A quasi tre lustri di distanza, si può iniziare a guardare alla vicenda con un certo distacco e lucidità: tra il 2009 e il 2014 circa si creò una vera e propria scena indie britannica che, seppur con qualche grado di parentela, fu sostanzialmente molto diversa dalla precedente, per certi versi pure in netto contrasto, ma di cui quasi nessuno si accorse, se non in termini di scoperta delle singole band, quantomeno nell'identificazione generale della tendenza.
L'avvio di questo corso si può individuare in formazioni come Glasvegas e soprattutto nei White Lies di "To Lose My Life", rilasciato nel gennaio 2009, al quale fecero seguito alcuni altri dischi nello stesso anno, tra cui "In This Light And On This Evening" degli Editors. La critica ha inserito questi lavori nel generico calderone post-punk revival che interessò una gran parte della scena indie britannica del nuovo millennio. Questa lettura è però foriera di un non indifferente grado di approssimazione distorsiva della realtà dei fatti, per almeno due motivazioni:
- la prima è di ordine sonoro. Se da un lato è senz'altro innegabile la radice bianca e databile al post-punk dei primi anni Ottanta che accomuna le succitate band e Franz Ferdinand, primi Arctic Monkeys (ma anche primi Editors), Razorlight, Bloc Party, Kasabian ecc., dall'altro è netto lo smarcamento nell'approccio adottato a partire dalle stesse influenze. Laddove infatti le band emerse tra il 2004 e il 2006 adottavano un suono scarno, fatto di chitarre aggressive e sottili, l'elemento garage è andato totalmente a perdersi in White Lies ed Editors, che invece sfoggiavano un sound magniloquente, pieno di riverberi sia sulla voce che sulle chitarre, con uno spettro sonoro riempito di molti arrangiamenti di tastiere e chitarre;
- la seconda è diretta conseguenza del punto precedente. Il nuovo approccio, massimalista nell'arrangiamento e produzione ma romantico e intimista negli umori, ha unito una pletora di band che, analizzate con il rigido occhio del critico storicista, sarebbero ascritte a generi diversi. Così, ad esempio, lo shoegaze ha incontrato una forma muscolare e scintillante in band come Chapel Club e TOY, il wall of sound spectoriano è tornato in vesti arty-shoegazing nei Glasvegas o nei Vaccines, formazioni come The Heartbreaks, Egyptian Hip Hop, O.Children hanno dato nuova linfa rispettivamente a jangle-pop, synth-pop/new romantic e gothic-rock seguendo questa rinnovata vena "big music". Persino l'indie-pop etereo a un passo dal twee negli Swim Deep ha presentato arrangiamenti espansi, bassi pulsanti e un ricco affastellamento di tessiture sonore.
Ci potrebbe essere poi un terzo punto: salvo sporadiche eccezioni, quasi nessuna delle formazioni citate ha ottenuto risultati paragonabili alle più importanti della stagione precedente.
Ad ogni modo, questo
new british spleen ha avuto una band che più di tutte si può dire ne sia stata il simbolo: i londinesi
Horrors hanno infatti riletto nei loro dischi post-punk, shoegaze, gothic-rock,
kraut, baggy, psichedelia, space rock, alternative dance con una formula ambiziosa, spesso rivolta a una sorta di estatica magnificenza. Singolare destino, visti gli esordi: nel 2007 il quintetto capitanato dal cantante Faris Badwan esordì con "
Strange House", ovvero l'album più smaccatamente
garage revival di tutto il garage revival. L'estetica con cui la band si impose e divenne una sensazione
underground era scioccante ed eccessiva, sia nel look, sfarzoso e vampiresco, sia nel brutale misto tra garage punk e gothic-rock della musica.
L'era "Strange House" è stata sostanzialmente rinnegata dalla stessa band, se non a parole, quantomeno nei fatti, dal momento che le canzoni di quel disco sono state riproposte dal vivo sempre più raramente nel corso degli anni, e pure molti fan considerano "quegli" Horrors fondamentalmente una band diversa rispetto a ciò che sarebbe seguito. Se è impossibile confutare totalmente quest'ultima asserzione, è bene notare però almeno due caratteristiche determinanti già presenti nella prima incarnazione della band: una conoscenza della musica pop-rock enciclopedica, tramutata in un suono che scientificamente riporta in auge e dà vita completamente nuova alle formazioni più disparate, si pensi in questo caso specifico ai
Cramps1, e un'attenzione maniacale, ossessiva per l'ingegneria del suono.
Forti del buon successo ottenuto, Badwan e compagni decidono di alzare ulteriormente le proprie ambizioni; sotto l'egida dell'architetto del suono
Portishead Geoff Barrow, il 4 maggio 2009 pubblicano "Primary Colours", album-cardine della loro carriera e dell'intero
non-movimento di cui si è trattato nell'introduzione. Quella che solo due anni prima era una formazione punk orrorifica tanto curata quanto unidirezionale diventa un gruppo
arty sofisticato, composito, in grado di gestire la complessità della contraddizione approdando a sintesi inedite.
