C’era una volta il beat. Ovvero, quando l’Italia iniziò ad affrancarsi dalla sua tradizione nazionalpopolare per lasciarsi contagiare dalla British Invasion e dalle vibrazioni rock’n’roll d’oltreoceano. Un genere e un movimento giovanile che si diffusero nel nostro paese durante gli anni 60, con sporadici revival nei decenni successivi. La musica beat era - come tanti generi – tutto e niente. Era soprattutto un’attitudine – vagamente contestataria – e un approccio più internazionale al formato canzone, che si sposava però spesso a un gusto melodico di marca prettamente italiana. Quasi impossibile stabilirne i confini, ma c’è chi, come il critico Cesare Rizzi, ha provato a tracciarne un identikit sonoro: “Lo stile era caratterizzato da un rock and roll composto da strutture semplici suonate su chitarra elettrica a volte distorti attraverso una fuzzbox, spesso arricchiti con organo elettrico, con testi e modo di cantare perlopiù poco sofisticati e occasionalmente aggressivi” (Enciclopedia del rock italiano, Arcana, 1993). Ma al di là di queste generiche coordinate, c’era in realtà spazio per tutto (o quasi), come testimonia questa playlist, che peraltro non ha alcuna pretesa “tassonomica” ed è volutamente eterogenea, ispirandosi soprattutto al clima generale di quella scena e di quel periodo.
Cos’è stato allora il beat (o bitt)? Spesso è stato solo imitazione, a volte persino parodia (basti pensare ad alcuni tragicomici riadattamenti in italiano di successi anglosassoni, a cominciare da quelli dei Beatles!). Ma in molti altri casi ha evidenziato una peculiare “via italiana al rock’n’roll” e ha anche contribuito a lanciare artisti che sarebbero diventati futuri capisaldi della popular music tricolore (da Patty Pravo a Caterina Caselli, da Gianni Morandi a Lucio Dalla, da Adriano Celentano a Nada, dalle Orme ai Pooh). Se è vero che il cantautorato moderno è nato con i vari Tenco, Paoli, Endrigo, Lauzi e De André, è innegabile che già l’artigianato beat aveva operato una cesura netta con la “canzonetta” papaveri & papere degli anni 50.
Ma se alcuni dei suoi protagonisti hanno sfruttato il beat come semplice “cavallo di Troia” per accedere all’empireo del music business, altri sono rimasti per sempre intrappolati nelle sue maglie. Basti pensare alla pletora di complessi sbocciati in quegli anni, dai nomi spesso improbabili e dal destino effimero, ma anche a gruppi rimasti sì classici, ma pur sempre associati nei secoli a quel tipo di sound e periodo musicale (I Corvi, I Ribelli, I Giganti, I Dik Dik, L’Equipe 84, i Rokes, i Primitives e compagnia). Una moltitudine di fenomeni musicali quasi impossibile da sintetizzare in una sola playlist: ci sarebbe piaciuto inserire anche molti altri nomi (da IM-pact a Jaguars, da The Magik a Stormy Six) ma spesso i loro brani risultano introvabili su Spotify.
In generale, si può concludere che, pur con tutti i suoi limiti e le sue ingenuità, si trattò di un periodo di grande creatività e fertilità per la scena italiana, con centinaia di gruppi che arrivarono a piccoli successi locali e a volte anche nazionali, il proliferare di case discografiche e riviste musicali dedicate al fenomeno, oltre ai locali specializzati in tutto il paese, come il Piper Club di Roma e La Perla a Torino e ai concorsi musicali ad hoc, come il celebre Rapallo Davoli. Col tempo, il beat evaporò come una delle tante nuvole illusorie dei mirabolanti Sixties e molti di quegli artisti si lasciarono influenzare da nuovi generi in ascesa, dalla psichedelia al folk e al progressive. Presero piede forme più sofisticate di musica rock e i brani su 7" dei gruppi beat scomparvero dalle classifiche nazionali.
In questa playlist “aperta” - anche a nuovi suggerimenti - abbiamo voluto invece rinchiudere nuovamente in una scatola magica quegli aromi e riassaporarli tutti insieme, come in un impossibile viaggio a ritroso nel tempo (perduto).
