Rome, alias di Jérôme Reuter, torna con un nuovo disco per Trisol, intitolato “Hall Of Thatch”. In precedenza, l’artista di origine lussemburghese si era occupato principalmente di argomenti storici e letterali, dalla guerra civile spagnola al conflitto che insaguinò la Rhodesia, passando per le pagine più buie della seconda guerra mondiale, ovviamente tutti temi trascesi nella prosa neofolk e cantautorale del Nostro. Il nuovo lavoro, invece, è principalmente ispirato a un suo recente viaggio in Vietnam.
Interessato alla storia e alla cultura del paese, Reuter si è dedicato allo studio delle tradizioni e dei rituali del Buddismo, dei suoi canti e preghiere, così come della sua particolare visione dell'“apocalisse”, vista come un ciclo continuo di creazione e distruzione, un po’ al pari di ciò che viene narrato nella mitologia norrena, così distante dall’escatologia abramitica.
“Hall Of Thatch” è un disco che mette in primo piano voce e chitarra acustica, deviando in parte dal precedente “The Hyperion Machine” che, complice anche un’ispirata collaborazione con il musicista svedese Joakim Thåström, suonava molto più rock e post-wave dei suoi lavori precedenti.
Nel nuovo album non c’è un ritorno alle sonorità neofolk-martial di “Masse Mensch Material” e dei suoi primi lavori per la label svedese Cold Meat Industry. Oggi Reuter guarda, semmai, al cantautorato dark-folk del suo album del 2012, “Hell Money”, disco dedicato ai temi dell’avidità umana, della dipendenza e dell’auto-immolazione, ma con un approccio ancora più oscuro e metafisico, come se stesse descrivendo il tempo della decadenza e del disordine che precede l’arrivo del Buddha Maitreya. I riferimenti alla spiritualità orientale sono comunque permeati di una sensibilità e da un approccio culturale tipicamente mitteleuropeo, compatibile con l’origine e la sensibilità culturale di Rome. Si pensi in particolare alla prosa di Hermann Hesse che sembra aver influenzato molto la visione “orientale” di Reuter.
Musicalmente quello che vien fuori è una sorta d’incrocio tra il lavoro solista di Steve Von Till (Neurosis) e il Nick Cave più visionario e pessimista, il tutto immerso in una dimensione apocalyptic folk alla Swans. Il cantato baritonale di Reuter qui opera un tour de force travolgendo l’ascoltatore in una slavina angosciosa che, a tratti, può ricordare anche l’ultimo King Dude.
In realtà il valido singolo apripista “Blighter” non chiarisce fino in fondo la nuova direzione intrapresa da Rome. Il brano vuole essere il trait d'union con il disco precedente, “The Hyperion Machine”. Episodi come “Hunter” e “Martyr”, invece, sono delle vere sorprese, anche per i fan di lunga data: il primo è debitore di una sorta di doom-folk alla Steve Von Till, mentre il secondo echeggia cacofonie alla Swans (del periodo di “Filth”) attraverso un cantato violento, piuttosto insolito per il neo-folker lussemburghese. Un uso peculiare della voce si trova anche nel brano “Keeper”, con un cantato aspro e rauco che deborda verso una sorta di pianto disperato prima della redenzione finale in “Clemency”. Quest’ultima ricorda un po’ Michael Gira quando imbraccia una chitarra acustica.
In brani come “Hawker” e “Prayer” emergono in sottofondo diverse registrazioni sul campo del suo viaggio in Vietnam, come dei mantra che ci guidano verso oscuri e misteriosi territori dello spirito.
In conclusione, si tratta di un disco non certo facile e immediato, che ha però delle buone intuizioni e un sound mai banale. Un lavoro che segna una svolta e mette ben in luce le indubbie qualità canore e la sensibilità di un Reuter mai così emotivo, oscuro e apocalittico.
23/01/2018