RADIOSABIR - CUNTI E MAVARII PI MEGGHIU CAMPARI (Dcave, 2023)
patchanka
Il collettivo catanese Niggaradio muove dall’idea - di Daniele Grasso, chitarrista e produttore, con le percussioni di Peppe Scalia e collaborazioni a rotazione - di rifondare il folk-blues di derivazione sicula. Quando si trasforma in RadioSabir per il primo “Cunti e mavarii pi megghiu campari”, con l’aggiunta di nuove potenti vocalist donne e un rapper, quell’idea si amplia negli orizzonti e, contemporaneamente, inasprisce i modi più eretici e brutali del folk. Le canzoni più arrembanti procedono in ordine sparso: “Na buttigghia i vinu”, sabba propiziatorio, accatasta movenze alla Jerry Garcia e sprint crossover-metal; “U ferru”, motto corale, detona tra selve di suggestioni di funk mediterraneo; “Voodoo med”, altra fusion di ritmi serrati e voci fitte, sussulta con insistenza industrial. L’ensemble si fa appena più sottile e unitario in “Ci voli tempu”, un rhythm’n’blues inselvaggito assaltato da incursioni maghrebine, forse l’highlight del lotto, e nell’elettronica “Seggia sghemba”, sceneggiata hip-hop rappezzata da un siparietto folk-jazz, e persino rallenta e si rarefà in “U munnu sta cangiannu”, comunque forte di un finale di fitta demonica. Nel mezzo si incastona il bailamme di canti e percussioni afro di “Ma cchi fai”. Imprevedibile, più che davvero cubista, e frastornante, più che realmente disorientante, perché è soprattutto un disco di messaggi di vita trasmessi con una densa coralità vocal-strumentale e una prodigiosa produzione ritorta, che mai abbandona la propria urgenza vorticante. Neanche quando si rifugia nel cartolinesco-didascalico (“A rivoluzioni un si fa chi social”) o si ripete (“Iarrusa”). Affidabile termometro per la prima metà degli anni 20. Cesare Basile, già vecchia conoscenza della crew, a chitarra tenore e ngoni (Michele Saran, 7/10)
DEATH MANTRA FOR LAZARUS - DMFL (Vina Records/Believe, 2023)
post-rock
A distanza di tredici anni dal debutto “Mu” (2010), i pescaresi Death Mantra For Lazarus riappaiono sulle scene con “Dmfl”, dove a farla da padrone è il tema del ricordo. L’importanza dell’ascolto, al fine di comprendere a fondo le emozioni altrui (e anche le proprie), è evidenziata dall’artwork curato dallo street artist Millo, che utilizza i colori forti solo per porre l’accento sui concetti desiderati. L’apertura è trainata dalle ricorrenti atmosfere tra post-rock, à la Mogwai di “Come On Die Young”, e prog di “Church Superdelay”, che vede inizialmente in primo piano la batteria, sviluppandosi in maniera sempre più corale; e dagli pseudo-tribalismi scaturiti dalla sezione ritmica di “Nude”. Si rimane sospesi fuori dal tempo con le arie sognanti conferite dai violini di Valeria Vadini in “Marbles”, e con quelle più orientaleggianti del crescendo graduale e articolato di “Mina”, sostenuto da trame di luccichii di chitarra e synth, e dall’ingresso di una bassline potente a metà traccia. A meritare un’attenzione particolare sono “Laika Cold! Laika Cold!”, nella quale tornano i violini e si percepiscono dettagli di fine nineties in zona Dirty Three e Godspeed You! Black Emperor; e le sonorità bluesy/western dell’inizio di “Like Dolphins”. Quest’ultimo è l’unico brano scritto e cantato da Jester At Work e Giulia Flacco, in un mix che rievoca a tratti la coppia Mark Lanegan-Isobel Campbell. “Memory Of Us” chiude l’opera nel segno del rinnovamento, con la presenza di una chitarra classica e una nota di solennità offerta dalla tromba suonata dall’ultimo ospite, il polistrumentista Francesco Di Giandomenico, volgendo lo sguardo in direzione caroline e Deathcrash. “Dmfl” segna una buona ripartenza per il quartetto abruzzese, fungendo da ponte tra passato e futuro, e lasciando spazio a qualche piccola e promettente novità (Martina Vetrugno, 6.5/10)