Qui sotto la raccolta integrale, a seguire i singoli brani commentati.
Patty Pravo – Ragazzo triste
Il debutto della “ragazza del Piper”, datato 1966. È un sabato qualunque, un sabato italiano. C’è “Canzonissima” in tv, anzi “Scala Reale”, come si chiamava quell’anno l’edizione del teleshow. Minuta e filiforme, due grandi occhi verdi truccatissimi nascosti dietro una cascata di capelli biondi, la diciottenne veneziana Patty Pravo strega tutti con questa cover di “But You’re Mine” di Sonny & Cher e la trasforma in un inno dei giovani beat. Con una performance così conturbante da far sobbalzare sulle poltrone persino i teleutenti più impigriti. “Non dobbiamo star soli mai” diventa quasi un grido di battaglia generazionale dei giovani beat. Sarà solo l’inizio, ma che inizio…
Rokes – Che colpa abbiamo noi
Rokes – Bisogna saper perdere
Una doppietta per uno dei gruppi-cardine del movimento, benché italiano solo d’adozione. I Rokes nascono nel Regno Unito nel 1960 con il nome Shel Carson Combo, con Shel Shapiro alla voce e alla chitarra, Robert “Bobby” Posner al basso, Mike Shepstone alla batteria e Vic Briggs (che poi entrerà negli Animals) alla chitarra solista, in seguito sostituito da Johnny Charlton. Sarà Teddy Reno a scoprirli in Italia, dove troveranno il loro eldorado. “Ma che colpa abbiamo noi” è una sorta di manifesto dello scontro generazionale tra giovani ed adulti, destinato a diventare uno degli inni definitivi del movimento. Con il brano precedente, condivide un attacco simile e l’humus: anche i Rokes, infatti, diverranno stelle del Piper. Forse non tutti sanno, però, che è anch’esso una cover: di “Cheryl's Goin' Home” di Bob Lind. “Ma che colpa abbiamo noi” si piazzerà al secondo posto allo storico Cantagiro 1966 e salirà in vetta alla classifica dei 45 giri. Sbarcheranno a Sanremo (in coppia con Lucio Dalla!), invece, con l’altro brano prescelto, la dolente “Bisogna saper perdere”, scandita da un ritmo incalzante alla Stones e guarnita da coretti tipicamente sixties: più che il testo innocuo di Giuseppe Cassia e Ruggero Cini, è proprio la veste sonora a farne uno dei gioielli dell’era beat. E se si dovesse scegliere un volto-simbolo di quella intera stagione, non potrebbe non essere quello da eterno fricchettone di Norman David "Shel" Shapiro.
Equipe 84 – 29 Settembre
Equipe 84 – Tutta mia la città
A contendere ai Rokes il titolo di principale band dell’era beat, è l’Equipe 84, alla quale abbiamo riservato lo stesso trattamento: due brani. Il primo è la celeberrima “29 settembre”, firmata dalla coppia doc Battisti-Mogol e portata al successo dalla band di Maurizio Vandelli (n.1 della hit parade per 5 settimane). Primo grande successo di Battisti, fece breccia grazie anche alla forza innovativa del testo e degli effetti sonori che per la prima volta si rifacevano alla psichedelia, tanto che quella “data” è considerata quella del battesimo per il beat in Italia e il brano, per il suo impatto sulla scena nazionale, venne soprannominato “il Sergeant Pepper's italiano”. Un classico assoluto anche il secondo brano della band modenese, “Tutta mia la città”, cover di “Blackberry Way” dei Move, la band inglese capitanata da Roy Wood. La versione dell’Equipe 84, però, si lascia preferire per la qualità degli arrangiamenti e per le soluzioni sonore adottate. Altro testo italiano scritto da Mogol e altro grande successo al Cantagiro. La storia dell’Equipe 84 andrà avanti a lungo, seppur lontana da queste vette, che la identificheranno per sempre con la stagione beat.
