa al rogo (assieme a quelle di John Lennon e Martin Luther King) durante le scene del video “Wild Hearted Son”. Gli Oglala del South Dakota associano il gesto alla morte, così a soli undici anni il piccolo si rifiuta di partecipare ai riti di tribù e ha paura a uscire di casa da solo. Insomma, “una condanna a morte prima ancora di avere una chance alla vita”, secondo il papà.
Tornando alla musica invece, una chance in più la merita sicuramente Ceremony, che esce il 23 settembre 1991 e, malgrado le recensioni negative, vende un milione di copie, comunque un discreto successo se si tiene conto della genesi travagliata e della contemporanea esplosione del grunge (il 24 settembre, un giorno dopo, esce “Nevermind” dei Nirvana, l'8 ottobre “Badmotorfinger” dei Soundgarden). Stilisticamente parlando non vengono introdotti grandi cambiamenti nella logica evolutiva che aveva condotto a Sonic Temple, ne scaturisce un trittico iniziale solido e ben articolato che non pare affatto offuscato ma anzi incentivato dal fenomeno-Seattle: la title “Ceremony” (singolo per il mercato spagnolo), la sanguigna “Earth Mofo” e “Wild Hearted Son” raccolgono a testa alta la sfida-noise, ma è “White” il vero gioiellino: quasi otto minuti di viaggio vedderiano attraverso la bianca purezza della natura (“Snow is crystal/ the fire is cold/ I sit back/ watch the sun turn gold”).
La scaletta non lesina altri momenti d'autore, tra cui la ballad intimista “Heart Of Soul”, le acustiche e struggenti “Sweet Salvation” e “Indian”, il piano-rock a fasi alterne “If” (con gorgheggi à-la Freddy Mercury ) e la più chiassosa “Full Tilt”, mentre il topic sui Nativi d'America appassisce stantio e ripetitivo nelle boriose “Bangkok Rain” e “Wonderland”.
In sintesi, non il miglior disco dei Cult ma sicuramente da rivalutare, o almeno così la pensano i fanatici die-hard della band che accolgono calorosi il passaggio del Ceremony Stomp Tour nelle arene (alla batteria Michael Lee, al basso Kinley "Barney" Wolfe e alle tastiere John Sinclair). Nello stesso anno approda nel Regno Unito una seconda edizione itinerante di “A Gathering Of The Tribes”, intitolata alla memoria dell'ex-collega Nigel Preston (morto un paio di settimane prima per overdose, a tre giorni dal suo ventinovesimo compleanno), ma stavolta è un flop, malgrado la presenza di Pearl Jam e Primus, e la manifestazione viene interrotta anzitempo.
Per arrotondare gli introiti ecco allora il greatest hits Pure Cult: For Rockers, Ravers, Lovers And Sinners, che nel 1993 debutta alla numero 1 delle chart britanniche trainato dal singolo (e unico inedito) “The Witch”, mentre resta fuori dalla tracklist “Zap City”, vecchio B-side di “Lil Devil” riarrangiato in quei giorni per la colonna sonora dell'horror-action “Buffy L'Ammazzavampiri”, con Sarah Michelle-Gellar. L'attività live si dipana in Grecia, Slovacchia e Turchia, con Craig Adams dei Mission al basso, Scott Garrett alla batteria e Mich Dimkich alla chitarra ritmica, quindi la stessa formazione giunge intatta a ottobre 1994, quando grazie al contributo di Bob Rock viene alla luce il sesto studio-album che apre una nuova era.
1994, il grunge, la pecora nera
Chiusa l'epopea-stardom, la carriera dei Cult prosegue con lavori dal rendimento commerciale catastrofico e ancora oggi sconosciuti ai più, ma meritevoli di esser tirati fuori dal cassetto e passati sotto la lente di ingrandimento per un'analisi lucida e obiettiva. Il primo di questi è l'eponimo The Cult che esce il 12 ottobre 1994, ancora su Beggars Banquet in Europa e (per l'ultima volta) Sire Records negli Stati Uniti.
Ogni cambiamento nel panorama musicale comporta una certa competitività e inclinazione all'adeguamento per chi è abituato a comporre con tendenze obsolete, è accaduto a fine anni 70 quando il punk serviva da antipode al progressive, ormai agli sgoccioli e risucchiato nel vortice della propria ambizione e pretenziosità, avviene di nuovo nei 90 quando la gente si rivolge parimenti a grunge e trash-metal, di opposta filosofia. I Cult si sono sempre tenuti alla larga da corsi di aggiornamento, preferendo scansare facili tentazioni pop persino nel momento di maggior gloria per puntare all-in su un revival-rock genuino e sincero, seppur datato, senza scarnificare nulla della propria ideologia al dio denaro. Con quest’album, invece, evadono per la prima volta dalla comfort-zone electric temple verso la modernità, e non è un salto nel vuoto: l'ennesimo refresh infattinon dovrebbe esser considerato un’anomalia, semmai la prosecuzione logica di un cammino che non si è mai fermato.
