Fucked Up

Dose Your Dreams

2018 (Merge)
psychedelic hardcore

La prima volta che ho ascoltato "David Comes To Life" mi trovavo… no, non me lo ricordo, ma quando si parla di cose importanti bisogna sempre esordire con una frase del genere: e quel disco lo era, diamine se lo era. Non mi sovviene dove fossi o cosa stessi facendo prima di premere "play", ma la sensazione che provai ce l'ho ancora stampata in testa: fu come assistere in diretta a qualcosa di grosso, che ti travolge, urlandoti in faccia fino a squarciarsi i polmoni e costringendoti a dedicargli l'attenzione che merita. Più o meno come affacciarmi alla finestra e veder passare un corteo con la testa del despota di turno, o scorgere in lontananza una lotta senza quartiere in cui le uniformi stanno avendo la peggio: qualcosa che ti fa improvvisamente sentire parte di una Storia che finirà sui libri, una scarica elettrica da drizzarsi in piedi e prendere parte a una rivoluzione che, per una volta, forse non è condannata da principio, e se fallirà perlomeno avrà cambiato la tua vita. Nell'epoca dell'effimero elevato a dogma disfattista, la narrazione impetuosa dei Fucked Up è bigger than life per vocazione e sembra nata per durare in eterno, come i classici senza tempo a cui s'ispira. Ben pochi artisti, nell'ultimo decennio, sono riusciti a costruire una saga tanto epica in un formato tanto urgente, servendosi solo della strumentazione rock standard. Se furia e raffinatezza si sposano nel segno dell’ambizione sfrenata, dal matrimonio non potranno che nascere figli sani.

Più passano gli anni e i dischi, più si rafforza l'impressione che il sestetto di Toronto sia destinato a non riprendersi del tutto da quella folgorante sbornia creativa, episodio forse irripetibile in una carriera comunque sempre luminosa ("The Chemistry Of Common Life" e "Glass Boys", rispettivamente predecessore e successore, brillano meno solo perché separati da una cometa così accecante). Dopo essere stata cristallizzata con precisione da laboratorio, la loro formula pare non potersi spingere oltre, ammettendo giusto qualche lieve correzione: se il sound ha raggiunto il suo punto di stabilità e non avrebbe senso stravolgerlo, nessuno vieta però di aggiungere nuovi elementi per corroborarne l'efficacia.
Esordio su scuderia Merge cotto a fuoco lento per due anni, "Dose Your Dreams" gioca proprio questa carta, tempestando i suoi diciotto atti con colorati inserti strumentali (fiati, archi, tastiere, cori, elettronica) che portano alle estreme conseguenze l'anima più psichedelica e barocca della band (anche nella durata: la bellezza di 82 minuti, almeno in parte francamente superflui). Più che "il loro 'Screamadelica'", come ci ha tenuto a dichiarare lo zelante co-arrangiatore Owen Pallett, è un po’ il loro "Mellon Collie" (laddove "DCTL", manco a dirlo, era il loro "Zen Arcade"): la scelta del doppio disco, il proemio pianistico e il mimetismo nel metabolizzare soluzioni datate sembrano se non altro mirare da quelle parti. L'abilità nel servirsi dello studio di registrazione è allo zenith almeno quanto l'inestinguibile fuoco tonsillare di Damian Abraham, e ciò è sufficiente a mascherare qualche avvertibile calo nella composizione di queste mini-sinfonie, che quando difettano di un'ispirazione a serramanico quantomeno non lesinano in suggestione. Come sempre abbondano i guest vocalist, per lo più sconosciuti, a dipingere un grande affresco corale.

Stavolta non c'è solo una storia (in realtà così nebulosa da essere il più delle volte lasciata alla libera interpretazione), ma anche una tesi, chiarita in un comunicato dai toni quasi springsteeniani, a metà tra un tazebao sessantottino e un manuale motivazionale, commovente nella sua scalmanata ingenuità: si apre puntualizzando che "this album is about the freedom to live, to dream, and to make new dreams come alive in our real lives, which have been fed over to the forces of greed, reification, consumerism, and social media" e si chiude scagliandosi contro "those so afraid that their only dream was to make money, and to make sure everyone had the same dream, those who would scold us, and make laws against us, and send us to work and to school, to shoot us and kill us and to lock us up and distract us", con in mezzo una frase che suona come una dichiarazione d'intenti sulle loro strategie creative: "I can still remember when there were other dreams to be had. We read fantasies and history and the adventures of those who came before us, the failed romantic revolutions, and the struggles to make something different".