Nada – Ma che freddo fa
Avere 15 e fare già la storia della musica italiana. Nada Malanima, musa sempiterna della canzone italiana, debuttò con questo splendido brano (testo di Franco Migliacci, musica di Claudio Mattone) presentato al Festival di Sanremo 1969 in doppia esecuzione con i Rokes. Destinato a divenire un evergreen tricolore, tra innumerevoli cover (Mina, Giusy Ferreri, Avion Travel e Max Gazzè tra i tanti) e inclusioni in colonne sonore, “Ma che freddo fa” racconta il gelo interiore lasciato dalla fine di un amore (il primo?) che riusciva a scaldare anche d'inverno. Uno spaccato di delusione e solitudine reso struggente dall’apertura melodica e dall’interpretazione graffiante della cantante livornese. Anche per lei era solo l’inizio. Un inizio formidabile.
Caterina Caselli – Nessuno mi può giudicare
Caterina Caselli – Insieme a te non ci sto più
Altra musa e innovatrice della canzone italiana, Caterina Caselli alias “Casco d’oro” è presente con una meritata doppietta. Sicuramente più in linea con il movimento beat la contestataria “Nessuno mi può giudicare”, inizialmente destinata ad Adriano Celentano, che ne incise un provino per poi abbandonarla, e quindi affidata dagli autori Pace e Panzeri all’allora quasi esordiente cantante modenese. Fu proprio lei, però, a suggerire la soluzione vincente: trasformarla da tango a serrato beat, con nuovi arrangiamenti. Si piazzerà seconda a Sanremo, dove una battagliera Caselli la eseguirà in coppia con Gene Pitney. Meno beat e più cantautorale, quella che, per la stessa Caselli, resterà la sua canzone migliore: “Insieme a te non ci sto più”, con firme doc di un giovane Paolo Conte e di Vito Pallavicini. Arrangiamenti più ariosi e un’apertura melodica commovente incorniciano una prodezza senza tempo. Innumerevoli le cover (Ornella Vanoni, Franco Battiato, Claudio Baglioni, Avion Travel, Gianna Nannini, Malika Ayane etc.) e le apparizioni nelle colonne sonore (Nanni Moretti la inserirà addirittura in due suoi film, “Bianca” e “La stanza del figlio”).
I Corvi – Ragazzo di strada
Un altro inno per la Bitt Generation (tanto per distinguerla dall’altra più nota). Il primo 45 giri del gruppo parmense è la versione italiana di “I Ain't No Miracle Worker” di Nancie Mantz e Annette Tucker, interpretata dai Brogues, un complesso californiano i cui membri sarebbero poi confluiti nei Quicksilver Messenger Service. Il testo in italiano è ufficialmente attribuito a Nisa, storico collaboratore di Renato Carosone, anche se Angelo Ravasini, voce e chitarra dei Corvi, raccontò di averlo scritto con Franco Califano. Se musicalmente il pezzo è in classico stile beat, con un cantato quasi isterico, amplificato da un effetto riverbero, il testo osa ancora di più, rovesciando gli stereotipi del corteggiamento (è il ragazzo che respinge la ragazza, non viceversa) e delle convenzioni sociali (il protagonista rifiuta le lusinghe della fanciulla di buona famiglia, sentendosi preso in giro dal suo atteggiamento classista (“Io sono un poco di buono/ Lasciami in pace perché/ Sono un ragazzo di strada/ E tu ti prendi gioco di me”). Resterà la hit definitiva dei Corvi (oltre a Ravaisini, Fabrizio Levati alla chitarra, Italo Gimmi Ferrari al basso, Claudio Benassi alla batteria), stravagante gruppo dedito soprattutto a cover di gruppi inglesi e americani. Urlavano, avevano i capelli lunghi, mantelline nere e un corvo sulla spalla. L'avevano chiamato Alfredo in onore del loro discografico: il direttore artistico dell'Ariston, Alfredo Rossi.