Inspiegabilmente ignorato dalla critica, il “Black Sheep” (soprannominato così per via dell'immagine di copertina, che ritrae un raro esemplare di Manx Loaghtana quattro cornadell'Isola di Man) non è affatto la pecora nera della discografia del gruppo che anzi, a un passo dal baratro post-Ceremony, si rimbocca con caparbietà le maniche e sembra riprendere un colorito vivace.
Il sorprendente bagno d'umiltà riporta Astbury con i piedi per terra, nascono testi profondi, intimi, personali che abbandonano le fascinazioni esotiche e si addentrano nella vita di tutti i giorni, con versi che toccano temi delicati sovente autobiografici, come la scomparsa prematura di Nigel Preston (“Naturally High”) e altri artisti, a cominciare da Kurt Cobain (“Sacred Life”), le violenze sessuali subite in Canada (“Black Sun”), i pensieri suicidi (“Joy”) o gli anni allo sbando trascorsi a Glasgow (“Coming Down (Drug Tongue)”. Il modello sonoro è pratico e contemporaneo, lo schema compositivo “luci soffuse/deflagrazione improvvisa” della spiazzante “Gone” (riuscitissima) è un must del periodo (ne sanno qualcosa gli Stone Temple Pilots di “Empty” o i Rage Against The Machine di “Darkness”, entrambi a segno sulla colonna sonora de “Il Corvo”), mentre “Naturally High” e i singoli “Star”/“Coming Down (Drug Tongue)” devono tanto agli U2 di “Achtung Baby” (stessi riff di “Mysterious Ways”, “The Fly” e “Zoo Station”, lo stratagemma farlocco però non funziona appieno).
Tra le note davvero liete la grintosa “Real Grrrl”, l'allucinata “Joy” (anticipa gli Stones più sconci di “Anybody Seen My Baby?”) e la ballad “Sacred Life”, dolce epitaffio della gioventù bruciata.
Abbe Hoffman was so young, don't you know your king is gone?
River Phoenix was so young, don't you know your price is gone?
Kurt Cobain was so young, sad to see this poet's gone
Andrew Wood was so young, it's hard to feel this priest is gone
(“Sacred Life”)
In crisi d'identità la rinunciataria “Universal You”, uno degli sporadici casi in cui vengono concessi credits al songwriting a una terza persona oltre al duo canonico (nella fattispecie Craig Adams), in crisi d'astinenza “Emperor's New Horse”, sullo scellerato uso di droghe fatto da Ian che col rock più classico “Be Free” cerca la strada della disintossicazione. “Mia madre sniffava colla, ereditai da lei quell'ego narcisistico e autodistruttivo tipico dei musicisti che muoiono attorno ai 27. Poi però visitai monasteri in Tibet, un ashram in India, le riserve dell'Arizona e abbracciai una condotta austera, ho avuto figli, ora sono pulito”. Chiusura malinconica con la rappresaglia iconoclasta “Saints Are Down”, il pezzo più riuscito del lotto (“Saints are down, your saints are down and they're not coming round, they're not easily found and they're buried in the ground”).
Fuori dalla Top 20 in Inghilterra e 69° negli Usa (magra consolazione il primo posto in Portogallo), The Cult non è da gettare alle ortiche e la band prova a incoraggiarlo in Europa col Beauty's On The Streets Tour (con loro James Stevenson dei Genes Loves Jezebel), quindi a primavera in Sudamerica col Black Rain Tour, ma dopo una tappa a Rio de Janeiro (marzo 1995) gli show vengono cancellati a causa di “problemi non meglio specificati”.
Primo break: Holy Barbarians, Colorsøund
La verità è che il clima interno al gruppo si è fatto insostenibile, a causa delle frequenti liti tra Duffy e Astbury, ormai all'ordine del giorno: troppo innamorato della sua chitarra Billy, che propone un passo indietro nel format anche per sopperire alla mancanza di risultati, troppo egocentrico e visionario Ian, che non conosce mezze misure e preferisce rompere del tutto. Giusto un paio di mesi per assorbire il colpo e i due provano a rimettersi in gioco con fortune alterne. Astbury si rinchiude a strimpellare nel suo scantinato losangelino con l’amico Patrick Sugg (chitarrista dei Lucifer Wong), tra vinili dei Beatles e cimeli dell’Everton F.C., di cui è un accanito tifoso. In quattro e quattr’otto approntano un demo, quindi il vocalist pensa che sarebbe meglio tornare a registrarlo a Liverpool, vicino casa, dove si porta appresso anche il batterista dei Cult Scott Garrett e il fratello Matt Garrett, bassista.