Infatti, sin da "Mirror's Image", traccia d'apertura, è chiara l'intenzione di inghiottire coltri di chitarra shoegaze dentro marziali
pattern ritmici post-punk e lugubri atmosfere gothic-rock. L'operazione è ad alto rischio, se si pensa a quanto in contrasto siano storicamente le rispettive estetiche: onirica e sfumata quella shoegaze, macabra e tagliente quella post-punk dalle tinte gotiche. Ma esse s'incontrano in un impensabile sposalizio nelle chitarre di Joshua Hayward, autentico scienziato di
pedalboard da lui stesso assemblate, e nella voce profonda e baritonale di Faris Badwan. Il primo spazia senza problemi da tessiture in
reverse di chitarra elettrica arpeggiata a saturi accordi di
glide guitar, stile reso celebre tra anni 80 e 90 da Kevin Shields dei
My Bloody Valentine, mentre il secondo muta decisamente il canto urlato del primo disco in uno declamatorio, sapientemente in grado di sfruttare le spezzature della voce per accrescere l'effetto drammatico.
Per niente secondario è poi l'apporto degli altri tre musicisti, che sono anzi essenziali alla riuscita musicale complessiva: la sezione ritmica, composta dal batterista Joseph Spurgeon e dal bassista Rhys Webb, è metronomica, con il primo a creare martellanti figure tra cassa, rullante e
hi-hat, e il secondo a prodursi in implacabili toniche di basso in ottavi, mentre le tastiere di Tom Furse
2 dipingono dapprima una lunga e pacifica introduzione ambientale, quasi new age, per poi fare più volte capolino con un ossessivo tema di sintetizzatori.
"Three Decades" esaspera ulteriormente la
glide guitar e tradisce la chiara devozione del cantante a
Peter Murphy, mentre "Who Can Say", secondo singolo estratto dall'album, è una nenia da incubo: la linea vocale e il tema di tastiere sono orecchiabili e in maggiore, ma l'una è filtrata da una decisa distorsione e l'altra utilizza un suono di sintetizzatore con armonizzazioni leggermente stonate, dall'effetto molto sinistro. Il basso e la chitarra violentano ogni forma di possibile delicatezza con distorsioni e
feedback. Il giro armonico e la melodia tradiscono tuttavia una chiara ispirazione
vocal/girl group, resa palese dall'esplicita citazione presente nel testo a "She Cried" dei Jay and the Americans, anche nota per una cover delle Shangri-La's (ribattezzata per l'occasione "He Cried"):
And when I told her I didn't love her anymore, she cried
And when I told her her kisses were not like before, she cried
And when I told her another girl had caught me eyes, she cried
And then I kissed her with a kiss that could only mean goodbye
Per chi fosse curioso, è piuttosto esilarante raffrontare la vecchia canzone con la sua post-moderna e spiritata controparte.
"New Ice Age" ha una lunga
intro in cui l'elettrica suona ostinatamente un
riff con un intervallo di tre toni (il tipo di distanza tra note che se suonate contemporaneamente va a formare il cosiddetto "accordo del diavolo"), con gli altri strumenti a creare un esasperato e maligno crescendo. "Scarlet Fields" è il banco di prova per la sezione ritmica, che governa la canzone a livello dinamico, lasciando libero spazio alle pennellate astratte di chitarra e synth, mentre la linea vocale è paradigmatica del nuovo approccio più melodico di Badwan.
"I Only Think Of You" è una litania tossica alla
Velvet Underground, dove non a caso Spurgeon suona un
pattern ritmico estremamente semplice e tribale, quasi a ricordare lo stile di Moe Tucker. "I Can't Control Myself" è il legame residuo con lo psychobilly/garage che li ha visti emergere, suonato prediligendo la sofisticazione sonora all'aggressività, mentre la
title track fa sfoggio di organi neo-psichedelici e di chitarre noise su un ritmo di batteria quasi Motown.