I Ribelli – Pugni chiusi
La voce vi ricorda qualcosa? Già, è proprio lui, Demetrio Stratos. Alla fine del 1966, i Ribelli incontrano nel locale milanese Santa Tecla il cantante italo-greco, che entra subito nel gruppo come voce solista e organista; si aggiunge all'organico anche il bassista Angel Salvador e nasce così la formazione più rappresentativa della storica band beat, appena fuoriuscita dal Clan Celentano. “Pugni chiusi”, firmata da Luciano Beretta, Gianni Dall'Aglio e Ricky Gianco, esce nel 1967. Ma la politica non c'entra: trattasi del grido disperato di un uomo in cerca di riscatto, che chiama a sé l'amata. A spiccare è però soprattutto la straordinaria interpretazione di Stratos, che con la sua debordante estensione vocale infonde ulteriore pathos al brano, sicuramente tra i più suggestivi della stagione beat. Poi, con gli Area, sarà tutt'altra musica (per il bene del prog e del rock italiano tutto).
Nomadi – Dio è morto
Anche per i Nomadi, siamo appena all'inizio di una (lunghissima) storia che li vedrà veleggiare verso altri lidi musicali. In piena febbre beat, però, Augusto Daolio (altra grande voce italiana) e compagni interpretano con fervore il celeberrimo classico di Francesco Guccini del 1965, che aprì la stagione della canzone di protesta italiana, con testo ispirato al poema “L'urlo” di Allen Ginsberg. Nell'aprile 1967, il brano fu inciso in contemporanea da Caterina Caselli e dai Nomadi, nell'album “Per quando noi non ci saremo”. Malgrado il finale più consolatorio - la rinascita basata su nuovi ideali che alla fine porteranno un mondo dove dio è risorto – il brano incapperà nella censura Rai. Eppure leggenda vuole che perfino papa Paolo VI lo apprezzasse.
I Giganti – Tema
Un’altra istituzione del beat è la sardonica band milanese, composta dai fratelli Sergio e Mino Di Martino (chitarra e voce), Enrico Maria Papes (cantante e batterista) e Checco Marsella (voce e tastiere). Il loro originale beat sposa influenze gospel e rock'n'roll con testi graffianti, come quello di “Tema”, la canzone con cui arrivarono terzi nel 1966 al programma tv “Un disco per l'estate”, ma soprattutto conquistarono la vetta delle classifiche per 7 settimane. Sergio, Giacomo, Francesco ed Enrico si cimentano nei loro rispettivi “temi” sull’amore, concludendo beffardi: “Viva, viva l'amor/ È per l'amore che si canta”. Brano gustosissimo, che sarà anche inserito anche nel film musicarello di Enzo Dell'Aquila, “Il ragazzo che sapeva amare”.
Dik Dik – L’isola di Wight
Pietro Montalbetti, detto Pietruccio, chitarrista e cantante dei Dik Dik, nonché “hippie irriducibile”, lo ha ammesso candidamente: “Se all'isola di Wight ci avessimo suonato davvero, saremmo stati contestati duramente dal pubblico, forse pure con azioni violente”. Paradossale, detto dall’“ideologo” della band che nel 1970 sbancò le classifiche italiane con questo singolo dedicato al leggendario rock festival britannico. Cover di “Wight Is Wight” del cantante francese Michel Delpech, al di là del testo ingenuamente utopistico (a cura di Claudio Daiano) la canzone dei Dik Dik glorifica la stagione dei grandi raduni rock – da Monterrey a Woodstock fino alle tre edizioni dell'isola di Wight – con una struttura armonica-killer: tre accordi e una melodia killer, e il gioco è fatto. Anche per gli hippy. Nota a margine: L'isola di Wight è anche il nome di un ristorante dove i reduci della band milanese cucinano e si esibiscono (!).
The Motowns – Prendi la chitarra e vai
Altri inglesi d’Italia furono The Motowns – ovvero, il chitarrista Douglas Albert Meakin, Dave Sumner, Lally Stott, Michael Brill e Mike Logan. Star del Piper, chiamati in tv nel 1967 alla Rai, nel varietà “E sottolineo yè”, condotto da Gianni Morandi e Caterina Caselli, quindi al Cantagiro, trovarono il loro cavallo di battaglia in quest’inno antimilitarista che altro non è che la cover con testo in italiano della hit internazionale di David & Jonathan “Lovers Of The World Unite”. Una canzone di protesta, cantata da giovani che giravano il mondo con la chitarra, inneggiando alla pace e alla libertà e contestando la guerra del Vietnam.