I quattro si ribattezzano Holy Barbarians (come un romanzo del 1959 di Lawrence Lipton) e sfornano Cream, che invece è il nome di un club in città frequentato durante le session. L’album esce nel maggio del ‘96 ben accolto dalla critica, che apprezza il sound rude intriso di psichedelia, di contro però le tracce sono piuttosto piatte e uniformi salvo “Opium”, davvero bella, “Dolly Bird” e “Magick Christian” che riescono ancora in qualche modo a emozionare.
Colpito dalla biografia di Brett Anderson, Ian prova a emularlo, ma i singoli elettro-Suede “Space Junkie” e “Brothers Fight” si accendono a intermittenza, mentre il resto della scaletta (“Bodhisattva”, la title-ballad “Cream” e “She”) si adagia su un country-folk di nuova generazione, buono per tenere in caldo la laringe. Gli Holy Barbarians si sciolgono dopo un giro in Europa e Nordamerica, va decisamente meglio a Duffy, che nel frattempo si è unito a Mike Peters degli Alarm, Craig Adams dei Mission e Steve Grantley degli Stiff Little Fingers.
Col moniker Colorsøund i quattro danno alle stampe nel 1999 un ottimo Lp eponimo, peccato anche in questo caso si tratti di una parentesi passeggera, perché “Alive”, “Fade In, Fade Out, Fade Away” e “Under The Sun” sono virtuosismirock-wave di pregevole fattura. “State Of Indipendence” è una vetrina per il talento vocale di Peters, “Heavy Rain”, invece, sposta i riflettori sul basso di Adams, “Time”, “Revolver” e “Live Through You” esaltano il machismo di Billy, sempre sugli scudi. Un gradino sotto, “This Life” e “Fountainhead”, da apprezzare le rivisitazioni live auto-celebrative “Strength” (degli Alarm) e “She Sells Sanctuary” (dei Cult).
Il super-gruppo si sfalda subito, e Duffy si tiene allenato con un paio di esercizietti ulteriori, esibendosi ad alcuni festival europei con i Vent 414 (alla voce Miles Hunt degli Wonder Stuff e alla batteria Pete Howard dei Clash) e destreggiandosi su “Pyromania” del giapponese J (1997): la guest-appearance procura di riflesso una certa pubblicità ai Cult sul bacino nipponico,e la Beggars Banquet ne approfitta per lanciare (lì e negli Usa) il best of High Octane Cult, senza però chiedere il permesso ai diretti interessati, che rinnegano la trovata definendola “abbastanza triste”. Oltre alle hit più celebri la raccolta contiene le inedite “Beauty’s On The Street” e “In The Clouds”, realizzate senza la partecipazione di Astbury e Duffy, che scansano le voci di un possibile ritorno a studio, con rammarico dei fan.
Nel bene e nel male: prove di reunion
Trascorsi cinque anni dall’ultimo The Cult, la band torna a farsi sentire almeno on stage, il che lascia ben sperare: nel 1999 viene richiamato in servizio Matt Sorum per una serie di eventi, il primo dei quali si tiene a giugno all’Alpine Valley Music Theathre nel Wisconsin nell’ambito del Free Tibet festival, sorta di Live Aid con fondi destinati alla causa nepalese che quell’anno si disloca in contemporanea tra Stati Uniti, Amsterdam, Tokio, Sydney e Taipei (coinvolti anche Beastie Boys, Run Dmc, Blondie, Wu-Tang Clan, Björk e Tracy Chapman). Segue un Cult Rising Tour degli Usa sold-out in trenta date, coronato da otto serate consecutive alla House Of Blues di Los Angeles (al basso Martyn LeNoble dei Porno For Pyros), quindi nel 2000 arriva il singolo “Painted On My Heart” (scritto da Diane Warren sulle pene d'amore) che entra nella colonna sonora del film d'azione “Gone In 60 Seconds”.
Nell’estate di quell’anno viene alla luce dopo lunga gestazione Spirit/Light/Speed, album solista di Astbury che il cantante aveva iniziato a pianificare col titolo di “Natural Born Guerrilla” tra ‘97 e ‘98, subito dopo lo scioglimento degli Holy Barbarians: prodotto da Chris Goss (c'è lui dietro Kyuss, System Of A Down e altri stoner), l'album mette in campo argomenti validi passati delittuosamente sotto silenzio, come il singolo “High Time Amplifier”, la luciferina “Back On Earth”, “Tyger” e la perla strumentale “Shambala R.F.L”, tutti nel solco di un industrial/trip-hop sinuoso e affabile, alleggerito a fil di voce in “Devil's Mouth” e “Tonight Illuminated”, entrambe di deliziosa sensibilità interpretativa. La copertina stilizzata ed “El Che/Wild Like A Flower” salutano il comandante Che Guevara, “Metaphisical Pystol”, invece, recita in spoken-word saggi del filosofo Alan Watts (“Myth And Religion” e “Democracy In Heaven”). In tono minore “It's Over” e il restyling dei Cult “The Witch”, ma comunque gradevoli.