Sin dalla copertina, in cui un'emoticon mastodontica sorge tra i grattacieli facendoli sciogliere come orologi di Dalì, il leit-motiv è quello della simulazione che soverchia la realtà, svuotandola di senso e annientando le coscienze di chi la abita. La raccomandazione di "dosare i propri sogni" non è dunque un invito a ridurre le proprie ambizioni, ma a miscelare le polveri per ottenere la carica esplosiva più dirompente, liberando se stessi e il mondo dall'oppressione dei mediocri che ci vorrebbero come loro: anche solo per l'uso spericolato di simili argomenti, è un lavoro prezioso e, di questi tempi, pressoché unico. L'energia sovrumana che aveva sferzato la storia d'amore tra David e Veronica viene calata nella vita quotidiana e messa al servizio di tante piccole rivolte davanti allo specchio, sobillate dai latrati raschianti del miglior frontman della sua generazione, con un effetto simile a una corsa a perdifiato per seminare un battaglione in tenuta antisommossa. E' un album da sparare a volumi alti, imperfetto ma dannatamente autentico, a dispetto della sua natura effettistica e iper-prodotta.

Per massimizzare la potenza di fuoco richiamano in servizio David in persona, riannodando la vicenda da dove l'avevamo lasciata, ma spogliandola degli orpelli romantici e innestandola in un grigio contesto lavorativo. Il tempo di un sognante intro di pianoforte e "None Of Your Buisness" ci azzanna subito alla giugulare, facendoci piombare in una trama che fila a velocità folle. Troviamo il protagonista in ufficio, perso nei pensieri in cui si rifugia dalla sua opprimente routine, tra fantasie di evasione e un autistico carico di significato sui piccoli gesti della sua quotidianità. Si sente strano, è nell'aria che il castello di carte stia per crollare (formidabile in questo senso l'abbrivio: "Excuse me sir, I think I'm lost/ I must have got my wires crossed/ I came the way I always do/ But the things here all seem somehow new"). Incontra (o crede di incontrare) un personaggio misterioso che, scandendo il motto del titolo, gli spalanca gli occhi sulla sua miseria. Il capo lo sorprende in quel momento di smarrimento: licenziato in tronco. La scrittura è come sempre affastellata, ellittica, concitata anche più della musica.
Un arpeggiatore accompagna la sua uscita in strada che diventa una seconda nascita a suon di chitarre supersoniche, quelle del primo singolo "Raise Your Voice Joyce". La premonizione si concretizza: David si imbatte nell'enigmatica politicante-santona Joyce Tops, sorta di "Napoleon in rags" al femminile, la quale scioglie la pavidità che gli fa rimpiangere la sua gabbia ("If I beg, I bet they'll let me back in"), squarcia il velo dei suoi bisogni indotti ("How can you lose a place, my friend, if it was never real?") e prepara il terreno per la sua iniziazione. In tutte e due le canzoni fa capolino un sassofono dal suono squillante, metafora del risveglio spirituale di David, che tornerà a più riprese nel corso dell'album.

Comincia il viaggio. "There are things underneath that you have never seen", e "Tell Me What You See" ce le fa vedere attraverso gli occhi del neo-illuminato, che inizia a reinterpretare il mondo su uno steroideo tornado Madchester, realizzando come alla base di tanta bruttezza ci sia l'alienazione generata dal lavoro ("In boredom came such barbarity"). Aperta da un monologo che sputa veleno sul conformismo di una generazione arresa al mercato, "Normal People" prende di petto l'insoddisfazione di chi, annegato in un mondo troppo più grande di lui, sacrifica la sua vita sull'altare di una stabilità che, una volta raggiunta, non può colmare il vuoto che l'ha resa indispensabile ("I had a life, I had a home/ I wore a smile to sell my soul/ My tie was blue, my shirt was white/ So why I can’t figure out how to feel alright?"), tra rancorosa rabbia ("I just took the life they handed me") e sconfortata incomprensione ("How can you miss a feeling that you never had?"). A livello di sonorità, c’è qualcosa dei connazionali Arcade Fire, ma al suo interno si passa con disinvoltura dal solo Richards-iano alla cassa dritta.