Gianni Morandi – C'era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones
E a proposito di Vietnam, non poteva mancare l’ode pacifista per antonomasia della canzone pop italiana targata Sixties. La sempiterna hit del golden boy di Monghidoro porta la firma di Franco Migliacci per il testo e di Mauro Lusini per la musica, nonché l’arrangiamento doc di Ennio Morricone. Un successo garantito da n.1 della hit parade (dal febbraio 1967, per 3 settimane) per un brano dalla carica sonora e dallo spirito pienamente beat. La storia del ragazzo americano che deve abbandonare il suo sogno e il suo viaggio in Europa per andare a combattere – e morire - in Vietnam spezzerà tanti cuori nell’Italia degli anni 60, ma non quelli degli inflessibili censori Rai, che la boicotteranno per il suo testo polemico nei confronti della politica di uno Stato amico, gli Stati Uniti. Anche in questo caso, innumerevoli le cover, da quella storica di Joan Baez a quella sovietica dei Pojuščie Gitary (Поющие Гитары), intitolata "Byl odin paren'" (Был Один Парень).
Lucio Dalla - Paff… Bum!
A proposito di Emilia: anche il giovane Lucio Dalla, formatosi nelle orchestrine jazz, si buttò nella mischia del beat (e dintorni). “Pafff... bum!” è il suo terzo singolo, pubblicato nel 1966 con testo di Sergio Bardotti e musica di Gian Franco Reverberi. Un brano bizzarro (il titolo vorrebbe simulare il battito del cuore quando incontra una ragazza!), ma tutto sommato allineato ai suoni dei tempi. Presentato da Dalla al festival di Sanremo 1966, in abbinamento con gli Yardbirds (che incisero anch'essi una versione del brano), non riuscì ad arrivare in finale. Sarà poi inserita nell'album di debutto del genio bolognese, “1999”, ma senza mai conquistare le luci della ribalta.
Adriano Celentano – 24.000 baci
Il Molleggiato non è mai stato un vero beat, anzi, scrisse perfino un brano dal testo reazionario (“Tre passi avanti”) che metteva alla berlina il movimento (“Tre passi avanti e crolla il mondo Beat/ Una meteora che fila e se ne va”). Eppure, in quel mischione di provincialismo italiano e ingenua esterofilia, ci sguazzava ch’era un piacere. A cominciare dal recupero del primigenio rock’n’roll che rimase a lungo una sua ossessione e che trovò una delle manifestazioni più memorabili in questo evergreen, destinato a finire finanche in una scena cult di un film di Emir Kusturica (“Ti ricordi di Dolly Bell?”). Composto da Ezio Leoni, Pietro Vivarelli, Lucio Fulci e lo stesso Celentano, “24.000 baci” sarà presentato al Festival di Sanremo 1961 in coppia con Little Tony, piazzandosi al secondo posto. Il Molleggiato scandalizzerà il pubblico voltandogli le spalle e girandosi solo dopo il cambio di tempo dell'orchestra. Un sacrilegio per il cerimoniale sanremese dell’epoca.
Don Backy – Canzone
Del Clan Celentano – sorta di scuderia di fedelissimi del Molleggiato – faceva parte anche Aldo Caponi, alias Don Backy, che però non è mai stato un tipo troppo fedele alla linea (e ne ha pagato il prezzo). Un non allineato, dunque, anche rispetto al beat, di cui però riuscì a cogliere umori e slanci idealistici, come in questo prodigio melodico che compose assieme a Detto Mariano e che non riuscì a cantare a Sanremo proprio per via di una diatriba con Celentano. Così fu proprio quest’ultimo a portarlo alla manifestazione al posto del cantautore toscano: pur tentando di boicottarlo con una performance discutibile, il Molleggiato dovette arrendersi alla forza naturale del brano che – complice anche il supporto di Milva – salì fino al secondo posto. Nella versione di Don Backy, la sua potenza è sublimata da una interpretazione appassionata e struggente che ne fa un capolavoro della canzone italiana dell’epoca.