Il nuovo millennio, dunque, si apre con segnali confortanti e sembra ridestare la verve sopita: pure gli umori si placano, così a novembre Astbury e Duffy, a differenza di quanto accaduto con High Octane Cult, danno il benestare alla pubblicazione di Pure Cult: The Singles 1984-1995, che rispolvera praticamente tutti i singoli (accompagnati da un Dvd) e ottiene grandi riconoscimenti in Canada, dove è certificato disco di platino. Pochi giorni dopo esce ad appendice Rare Cult, cofanetto in sette cd onnicomprensivo di rarità, outtake, B-side e remix, importante soprattutto perché contiene le Manor Sessions di quel vecchio “Peace” (poi divenuto Electric), altrimenti introvabili. I due inoltre si prestano con Aerosmith, Stone Temple Pilots, Train, Creed e Perry Farrell al tribute dedicato a Jim Morrison “Stoned Immaculate: The Music Of The Doors”: come Cult, si cimentano in una cover di “Wild Child”, il solo Astbury, invece, offre una bella rilettura di “Touch Me”, accompagnato dai superstiti dei Doors Ray Manzarek e Robby Krieger.
Tutte queste manovre fanno da preambolo alla reunion della band, ormai nell'aria da tempo, ciliegina sulla torta il settimo album che esce il 20 giugno 2001 e ne sigilla l'ufficialità. “Avrei voluto chiamarlo 'Bring Me The Head Of Dave Grohl', con riferimento al cantante dei Foo Fighters”, racconta Ian. “Tutto nacque dopo alcuni commenti non proprio carini che rilasciò su Alternative Press a proposito dei Cult, dopo esserci venuti a vedere una sera per scommessa, disse che gli veniva voglia di spararsi. Non ho problemi con lui, solo che ci rimanemmo male per quella dichiarazione, soprattutto perché proveniva da un artista che ammiriamo. Non sapeva nulla di noi, da dove veniamo o delle nostre scelte, né del viaggio che abbiamo intrapreso”.
Quel viaggio prosegue con Beyond Good And Evil, che alla fine prende il titolo dal saggio di Nietzsche del 1886 “Al di là del bene e del male”. Prodotto da Bob Rock in collaborazione con Mick Jones dei Foreigner, è il primo disco di inediti del gruppo da sei anni e mezzo a questa parte. Alla batteria torna Sorum (per lui è il battesimo in studio), al basso si alternano Martyn LeNoble e Chris Wyse, chitarra e voce ovviamente Ian Astbury e Billy Duffy che ritrovano la giusta alchimia e firmano in coppia tutti i brani (eccetto “Breathe”, scritto insieme a Mick Jones e Marti Fredriksen), che se non fanno “venir voglia di spararsi” non fanno nemmeno gridare al miracolo se non pochi collezionisti adepti, visto che il misero bottino di appena 500.000 copie spinge l'Atlantic Records a bloccare l'airplay e ritirarli dal mercato.
Non ci sono vere e proprie canzoni spazzatura, anche perché suoni ed effetti strizzano l'occhio ai tempi con dignità, secondo coordinate stilistiche che lambiscono il grunge più pesante degli Alice In Chains o il nu-metal di Korn, Slipknot, P.O.D. e Limp Bizkit, ma il singolo “Rise” (41° negli Usa), “Ashes And Ghosts” e “Shape The Sky” non hanno impatto melodico e difficilmente si attaccano all'orecchio. Riesce nell'impresa “Take The Power”, ma solo perché il ritornello è identico ad “American Woman” di Lenny Kravitz. Da salvare anche “American Gothic”, “War The Process” (riesuma “Mississippi Queen” dei Mountain, del 1970) e la dolcissima ballad “Nico”, questa sì di spessore lirico all'altezza dei giorni migliori (dedica alla musa dei Velvet Underground).