WEPRO - WEPRO (Sumo Records /Ada Music Italy)
alt-rock
Dopo vari Ep e singoli tra Stati Uniti e Italia, Marco Castelluzzo approda al primo album omonimo. Classe 1993, una gavetta significativa tra Disney e palco del Primo Maggio a Roma, Wepro giunge al fatidico passo del primo - omonimo - album. Suoni di chitarra ruvidi e distorti si amalgamano a beat e strati elettronici, con il tutto sovrastato dalla voce nitida del cantante, come anticipato dall’iniziale“Giuriamo che mai”. Brani in bilico tra grinta rock e scorci più orecchiabili, per un risultato spesso accattivante, pronto ad essere presentato nella dimensione live. E che magari - visto il successo di certe sonorità partite dalla Capitale verso la conquista del mondo - potrebbe sfornare qualche hit fuori dal giro indie (Alessio Belli, 6,5/10)
HUGOMORALES - HUGOMORALES (Tazzina Dischi, 2023)
songwriter
A cinque anni dal primo omonimo l’umbro Emiliano Angelelli riattiva il nomignolo Hugomorales tramite la collaborazione con il produttore Marco Testa (Sinusoide Studio) per il nuovo “Oceano” (2020). Angelelli ricambia poi il favore supportando l’Ep di debutto di Testa a nome Molecola, “Festa del pongo” (2022). Il miglior connubio dei due si ha comunque nella sigla Hugomorales, nel singolo “Emma Superstar” (2022) e nel secondo album omonimo, specie nella cantilena alla Pearls Before Swine di “Mucca arcobaleno”, la filastrocca bambinesca Rodari di “Giraffe spaziali” e in uno dei suoi folk-rock ormai tipicamente spaziali, “Carota”. Alcune sono semplicemente eccessive nel loro parossismo (la propulsione techno di “New York”, il saltarello pigolante de “Il mistero dell’uomo contento”), ma incaponendosi Angelelli azzecca un picco di follia in “Palazzo di gelato” (altra citazione di Rodari), a ritmo di rumba e sferzato da un tonante canto da orante in stile Ferretti. Le ultime canzoni cantate e suonate in maniera relativamente tradizionale, come “Intelligenza artificiale” e “Photoshop”, danno un contraltare pacato al resto, quasi sacrale. Terzo disco del cantastorie del ternano, quinto contando anche i titoli a nome Elio Petri, il più grande nelle linee canore e il più amabile e solido nella scrittura lo-fi elettronica ove si nasconde qualcosa di dadaistico (“Banana Split” dal mitico show Hanna-Barbera). Oltre al divertimento, l’accentuato brio giocherellone serve anche come veicolo per riportare la creatività al barthesiano “degré zéro”. Unico aiuto: Tiziano Tetro (batteria) (Michele Saran, 6,5/10)
BRXiT - VIVERE DI NASCOSTO (autoprod., 2023)
alt-rock, garage-rock
Sonorità grezze dalla periferia torinese. I BRXiT nascono nel 2021 e rappresentano il secondo nuovo inizio del cantante Lorenzo Lesina, il bassista Davide Barbieri, e i fratelli Alessio e Gabriele Ferrara, rispettivamente batteria e chitarra. Originariamente sotto il nome di Fratellislip, il gruppo scriveva canzoni in lingua inglese traendo ispirazione dal panorama brit-rock: la volontà di cercare un sound diverso e soprattutto optare per liriche in italiano esigeva un cambio di direzione radicale, e quindi un nuovo progetto. L’incontro tra la band e il cantautore conterraneo Bianco, qui in veste di producer, ha dato la spinta definitiva ai brani del debut “Vivere di nascosto”. Tra amori finiti (tanti), nostalgia, e scazzi quotidiani (tantissimi), i quattro si muovono tra alt-rock italiana, con riferimenti ai Verdena in primis, e cantautorato, ma senza dimenticare l’attuale scena