I Quelli – Per vivere insieme
Ma torniamo alle cover… “Per vivere insieme” altro non è che la versione italiana di “Happy Together”, brano del 1966 del gruppo statunitense The Turtles, che nella primavera 1967 ebbe l’onore di rimpiazzare “Penny Lane” dei Beatles in vetta della classifica Billboard Hot 100, dove rimase per tre settimane. L’edizione tricolore, con testo di Pino Cassia, sarà incisa (anche) da I Quelli, storica “fucina” di una leggenda rock italiana di nome Pfm. La formazione iniziale, denominata Black Devils, comprendeva Franz Di Cioccio, Franco Mussida, Pino Favaloro e Tony Gesualdi, più un cantante di nome Antonio Teocoli, per gli amici Teo, Cambiato il nome in Quelli, avvierà una carriera come complesso beat, con almeno due hit: “Una bambolina che fa no no no” (cover italiana di “La poupée qui fait non” del cantautore francese Michel Polnareff) e - con altri due pezzi da novanta in organico come il chitarrista Alberto Radius (ex-Simon & Penny) e il tastierista Flavio Premoli (proveniente dai Cuccioli) – la suddetta “Per vivere insieme”. Un sunshine pop virato beat con chitarra scampanellante che sarà ripreso anche da Jimmy Fontana, I Ragazzi del Sole, Brenda Bis, I Nuovi Angeli e (nel 2008) anche dai Pooh nell'album “Beat ReGeneration”.
Pooh - Per quelli come noi
E a proposito di Pooh, anche il più famoso gruppo italiano ha avuto il suo periodo beat, specialmente agli esordi. Il primo Lp di Facchinetti e compagni, “Per quelli come noi” (1966) alterna 45 giri precedenti, inediti e le immancabili cover di brani inglesi tradotti in italiano. La title track (testo di Pantros; musica di Francesco Anselmo) è l’ennesimo manifesto della protesta giovanile dell'epoca, con cantato rabbioso e vaghi echi psichedelici. Fa un certo effetto sentire un polemico Facchinetti gridare: “Voi che non vedete, non sentite ma parlate/ giudicate solo che non siamo seri come voi/ Ma quelli come noi/ non sanno odiare/ lasciateci la forza di cantare”.
The Primitives - Yeeeeeeh!
“Yeeeeeeh!”. Ovvero il grido di battaglia dei Primitives con lo zampino di Luigi Tenco (!). Prima di diventare “quello di Furia” (per la sigla dell’omonima serie tv del 1977), il gallese Mal, al secolo Paul Bradley Couling, è stato apprendista elettricista e soprattutto leader dei Primitives, band scoperta a Soho da Alberigo Crocetta (proprietario del Piper) e Gianni Boncompagni durante una serata di stravizi. L’urlo scimmiesco del loro primo singolo irruppe nell’anno 1967 a scuotere la generazione beat con un’inedita storia di emancipazione maschile dai vincoli amorosi. Anche se “i tuoi occhi sono fari abbaglianti” e “le tue labbra sono un grosso richiamo per me che ti amo”, Mal conclude di non volersi “bruciare” con il suo italiano maccheronico e il suo accento British, stregando le teenager dell’epoca. In realtà, però, trattasi della versione italiana di “I Ain’t Gonna Eat Out My Heart Anymore” degli Young Rascals, firmata da Sergio Bardotti e Luigi Tenco. I Primitives li rivedremo nel film “Bandiera Gialla” e per qualche anno ancora, prima dello scioglimento. Poi, sarà solo Mal, cantante e attore dalle alterne fortune. “Furia mi ha rovinato la vita!”, imprecherà un giorno. Però almeno nel 1989 l’Italia lo risarcirà con la meritata cittadinanza.
New Dada – Batti i pugni
I New Dada nascono dall'incontro di sei ragazzi appassionati di musica rock e beat: Maurizio Arcieri (futuro Krisma), Renato Vignocchi, Franco Jadanza, Ferruccio Sansoni, Giorgio Fazzini e Ricky Rebaioli (quest'ultimo presto rimpiazzato alla batteria da Gianfranco Longo). Dagli altri beat si distinguono per il nome, ispirato al dadaismo, e il look (giacca e cravatta nera, camicia bianca e niente "capelloni"). Non spopoleranno, ma avranno un’occasione storica: suonare come spalla durante il tour italiano dei Beatles del 1965. La battagliera “Batti i pugni” di un anno dopo porta anche una firma doc, quella di Federico Monti Arduini, futuro Guardiano del Faro, oltre a quella di Valerio Vancheri.