Per il resto, drumming spinto e chitarre isteriche non riscattano “The Saint” e “My Bridges Burn” dalla monotonia, né ci riescono i coretti appannati di “True Believers” e “Breathe”, che chiudono con scarso appeal un album (37° negli Stati Uniti) votato comunque, per quel che può valere, “Comeback Of The Year” dai lettori di Metal Edge. Dalle nostre parti però la pubblicità latita, dato che al veto dell'Atlantic Records si somma purtroppo l'attacco alle Twin Towers, che limita gli spostamenti aerei e costringe la band ad annullare la leg europea del tour. Ansia e paura attanagliano a maggior ragione la platea Usa, e gli spettacoli indoor (di nuovo con Aerosmith) si rivelano un mezzo disastro (documentato nel Dvd “Live Without Fear”, filmato il 4 ottobre 2001 all'Auditorium Grand Olympic di Los Angeles).
Doors del Ventunesimo secolo e Circo Diavolo
L'impasse commerciale non si sblocca e nel 2002 Astbury mette di nuovo in ghiacciaia i Cult a tempo indeterminato per improvvisarsi vocalist dei 21st Century Doors, ma la sua reincarnazione in Re Lucertola procura parecchi grattacapi legali agli ideatori Manzarek e Krieger, denunciati a più riprese dai familiari di Jim Morrison, dall'ex-batterista della band californiana, John Densmore, e da Stewart Copeland, anch'egli coinvolto in alcune sessions e liquidato senza troppe spiegazioni.
Alla fine ci pensa un giudice della corte di Los Angeles a porre fine alla grottesca vicenda, imponendo al gruppo di cambiare nome. Manzarek/Krieger, D21C, Riders On The Storm: comunque la si rigiri, si tratta di una serie di concerti che resuscitano il blasone della band, il più importante dei quali viene immortalato nel Dvd “L.A. Woman Live”, che consente di ascoltare, a trent'anni dal mancato tour, brani contenuti nell’Lp “L.A. Woman” del 1971, mai eseguiti dal vivo per l'improvvisa morte di Jim Morrison.
Ian lascia un'impronta inequivocabile, coronando il sogno di impersonare il suo idolo, e galvanizzato dall'esperienza nel 2005 raduna i Cult per pianificare il Return To The Wild World Tour, che nel 2006 li riporta sul palco dopo circa tre anni e mezzo di assenza. Sorum, nel frattempo, è passato ai Velvet Revolver, e viene sostituito alla batteria dall'ex-Testament/White Zombie John Tempesta. Il warm-up si tiene al “Late, Late Show With Craig Ferguson”, quindi l'inaugurazione vera e propria nel marzo 2006 al Fillmore di San Francisco, cui seguono varie tappe in Canada, centro Europa (Polonia, Serbia, Bulgaria) e Sudamerica, tutte registrate in loco da Instant Live e distribuite a fine serata. Tra le chicche in setlist, “Brother Wolf, Sister Moon” (dopo il 1986 era stata cantata solo una volta dal vivo) e “Hollow Man” (che mancava dal 1987).
Per niente logoro, l'infaticabile Billy Duffy, neo-papà della piccola Shiloh, riesce a ritagliarsi nello stesso anno uno spazio con i Circus Diablo (al suo fianco Bill Morrison, Ricky Warwick, Matt Sorum e Brett Scallions), ma il loro millantato disco eponimo non mantiene le promesse e degenera in un disgraziato pop-punk da teenager in salsa Blink 182, Good Charlotte e Sum 41 (suscitano un moderato interesse “Hello, Goodbye” e “Red Sun Rising”, meno ruffiane e appiccicose).
Riecco i Cult: dal 2007 ai giorni nostri
Nonostante i mezzi passi falsi e qualche stecca di troppo, la saga dei Cult non si ferma e nel febbraio 2007 Ian Astbury dichiara di voler disdire gli accordi presi con i Riders On The Storm per concentrarsi esclusivamente sulla propria musica. Dapprima viene annunciato un nuovo tour europeo della band a supporto degli Who, che si apre a Rotterdam il 5 giugno e prosegue sino all'estate, quindi arriva un contratto con l'etichetta metal Roadrunner Records, che il 1° ottobre pubblica Born Into This, ottavo studio-album registrato tra Londra, Los Angeles e Buenos Aires.
Prodotto da Martin "Youth" Glover dei Killing Joke, il disco non cambia marcia rispetto all'opaco Beyond Good And Evil, ma trova un amalgama più coeso e omogeneo, in virtù di una strumentazione minimale che rende brani deficitari tutto sommato piacevoli all'orecchio (spiccano l'ariosa “Citizens”, “Illuminated” e la bonus “Stand Alone”, con ritmiche rocciose e aperture dal cuore tenero à-la Manic Street Preachers). Duffy si prodiga in riff asciutti ed essenziali, tralasciando invadenti impennate da guitar-hero (“I Assassin”, “Diamonds” e “Savages”), Astbury rinsalda il credo combinandoli con discrete linee vocali (la corposa title track “Born Into This” e l'elettrica “Dirty Little Rockstar”) e il gioco è fatto, senza troppi sobbalzi. Da ascoltare “Holy Mountains”, graziosa ballatina semiacustica a metà strada tra Johnny Cash e i Soul Asylum di “Runaway Train”.