brit di matrice post-punk che trova i suoi capisaldi in Fontaines D.C., Idles e affini. A farsi notare maggiormente per liriche e sonorità sono l'efficace sfogo punkeggiante “Salta l’intro”, il pop-rock anthemico di inizio duemila di “NO.IA”, e le ritmiche della folle “Alieni a New York”, che rimanda ad alcune produzioni dei Biffy Clyro. “LVDA”, acronimo di “Le vite degli altri”, ricorda il periodo delle chiusure pandemiche passate in casa, tra noia e social, dove le persone filtrano i propri “best of”, attraverso i quali si ha sempre l’impressione di essere più indietro rispetto agli altri. Vi sono poi il pop-punk malinconico di “Azulejos”, un sentimento finito e irrisolto in “Zena”, le distorsioni di chitarra di “Notti a caso”, e le derive math abbozzate in “Resta qui”. "Vivere di nascosto" presenta qualche nota ancora acerba, ma comunque calzante per il genere impulsivo e urgente proposto dai BRXiT, e se ben veicolata sarà interessante osservarne gli sviluppi futuri (Martina Vetrugno, 6/10)
PROIA - IL CONTROESODO EP (autoprod., 2023)
songwriter
Giacomo Proia è uno dei più dotati canzonieri italici a cavallo tra anni 10 e anni 20, con una dimestichezza con la forma-concept tale da portarlo al rango di possibile nostrano Stephen Merritt. Il suo originale carnet si allunga, alleggerendosi di quel tanto in un assetto acustico (ma non nei temi), nell’Ep “Controesodo”: più che mai osservatore della folla, si dona tutto alla melodia aleggiando su sfondi elettronici, opalescenze impalpabili (“Milano”) o striature elettroniche ventose prese in prestito da Iosonouncane (“fffff”, “Il corpo di”). Con “Che cosa mi serve” abbraccia la causa dell’amara ballata dei rinnegati in pieno stile folksinger, mentre nel pezzo eponimo riacquista la sua attitudine a sceneggiare e teatralizzare la canzone, come un viaggiatore omerico a dialogare con un coro altero, adornandosi pure di tocchi morriconiani (tromba e gorgheggio). Pur senza l’ambizione dei suoi cicli quasi-apocalittici - post-bellico in “Proia” (2017) e post-Orwell di “Animalia” (2020) - il cantautore aquilano (anche romanziere e prosatore) va premiato per la brillante comunicatività, la grazia della scrittura, il gusto sottile ma sempre emotivo nell’arrangiamento (Michele Saran, 6/10)
VIADELLIRONIA - IL DESIDERIO CHE MI FREGA (Hukapan Dischi, 2023)
indie-rock, alt-pop
Quattro ragazze di Brescia all’appuntamento con il secondo disco, a due anni e mezzo di distanza dall’esordio “Le radici sul soffitto” (2020), di nuovo con Cesareo in cabina di regia, lo storico chitarrista di Elio e le Storie Tese. Approccio indie e chitarre che sanno come farsi largo, più due featuring importanti, di quelli che attirano l’attenzione: Edda in “Tu mai” (nella quale figura anche come autore) e il colpaccio della canadese Peaches, ospite in “Sodoma in cielo”. Si possono cogliere influenze del miglior alt-rock anni novanta sia in “Boccadoro” che negli incisivi riff de “Il pianto delle cose”, “Corallo” e “Tu vai”, ma anche rotonde ballad (“Tanqueray”) e mid-tempo (“Sade Valentino”), perfetti per conferire l’opportuna dinamicità all’insieme. Nove tracce graffianti ma radiofoniche che, oltre alla perizia nell’esecuzione, confermano una grande attenzione per i testi, a metà strada fra istantanee di vita quotidiana e riferimenti intellettuali (Baudelaire ed Herman Hesse tra i più evidenti). Il sentiero del girl-power non passerà mai di moda, e da oggi conferma la presenza di un nome in più (Claudio Lancia, 6/10)
SACROBOSCO - IVXVI (Trovarobato, 2023)
ambient-techno