L'album si conclude con "Sea Within a Sea", che, nonostante la sua durata di otto minuti, è stata il primo singolo di presentazione dell'album. Scelta senza dubbio estrema, com'è prassi per la band britannica, ma sostanzialmente inevitabile, dal momento che questa sorta di mini-suite ne è probabilmente il brano più rappresentativo dell'intera discografia. L'
incipit mette subito le cose in chiaro: il battito
motorik di Spurgeon e le toniche suonate in ottavi da Rhys Webb sono così precisi e inesorabili da risultare come una sorta di presenza costante per la quasi totalità del pezzo. Nel minuto abbondante di introduzione l'atmosfera è quanto di più vicino a una sorta di versione
smooth delle epiche cavalcate spaziali degli
Hawkwind; l'atmosfera è resa ancor più sospesa dalla frase di tre note identiche mandata in
loopdalla chitarra elettrica. Fa quindi il suo ingresso Badwan, a declamare un testo dal tono messianico:
Marciando verso il mare
I loro sogni restano nelle ombre
I loro sogni restano fermamente radicati nelle secche
Vedi il cielo che raschia
Vedi la mia destinazione, vedi la mia destinazione qui stanotte
La voce intona una melodia in maggiore, mentre a livello armonico l'intera strofa gira attorno agli accordi di Fa diesis e Sol con quinta diminuita, una sequenza armonica essenziale ma in grado di fornire un forte senso di irresolutezza e sospensione. Conclusa la sezione cantata, si apre una breve esplosione di suoni cosmici e dissonanti, suonati sia da pad di tastiera sia dalla chitarra elettrica, caricata a tal punto di effetti di vario tipo
3 da risultare quasi irriconoscibile. A seguito di una breve pausa ad appannaggio di cassa e basso, con i due musicisti trasformatisi ormai in metronomi umani, fa capolino un inaspettato
sequencer dal suono
Chicago house, parente prossimo di quello che apre la mitologica "Your Love" di
Frankie Knuckles (di cui non a caso gli Horrors daranno una loro interpretazione nel 2014). Torna quindi la melodia vocale, sempre nella stessa scala, ma l'atmosfera attorno è cambiata: la band suona ora un giro armonico di Fa diesis maggiore, senza tensioni o diminuite, restituendo una sensazione solenne. Il lungo finale si ripete in
loop, con la sezione ritmica che progressivamente sfuma, lasciando spazio a una coda ad appannaggio del solo Tom Furse e del suo gusto nella ricerca timbrica.
"Primary Colours" venne accolto piuttosto favorevolmente all'epoca della sua uscita, ma più in patria che all'infuori: Nme lo fece disco dell'anno, cercando di soffiare vento su una delle band in quel momento più promettenti dell'intera Gran Bretagna; tuttavia la critica americana rimase tiepida e riviste importantissime come Pitchfork non gli diedero poi grande risalto, forse per disinteresse, forse per via di una linea editoriale in quel periodo caratterizzata da un generale ostracismo verso la musica indipendente britannica.
La band di Southend-on-Sea ottenne poi un riscontro crescente con il successivo "
Skying", che arrivò al numero 5 della classifica britannica e ottenne il disco d'argento, sulla spinta del singolo "Still Life", ma quando tutto sembrava apparecchiato per il salto decisivo, "
Luminous", controparte celestiale di "Primary Colours", fece un sostanziale buco nell'acqua. A seguito di risultati probabilmente non all'altezza delle ambizioni e delle aspettative, gli Horrors hanno poi tentato la carta Paul Epworth, con cui produssero "
V" nel 2017, album dai sicuri motivi di interesse ma sostanzialmente indeciso sulla strada da prendere. Il recentissimo Ep "
Lout" li vede tornare un po' goffamente alle proprie origini orrorifiche, stavolta con un'improbabile svolta
industrial metal, ma quel che resta è ormai la sensazione di una formazione che ha perso il treno per consacrarsi definitivamente, per lo meno nel breve periodo.
Appurata la mancanza di sostegno da parte delle sempre più sparute frange rilevanti della critica internazionale, troppo spesso perse in piccole battaglie di posizionamento ideologico, viene da chiedersi cosa sia mancato affinché il pubblico alternativo applaudisse trionfale a una formula così sofisticata e priva di compromessi. Difficile ottenere una risposta univoca; forse la complessità degli Horrors e la necessaria conoscenza storica che richiedono per essere compresi fino in fondo sono eccessive per platee sempre meno educate alla sensibilità in musica o forse, semplicemente, i tempi hanno mutato le attitudini generali senza possibilità di ricorso. Restano una manciata di dischi stratificati, colti ma anche melodici e artisticamente pop, di cui "Primary Colours" è
summa e pietra angolare, per la carriera della band e per un'intera stagione di musica indipendente nazionale.
1 Il tributo al mondo garage/horror si fa esplicito con "Jack The Ripper", tratta dall'omonimo brano di Clarence Stacy del 1961
, ma portata al successo due anni più tardi dalla cover di Screaming Lord Sutch, oscuro artista rock'n'roll che proponeva una prima rudimentale forma di rock gotico, almeno nel tono macabro delle sue canzoni.
2 Fatto più unico che raro nella storia del rock: Rhys Webb e Tom Furse hanno in realtà esordito rispettivamente come tastierista e bassista nell'era "Strange House", per poi scambiarsi di posto e andare a formare la
line-up definitiva del gruppo.
3 In particolare, si possono notare pedali
octaver settati sulle ottave alte ad attribuire un suono simile a quello di un violino, ritardi nell'attacco e pesanti riverberi.
11/12/2022