Anche in questo caso, però, le casse piangono (in Italia ad esempio il disco è 63°, altrove va ancora peggio) e dopo il tour mondiale la Roadrunner li lascia a piedi. I nostri però non si perdono d'animo e puntano sul sicuro col remastering di Love (l'omnibus-box set in 4 cd accorpa B-side e demo), che a un anno dal venticinquennale dalla release originale riporta il loro capolavoro in giro per Usa e Regno Unito, con chiusura il 10 ottobre 2009 alla Royal Albert Hall di Londra (le registrazioni di ogni spettacolo vennero distribuite al pubblico su unità flash-Usb).
Il Love Live Tour prosegue nel 2010 in Australia, Nuova Zelanda, Giappone e ancora Stati Uniti, quindi la band approda al “Sonisphere” in Inghilterra (dove si divide il palco con Iggy Pop & The Stooges) e al Pinkpop in Olanda.
Per quanto riguarda il materiale nuovo, il 14 settembre viene presentata la prima registrazione nell'innovativo formato capsule, realizzata attraverso partnership con Aderra Media Technologies. Si tratta di un Ep disponibile in diversi supporti (Mp3, cd/Dvd dual disc e vinile 12 pollici) ma solo in edizione limitata e per una quantità di tempo limitato, che in sostanza contiene due canzoni, “Every Man And Every Woman Is A Star” e “Siberia”, oltre a estratti del Love Live Tour e un cortometraggio, “A Prelude To Ruins”, girato da Ian Astbury e Rick Rogers. Ideato da Chris Goss, il pacchetto viene presentato alla stampa come “un mix di chitarre violente, performance vocali emotive con alta melodia e ritmi di guida”. In un'intervista a Planet Rock, invece, Billy Duffy ha parlato del concetto di “capsula” e di come si differenzia dal modo in cui la band ha pubblicato musica in passato. “Credo si debba vivere sotto una roccia per non capire che il business è cambiato. Nell'era Internet le persone, non tutte a dire il vero, ma molte di loro, si trovano a proprio agio nel download, e il fatto che non ci siano quasi più negozi dove acquistare musica è indicativo di abitudini che si stanno modificando. In passato dovevamo ottenere un contratto, scrivere etc., stavolta invece Ian sentiva fortemente che avrebbe preferito registrare due, tre, quattro pezzi e portarli là fuori mentre sono ancora freschi, invece di passare un sacco di tempo a provare un intero album. Questo era il sentimento suo e della nostra etichetta New Wilderness, e in qualche modo mi trovo d'accordo, puoi chiamarlo 'capsula', 'Ep' o come ti pare, ma il limite di attenzione della gente si sta accorciando e bisogna sbrigarsi”.
La band ci prende gusto e il 16 novembre 2010 rilascia tramite webstore dell'Aderra una seconda capsula col brano “Embers”, quindi il 21 gennaio 2011 tiene uno spettacolo all'Hammersmith Apollo supportata dai Masters Of Reality dell'amico Chris Goss, col quale rinsalda i rapporti in vista del nono album Choice Of Weapon. Prima però c'è spazio per “Weapon Of Choice”, prequel digital-only reso disponibile su i-Tunes per un paio di mesi a partire dal 16 ottobre (contiene in embrione i brani che costituiranno l'ossatura del disco). “Queste canzoni sono state rigirate e capovolte, forgiate in lunghe prove e sessioni di scrittura ed emanate da sfide sia umane che professionali”, racconta Ian, che aggiunge: “Chris ha creato l'ambiente ideale, noi abbiamo chiuso le porte e iniziato a esplorare spazi in cui non eravamo stati per un po’”.
Escamotage pubblicitari e tecnologici a parte, l'album vero e proprio esce il 22 maggio 2012 su Cooking Vynil e attinge dagli sforzi di un'intera carriera. Serviva una sferzata, una mossa scattante per ripresentarsi agguerriti con un disco che suona profetico sin dal nome, dove risplendono accenni di punk '77 (per esempio in “Honey With A Knife” e “The Wolf”) riletti in una chiave assai simile al Neil Young più chitarroso. “Elemental Light” e “Wilderness Now” lasciano un omaggio alla vecchia scena dark da prospettive diverse, drammatica e teatrale la prima, crepuscolare la seconda, più vicina ai Red Temple Spirits.