Giacomo Giunchedi prosegue a nome Sacrobosco con il secondo “IVXVI”, cominciando un nuovo possibile corso delle sue modellazioni elettroniche con il crescendo propulsivo di derivazione minimalista di “Pearl”. Purtroppo però poco di quanto segue gli dà concreta sostanza, a parte una sorta di rave onirico con basso sismico e scampanellio psichedelico in “Aerials”. Il singolo “Faint” semplicemente allunga a 7 minuti le esitazioni dei brani precedenti (arpa, vagiti vocali, e un rincorrersi di suoni cristallini). Il pezzo maggiore, una “Hashimoto” di 15 minuti, è una ripetitiva sonata di rifrazioni e gorghi, una inerte carola clavicembalistica che si stende meccanicamente su un battito subliminale, un po’ poco nell’era della AI. Giunchedi sublima la lezione di Andy Stott e Anthony Gonzalez ma capitola in un vacuo barocchismo di loop e intersezioni. Quando gioca in casa rimane a galla: da un nuovo, recente progetto con Eva Benfenati, sea:side, rinsalda la sua propensione a una strabiliante tersezza di suono. Primo di due album a stretto giro di pubblicazione (Michele Saran, 5,5/10)
GOSPEL - BELVE (autoprod., 2023)
alt-rock
Lorenzo Balice e Riccardo Ligorio, più la sezione ritmica di Stefano Dal Lago e Gian Maria Gallicchio (sostituto di Andrea Ronca) formano i Gospel a metà anni 10. Nel loro “Belve” continuano a suonare un hard-rock fosco e fatalista con ritornelli a cappella (“Revolver”, “Ombre della notte”, “Kerosene”, “Sabbia”), che cerca di elevarsi ad anthem (il battito enfatico e gli squilli di “Horror Trash”), si ridisegna come power-pop cantilenante (“Vento del nord”) e si avvita a scatto supersonico (“Il lato oscuro”). Secondo album della formazione luinese, seguito di un debutto omonimo (2017) più autoriale. Compatto, a tratti anche forte in suono e intenti, pur appoggiato comodamente sulla mistura di Queens Of The Stone Age e power-blues anni 2000 (e qualche centrato ammennicolo elettronico debitore dei primi Gomez: svarioni downtempo, marcette eteree, etc), ma le canzoni inconsistenti parecchio fanno per debilitarne l’efficacia, a partire dalle voci stinte. Ruolo produttivo del membro aggiunto Marco Ulcigrai persino cruciale. Singoli: “Revolver” e la minore “Difendimi dal male” (Michele Saran, 5,5/10)
BLUEM - NOU (Peermusic Italy, 2023)
songwriter
Le nuove mosse della sarda Chiara Floris si evincono anzitutto dai singoli, una “Fiamme” (2021) orientata alla dance elettronica, e una “Umma” (2022) in cui sopravvivono intenti del suo sardo folk sperimentale. Il nuovo (corto) album “Nou” privilegia nettamente la dance, pure allargandosi, tentando di far propri idm (“Dear”), drum’n’bass (“Piano Song”) e reggaeton (“Moonlight”). Almeno “Angel” si riscatta in un più originale finalino post-Peter Gabriel, e “Gold” adotta un soul ombrosamente narcotico con remix post-trip-hop in corsa. Il momento della ricerca folk è un’eccezione, ma di quelle abbastanza pregnanti: “Adele” (battito eurodisco, polifonie vocali sdoppiate, crepitio concreto e lirico assolo di violino). Floris in tutti i sensi balla da sola (è anche pole dancer). Trapiantata in quel di Londra e affrancata dalla produzione di D’Avenia, organizza un’opera a suo modo corale al femminile, sia negli intenti che nelle collaboratrici (la conterranea violinista Adele Madau in “Adele” su tutte). Rispetto alla già fragile chimica del precedente “Notte” (2021) è un precoce passo indietro: poco slancio, una certa timidezza, troppo autotune da tentazioni mumble e trap, e la scelta demodé di risfoderare l’inglese per l’enfasi sui ritornelli. Testi personali come pure puberali. Un tot di fiuto melodico. La prova vocale migliore sta nell’ambient di “Sula”, ma dura un minuto e mezzo (Michele Saran, 5/10)