Massimo Ranieri – Se bruciasse la città
Apriamo ora una piccola parentesi-crooner, che a nostro parere non stona affatto. Perché ad esempio il nostro scugnizzo dalla voce di tuono pubblica nel 1969 un brano che – si direbbe oggi – “spacca”, tanto e più dei gridi di battaglia del beat. “Se bruciasse la città” irrompe sul palco di Canzonissima con il suo incipit ruggente e tutta la sua carica passionale irrobustita da un possente arrangiamento orchestrale ad assecondare il cantato prepotente di Ranieri, che si scaglia contro la sorte dell’amata, destinata a un matrimonio combinato (“Tua madre va dicendo che a maggio un uomo sposerai”): era anche questa l’Italia dell’epoca. Testo di Giancarlo Bigazzi e musica di Enrico Polito e Totò Savio, per un evergreen della canzone italiana degli anni 60 che sarà perfino rispolverato da una delle serie televisive americane di maggior successo del Duemila, “Better Call Saul” (e proprio nel primo episodio).
Bobby Solo – Non c’è più niente da fare
L’altro crooner del lotto è Roberto Satti, per gli amici Bobby Solo, precocemente bollato come “l’Elvis italiano” per sottolineare soprattutto la sua attitudine derivativa, se non, a volte, parodistica. Sorte ingiusta, alla quale il buon Bobby risponderà con una carriera onorata e infinita che prosegue tuttora, e spesso su versanti del tutto diversi (ad esempio come “esegeta” di Johnny Cash). Con la sua andatura cullante dettata dal piano e la graffiante interpretazione presleyana di Satti, “Non c’è più niente da fare” spopolerà nei juke-box infrangendo i cuori degli italiani immersi nel sogno dorato dei 60’s. Pubblicata nel dicembre 1966, entrerà in classifica l'anno dopo, anche grazie al fatto di essere scelta come sigla della trasmissione “TuttoTotò”.
Camaleonti – Sha la la la la
Con i Camaleonti torniamo su sentieri più affini al beat, quantomeno in questa incarnazione iniziale della camaleontica (ehm…) formazione milanese. Quando al Santa Tecla di Milano, Livio Macchia, Ricky Maiocchi e Paolo de Ceglie fondano il gruppo, sono considerati i primi a portare il genere beat rock internazionale in Italia. Anche per questo scelgono inizialmente nomi in inglese (Mods, Beatnicks), specializzandosi nelle solite cover italiane di hit scovate nelle classifiche inglesi e americane. Nel 1965, trasformatisi in Camaleonti, si presentano al primo Raduno Beat milanese dove vengono notati da Miki Del Prete, collaboratore di Adriano Celentano, che offre ai Camaleonti un contratto con la Kansas, etichetta che gravita intorno al Clan Celentano. Il successo arriva subito, cavalcando il fenomeno beat con “Chiedi Chiedi” e questa suggestiva “Sha la la la la” (cover di “La La La La La” del gruppo messicano-statunitense The Blendells) griffata da un organo tipicamente sixties. Sarà inclusa nel loro esordio su Lp “The Best Records In The World”. Poi, la band prenderà strade diverse, con alterne fortune.
Balletto di Bronzo – Un posto
All'epilogo del beat, era in agguato il progressive. Evoluzione naturale, tutto sommato, considerata la vocazione anglofila del movimento. Prima di diventare prog a tutti gli effetti, però, alcuni gruppi rimasero intrappolati in una sorta di “terra di mezzo”. È il caso anche del Balletto di Bronzo dell’anno 1970. L’ensemble napoletano era nato dal nucleo dei Battitori Selvaggi, gruppo beat fondato da Raffaele Cascone, futuro dj di “Per voi giovani” e amico di Edoardo Bennato (a cui quest'ultimo dedicherà “Venderò”). Ingaggiato il chitarrista Lino Ajello (ex-Volti di Pietra), Cascone lascia e fonda un nuovo gruppo ispirandosi al quadro “Bronze Ballet” di Edward Wadsworth. Il primo Lp del neonato Balletto di Bronzo, “Sirio 2222”, è ancora legato alle sonorità tardo-beat dell'epoca, ma con una chitarra rock decisamente più sporca e accenni blues, come in questa “Un posto”, con un bel tiro e una batteria pulsante in evidenza. Poi sarebbe stato solo prog con il cruciale “Ys” (1972).