Lo spettro di Sonic Temple aleggia impavido sulle ballate “Life>Death” e “This Night In The City Forever”, dedicata a un amico suicidatosi di recente, mentre destrezza e compattezza della band diventano adrenalina stoniana pura nei geniali singoli “For The Animal” e “Lucifer”. Certo “A Pale Horse” e “Amnesia” giocano un po' troppo la carta del mestiere e possono sembrare a tutti gli effetti un riempitivo, nel complesso però Choice Of Weapon strappa la sufficienza piena e anche qualcosina in più, rinfocolando la credibilità del brand.
Nel 2013 viene diffuso negli Usa Electric/Peace, che finalmente rilega in un corpo unico tutto il materiale edito (e non) riguardante quella release, quindi Duffy vara la riapertura del cantiere e il 5 febbraio 2016 arriva il decimo Hidden City, atto conclusivo di una trilogia ideale inaugurata da Born Into This. Pubblicato da Cooking Vynil e Dine Alone Records, è il primo dal self-titled del 1994 senza il bassista Chris Wise, ne fanno le veci Bob Rock (alla quinta regia) e Chris Chaney dei Jane's Addiction. Stavolta non ci sono simboli apache o figure enigmatiche in copertina, ma uno schizzo di sangue vermiglio su un giglio bianco a sancire il legame ineluttabile tra dolore e purezza.
L'album, che si nutre di contrasti, rappresenta una summa di tutti i punti di forza di una carriera che, dopo oltre trent'anni, prosegue senza un vero modello esplicito. Sul versante dei testi è un disco intimo, con le ferite aperte bene in vista. Astbury calibra al meglio potenza ed espressività laddove il suo strumento deve svettare, mentre altrove si fa crooner confidenziale. Duffy, invece, fa ciò che ha sempre saputo fare, ovvero disegna riff efficacissimi ma con più disciplina rispetto al solito, merito anche del produttore Bob Rock che ha confezionato un lavoro mai inutilmente appesantito, inserendo anche piano e tastiere (suonate da Jamie Muhoberac, già al servizio di Fleetwood Mac, Chris Cornell e My Chemical Romance) senza snaturare la ricetta del classico Cult-sound. John Tempesta festeggia gli ormai dieci anni di sodalizio con la band, mentre il basso del neo-arruolato Chris Chaney ha presenza e carattere specie nell'highlight “Hinterland” (dalle parti di certi Primal Scream o dei Simple Minds di “Lovesong”).
Love turns to hate when the heart loses faith
Fear turns to blood, turns to dirt on a grave
(“No Love Lost”)
“No Love Lost” può puntare senza fatica allo status di modern classic (guarda ancora agli Alice In Chains e alle sonorità dure di Beyond Good And Evil), mentre la successiva “Dance In The Night” è più imparentata coi New Order di “Get Ready” e con gli U2 primi anni Novanta. L’ombra di Jim Morrison torna ad aggirarsi nella ballata “In Blood”, dove piano, chitarre e archi sintetizzati dialogano rispettando i turni di parola. Tutto in perfetto ordine nella scena sonora laneganiana “Birds Of Paradise”, si inserisce invece un po' più a fatica nel contesto generale “G O A T”, dal suono meno denso, più secco ed elementare (in pieno stile electric).
L'atmosfera cambia ancora una volta con “Deep Ordered Chaos”, Parigi è sotto attacco un anno dopo la strage di Charlie Hebdo. “I'm an European, patience is my daughter, is this the western dream? Defend our liberty!”, canta sommesso Astbury, quasi cinquantacinque anni suonati e sempre una storia da raccontare. “Avalanche Of Light” indovina un ritornello rock particolarmente felice, mentre “Lilies” si ammanta di un'insolita veste gipsy con chitarra acustica e piano elettrico.
Chiudono il cerchio l'altro rock by numbers “Heathens”, in odor di Rolling Stones ultima maniera, e “Sound And Fury”, lenta canzone d'amore al pianoforte, vulnerabile, con forti richiami al modello Bowie anni Settanta.
Dopo anni d'incertezze Hidden City rappresenta una resurrezione artistica (buona anche l'accoglienza nel Regno Unito dove raggiunge un'onorevole diciannovesima posizione), se ne accorge probabilmente anche Dave Grohl, che in occasione del NOS Alive Festival di Lisbona del luglio 2017 (Foo Fighters e Cult sono di scena insieme a Depeche Mode, Kills e Image Dragons) coglie l'occasione per appacificarsi con la band. “È venuto in camerino e si è avvicinato a me dicendo ‘Ciao, io sono Dave Grohl. Non ho capito bene cosa sia accaduto in passato, ma è un piacere conoscerti’”, racconta Ian, che non serba rancore: “Gli strinsi la mano, nella musica c'è spazio per tutti”.