A questo punto la narrazione, già fortemente disarticolata e lisergica, viene drogata da un ulteriore switch metafisico: attraverso gli occhiali carpenteriani fornitigli da Joyce, David rielabora non solo la realtà che lo circonda, ma anche le sue esperienze passate, in un caleidoscopico gioco di rimandi con le opere precedenti. Un biglietto trasportato dal vento lo attira in un teatro dove viene messa in scena la sua vita (la locandina recita, guarda un po', "David Comes To Life"…) e lui, lungi dall'esserne spaventato, chiede di addentrarsi nel cammino con una "Torch To Light" che possa guidarlo nel buio. E allora a capofitto dentro le "Talking Pictures" che gli svelano l'altro lato del Reale ("You are the same, but in reverse"), quello non mortificato dalla finzione spettacolare, gettandolo in un delirio da convertito in estasi. L'altra faccia della medaglia è "House Of Keys", in cui si esplora il processo di corruzione e mercificazione delle medesime immagini e sensazioni. La title track è poi un'autentica esperienza mistica, l'incontro con un angelo che gli garantisce la sua protezione e lo sprona a proseguire il suo percorso. Sono quattro brani muscolari, ricchi di elementi electro-industrial piuttosto inusuali per la band, con tracce sparse di Depeche Mode, Nine Inch Nails e U2 secondo periodo. Il primo disco si chiude con questa botta di adrenalina, sintomo dell'allucinato superomismo che si è ormai impossessato di David.

Aggiornamento dei Ramones-via-Spector di "End Of The Century", "Living In A Simulation" ci proietta nella seconda porzione dell'opera e fa il punto della situazione in un agglutinato di fiati, sintetizzatori e cori surf: David torna in sé e ripensa all'esperienza incredibile che ha appena vissuto, realizzandone la natura artificiale. Si scrolla di dosso l'esaltazione parossistica ed elabora un'amara riflessione sull’infelicità dei suoi simili, ammettendo come lui stesso abbia abbandonato i sogni che aveva da bambino ("See how a mind with time to dream/ Would see a place meant for the free"). "I Don’t Wanna Live In This World Anymore", con l’Abrahms più melodico che si sia mai ascoltato (inteso che la sua voce sia capace di modulare delle note…), assume toni ancora più disperati, prima pretendendo di ripristinare la bolla psicotropa che gli ha aperto la mente ("I need another dose"), poi arrivando a meditare una spettacolare uscita di scena che possa cancellarlo da un mondo che ormai detesta, iniettandogli al contempo un'ultima scarica di energia. A tanta tensione fa da contrappunto l'angelico finale, con tanto di voci bianche e languido outro in stile Santo & Johnny.

Atmosfere ancora più celestiali trionfano su "How To Die Happy", il momento più emozionante del lavoro e, se possibile, dell'intera discografia dei Fucked Up: null'altro se non la trasognata descrizione in soggettiva di un suicidio, reale o immaginato, con almeno un verso da tamponarsi le palpebre ("Promise I won’t cry if goodbye will you save me/ I want it so bad that I can hardly breathe"), sprazzi di punkeggiante insofferenza ("They told me not to jump but I wouldn't listen") e una conclusione da epitaffio ("Giving up is not the same as giving in"). A dispetto della voce femminile, il narratore dovrebbe essere David stesso, ma il tutto ha un'eco così potente e universale che finisce con l'avere poca importanza. Concentrato di romanticismo sfrenato in forma di svenevole marea dream-pop (con pari dosi di "Just Like Honey" e "Sometimes"), vale da sola la fatica di essere arrivati sin qua.