Le Orme – Ad Gloriam
Altra istituzione del prog tricolore, Le Orme dovettero faticare non poco per conquistare il meritato successo. Uscito in piena epoca beat, il primo 33 giri “Ad Gloriam” (titolo ironico sulla situazione della band costretta a fare musica “solo per la gloria”) propone brani di marca rock in cui non è facile individuare lo stile che il complesso avrebbe sviluppato anni dopo. Pienamente riconoscibile, invece, la voce in falsetto di Aldo Tagliapietra, che sarebbe rimasta uno dei tratti più tipici della band veneziana. Coretti, chitarre taglienti e un testo sardonico (“Ho lavorato tutta la mia vita, ma/ Non ho in tasca mai una lira… Ho fatto tutto per la gloria”) impreziosiscono questa sagace title track, canzone cult che sarà anche rivisitata in inglese (per una volta, l’opposto!) con il titolo “69 Police” per la colonna sonora del film “Ocean's Eleven” (2001) di Steven Soderbergh.
New Trolls – Visioni
Altro nome nobile della raccolta è quello dei genovesi New Trolls, fondati nel 1967 da Pino Scarpettini (tastiera) e Vittorio De Scalzi (voce e chitarra) e attivi fino al 1998. Nel corso della loro carriera, sono passati dal beat al rock progressivo (con almeno una pietra miliare come “Concerto grosso per i New Trolls”), quindi al pop-rock alla fine degli anni 70, pur mantenendo alcuni tratti distintivi del prog, come gli arrangiamenti elaborati, il virtuosismo tecnico delle esecuzioni e i cantati polifonici. Secondo singolo del gruppo, “Visioni” è ancora immerso in piena era beat, tra echi psichedelici, chitarre tintinnanti e una strepitosa performance vocale a cura del cantante Nico Di Palo. Invaderà i juke-box delle spiagge nell’estate del 1968.
Le pecore nere – La conta
Tra gli outsider del movimento, vanno annoverati anche questi freak romani (Mauro Chiari, Enrico Fusco, Stefano Mercanti e Enzo Tarantino) che iniziarono a farsi largo nei night-club dello Stivale fino a divenire una delle attrazioni del Piper. Messi sotto contratto dalla Rca grazie all’intercessione del jazzista Amedeo Tommasi, pubblicheranno nel 1967 il loro primo 45 giri, che a “Ricordo un ragazzo”, dedicata a Luigi Tenco, abbina questa folle “La conta”, una filastrocca beat stralunata su musica di Teo Usuelli, che sarà inserita all'interno della colonna sonora del film “Il fischio al naso” di Ugo Tognazzi. Tra alterne vicende, Le Pecore Nere vivranno solo altri tre anni, prima dello scioglimento.
Formula Tre – Questo folle sentimento
Chiudiamo la playlist con un omaggio al grande Alberto Radius, che ci concesse anche un’intervista su queste frequenze, e che ci ha lasciato il 16 febbraio 2023. Ma non solo. Perché la Formula Tre è un’istituzione del rock italiano, l'unica band che accompagnò nei suoi concerti Lucio Battisti, il quale scrisse per loro diversi brani, affidando a loro la sua più profonda vena rock. Fondato nel 1969 da Alberto Radius (chitarre e voce), Tony Cicco (batteria e voce) e Gabriele Lorenzi (tastiere e voce, proveniente dalla formazione I Samurai), il gruppo debutta su 45 giri nello stesso anno con questo debordante inno rock con i riff brucianti di Radius, un testo di Battisti-Mogol e un refrain che si scolpisce nella mente e non esce più: “Ah l'amore, questo folle sentimento che, ah l'amore, più lo fuggo e più ritorna da me”.