Interrogato nell'aprile 2018 da Guitar World sul futuro, Billy Duffy risponde con un laconico “Never say never”, Ian Astbury concede invece alcuni dettagli in più ai giornalisti di L.A. Weekly e Atlantic City Weekly strappando una promessa. “ Ci stiamo lavorando, abbiamo un contratto con la Black Hill Records e un po' di canzoni, ma è ancora lunga…”. E proprio la Black Hill Records nell'ottobre 2022 pubblica Under The Midnight Sun (2022), sulla cui copertina campeggia a caratteri romani il numero undici, simbolo di intuizione e spiccata sensibilità percettiva che tiene non solo il conteggio degli album pubblicati ma in qualche modo anticipa anche i contenuti di un lavoro che, sia pur a tratti, mantiene fede alle premesse. D'altronde nel corso di una rispettabile carriera lunga ormai quarant'anni Ian Astbury ci ha abituati a versi intrisi di spiritualità, filosofia, occultismo e religione, capaci perciò di rinnovare il fascino della saga e tenere comunque viva l'attenzione. Stavolta nel mirino finisce il sole di mezzanotte, fenomeno osservato nel giugno '86 in Finlandia allorché i Cult presero parte al Provinssinrock Festival. Echi post-punk dal passato pre-Electric affiorano sin da “Mirror”, che in apertura dispone le pedine su una scacchiera sonora che fa della breve durata (appena 35 minuti) il suo insospettabile punto di forza. I potenti riff di chitarra di “Outer Heaven” ben si intrecciano al drumming forsennato di John Tempesta, sullo sfondo un baritono proverbialmente melodrammatico che sarà il leit motiv anche della ruvida “A Cut Inside” e di “Vendetta X”, quest'ultima dalle venature electro e in debito con “Don't Fear The Reaper” dei Blue Oyster Cult negli arpeggi dell'intro.
“Impermanence”, di sapore goth, è quella maggiormente vicina al gusto delle radici, per il resto le influenze più evidenti sono le stesse che hanno segnato gli umori nella seconda metà degli anni Ottanta: nella ballad orchestrale “Knife Through Butterfly Heart” tornano a materializzarsi graffiti zeppeliniani già testati in Sonic Temple), mentre nell'ode alla luce polare che dà il titolo all'opera aleggia onnipresente lo spettro di Jim Morrison (“under the midnight sun with creatures of the wild/ lost in love's illusion all will fade in time”). In ultimo la claustrofobica supplica del singolo di lancio “Give Me Mercy”, degna del Nick Cave più sobrio e probabilmente l'unica destinata a memoria futura, ma dal momento che l'obiettivo dei Cult non è mai stata la gloria radiofonica nel complesso Under The Midnight Sun conferma positivi segnali di risveglio.
Contributi di Alessandro Liccardo ("Love", "Hidden City") e di Giorgio Moltisanti ("Choice Of Weapon")
THE CULT | ||
Southern Death Cult (Beggars Banquet, 1983) | 6,5 | |
Dreamtime (Beggars Banquet, 1984) | 7,5 | |
Love (Beggars Banquet, 1985) | 9 | |
Electric (Beggars Banquet/ Sire, 1987) | 5,5 | |
Sonic Temple (Beggars Banquet/ Sire, 1989) | 7 | |
Ceremony (Beggars Banquet, 1991) | 6 | |
Pure Cult: For Rockers, Ravers, Lovers And Sinners (antologia, Beggars Banquet, 1993) | 7,5 | |
The Cult (Beggars Banquet, 1994) | 6,5 | |
Beyond Good And Evil (Beggars Banquet, 2001) | 5 | |
Born Into This (Roadrunner Records, 2007) | 5,5 | |
Choice Of Weapon (Cooking Vinyl, 2012) | 6 | |
Hidden City (Cooking Vinyl, 2016) | 7 | |
Under The Midnight Sun (Black Hill Records, 2022) | 7 | |
HOLY BARBARIANS | ||
Cream (Beggars Banquet, 1996) | 5 | |
IAN ASTBURY | ||
Spirit/Light Speed (Beggars Banquet, 2000) | 7,5 | |
COLORSOUND | ||
Coloursøund (The Twenty First Century Recording Company, 1999) | ||
CIRCUS DIABLO | ||
Circus Diablo (Koch, 2007) |
She Sells Sanctuary | |
Rain (videoclip, da Love, 1985) | |
Revolution | |
Love Removal Machine | |
Lil Devil | |
Edie (Ciao Baby) | |
Heart Of Soul | |
Coming Down (Grug Tongue) | |
Rise | |
Honey From A Knife | |
Hinterland |