Il sogno ad occhi aperti prosegue con la breve "Two I's Closed", pedale di organo, pulsazioni sintetiche e un coro doo-wop a intonare la melodia più squisitamente retro del disco, qualcosa come i Beach Boys che reinterpretano l’incipit di "A Quick One". Il testo, di pari passo, è oscuro e misticheggiante ("You don't see with your eyes, so close them"), e segna il definitivo scardinamento della narrazione, ormai naufragata in un mero accostamento di immagini evocative. L'unica cosa vagamente comprensibile è che l'avventura di David nel mondo parallelo è conclusa, e ora ha il compito di raccontare agli altri ciò che ha imparato. A complicare le cose ci si mette però l'ingresso di un altro personaggio: dalla press release apprendiamo trattarsi di Lloyd In The Void, amante di Joyce spedito da quest'ultima nella stessa odissea psichedelica e smarritosi "nel vuoto", ma né il nome né la vicenda vengono mai menzionati esplicitamente.
L'inno adolescenziale di "The One I Want Will Come For Me", uno scambio di battute a distanza tra i due, è anche un tributo dichiarato ai maestri di Saint Paul, tanto sfacciato quanto affettuoso, con il chitarrista Mike Haliechuk a interpretare il nuovo arrivato. Abraham torna protagonosta su "Mechanical Bull", il momento più tecnologicamente claustrofobico dell'album, in cui il cantante pare davvero una bestia incatenata che tenta di divincolarsi. Il clima si mantiene scurissimo su "Accelerate", sostituendo però la massiccia immobilità del brano precedente con un'evoluzione imprevedibile (testa lynchana, corpo digital hardcore, coda impro-noise con pirotecnica santabarbara del batterista Jonah Falco). In ambedue le canzoni si fa insistente riferimento al sentirsi sfruttati da una forza spietata (la prima sembrerebbe ambientata in una fabbrica, la seconda in un un negozio o in un supermercato).

"Come Down Wrong", con la sua solare vivacità chitarristica, rischiara un po' lo scenario riprendendo la conversazione tra i due amanti. La sorpresa è il cameo di J Mascis nel ritornello, che dona al brano un accattivante sapore alternative rock. "Love Is An Island In The Sea", un invito a resistere alle furibonde intemperie del mondo, è un'altra breve parentesi di psichedelia polifonica, questa volta per sole chitarra e piano elettrico. Gli otto minuti finali di "Joy Stops Time" (il gioco di parole è fin troppo evidente) fungono da riassunto riavvolto a velocità accelerata dell'intero lavoro, schizzando in mille direzioni diverse (motorik, archi, piano, sintetizzatori, la voce della rediviva Mary Margaret O'Hara). La storia sembra giungere a una conclusione, anche se si fa davvero fatica a capire quale essa sia: forse David riesce nella sua missione, forse Joyce e Lloyd si ricongiungono, forse i sentimenti sconfiggono la Macchina. Di sicuro l'ascoltatore/spettatore è ancora scosso dalle vertigini.

Capolavoro mancato di una band in pieno ego-trip, "Dose Your Dreams" è un'opera che sembra davvero provenire da un'altra epoca. Accusarla di essere confusa, prolissa e kitsch è legittimo ma sciocco: il disco trova la sua ragion d'essere proprio in questa pantagruelica esagerazione. Una cosa è certa: finché i Fucked Up rimarranno in circolazione, le insulse profezie su una "morte del rock" di prossima venuta continueranno a lasciare il tempo che trovano. Meno male che esiste ancora chi crede nel potere catartico e sovversivo dell’Arte, a costo di sembrare ridicolo o anacronistico.

15/10/2018

Tracklist

  1. None Of Your Business Man
  2. Raise Your Voice Joyce
  3. Tell Me What You See
  4. Normal People
  5. Torch To Light
  6. Talking Pictures
  7. House Of Keys
  8. Dose Your Dreams
  9. Living In A Simulation
  10. I Don't Wanna Live In This World Anymore
  11. How To Die Happy
  12. Two I's Closed
  13. The One I Want Will Come For Me
  14. Mechanical Bull
  15. Accelerate
  16. Came Down Wrong
  17. Love Is An Island In The Sea
  18. Joy Stops Time


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