Organizzazione, puntualità, eterogeneità della proposta, location mozzafiato: sono alcuni dei principali pregi che risaltano all'occhio dovendo riepilogare le sensazioni che il Primavera Sound Festival di Barcellona è stato in grado di regalare per il diciassettesimo anno consecutivo.
È un'aria di festa e di celebrazione quella che si respira già soltanto avvicinandosi agli ingressi che introducono ai banchetti ufficiali dove è possibile fare rifornimento di dischi e merchandising, e non ci vuole molto per notare la varietà non solo linguistica del pubblico presente (spagnoli, inglesi e italiani sono di gran lunga le comunità maggiormente rappresentate): un universo che unisce il metallaro più intransigente al clubber più fighetto, l'hipster di turno al presenzialista curioso e un po' distratto, ovvio risultato di una line-up ricchissima che spazia meravigliosamente dagli Slayer ai Polar Inertia, miscelando in maniera assolutamente naturale mostri sacri intoccabili e giovani eroi delle nuove generazioni.
Il festival trasmette un senso di grandeur che alimenta il gusto della scoperta; tutto è gigantesco senza mai minacciare il regolare flusso degli eventi: nonostante le oltre duecentomila presenze comunicate a fine rassegna dall'organizzazione, non ci sarà mai bisogno di fare una fila per acquistare una birra o di perdere troppo tempo negli spostamenti fra un palco e l'altro.
Prendano appunti gli organizzatori di piccoli e grandi eventi italiani, perché il rammarico più grande che si può provare in questi giorni è quello di non poter avere nel nostro territorio un festival in grado di avvicinarsi al Primavera Sound: un cartellone infinito proposto all'interno di una città importante e direttamente sul mare (e qui si supera in scioltezza persino il pluridecorato Glastonbury), tanto per non farsi mancare neppure l'emozione degli scenari naturali che il Mediterraneo è in grado di offrire.
Giovedì 1° giugno
Il primo giorno è sempre un po' d'orientamento: chi viene per la prima volta al festival cerca di individuare il più velocemente possibile strutture e distanze, in modo da ottimizzare i tempi, chi c'è già stato coglie al volo le novità e organizza il proprio calendario. Sì, perché ognuno qui può crearsi un cartellone personale da seguire, ricercando il mix che meglio soddisfi il proprio gusto e la propria curiosità, grazie a dodici palchi e a una serie di location disseminate per la città anche durante le ore diurne.
A partire dalle ore 16 si aprono i cancelli e la musica inizia a vibrare nell'aria, tutte le band sono consapevoli che una grande prestazione qui può mutare per sempre il corso di una carriera, perché oltre al pubblico presente molti show vengono trasmessi in streaming sul web da Red Bull Tv e tante clip resteranno visualizzabili per sempre su YouTube.
Eppure ci sono musicisti che riescono a sprecare l'occasione, non sfruttando appieno la vetrina che si sono faticosamente guadagnati, fra questi i Cymbals Eat Guitars, penalizzati sì dall'orario (non è bello per nessuno suonare alle 17.30 quando il grosso del pubblico si trova ancora in spiaggia) ma responsabili di un set poco caratterizzante, che conferma l'ammorbidimento dei suoni già sancito nell'ultimo "Pretty Years". Poco convincenti anche le Nots: spirito riot grrrl ma ancora troppo acerbe e non all'altezza delle premesse disseminate nell'esordio garage-punk "We Are Nots". Del resto ci aspettavamo molto di più anche dalla tanto attesa Solange, la nuova autorità mondiale del nu-soul, che più tardi sul main stage si perderà troppo in moine e fumo negli occhi, pur nel ricercato scenario incentrato sulle atmosfere contrassegnate dal caldo colore rosso.
Ci sono i prodotti spagnoli, con i quali abbiamo dimestichezza limitata, ma che sorprendono piacevolmente, fra questi vanno citati almeno i catalani Mishima, che si posizionano stilisticamente in prossimità dei National, sia come suoni che come espressione vocale, e ancor di più il Triangulo de Amor Bizarro, vera rivelazione in virtù di un efficace set dove le inequivocabili tendenze shoegaze vengono mitigate da un songwriting pop, in territori non troppo distanti dai Pixies dei tempi migliori.
Ci sono quelli che non sbagliano mai, le certezze, come gli Afghan Whigs di Greg Dulli, in formazione ringiovanita e rafforzata dal prestito di Rodrigo D'Erasmo al violino, che unisce brani recenti a classici del calibro di "Gentleman" e "Debonair". E come i Broken Social Scene, che scorrono bene con la loro Americana di grande qualità.
Ci sono anche quelli che non possono sbagliare perché sono davvero troppo bravi, come i Badbadnotgood, una delle più autorevoli nuove frontiere del jazz contaminato moderno, ancor più jazzy in questa trasposizione live che deve rinunciare ai featuring che arricchiscono i loro dischi di soul e hip-hop.
E poi ci sono i super big, il più importante dei quali la prima sera è Bon Iver, protagonista di un set di grandissima intensità emotiva, perfetta sublimazione di quel folk destrutturato che lo sta imponendo come un caso-scuola: da un lato incanta i fan adoranti, ma dall'altra continua a lasciare pressoché indifferenti coloro che lo ritengono soltanto un cantautore noioso con pochi slanci davvero riusciti. E in tal senso uno spazio così grande non aiuta a ricreare la necessaria atmosfera di cui un artista come lui avrebbe bisogno. Lo spazio al Primavera è tutt'altro che raccolto, il pubblico è lungi dall'essere silenzioso, ma chi accetta di suonare qui non può certo non essere consapevole di questo tipo di rischio.
In giro ce n'è comunque davvero per tutti i gusti, dagli Zombies che convincono tutti riproponendo in versione integrale il loro capolavoro "Odessey & Oracle" (al quale riserveremo un report dedicato) alle tensioni psych di Black Angels e King Gizzard & The Lizard Wizard, passando per il metal degli Slayer, l'impegno di Kate Tempest e l'elettronica di Tycho e DJ Tennis, che conducono il pubblico fino alle luci dell'alba.
A tal proposito quest'anno è stato raddoppiato lo spazio dedicato al Primavera Bits, l'area dedicata agli irriducibili della scena elettronica: due palchi hanno dato spazio sia a spettacoli live sia a seguitissimi dj set, da mezzogiorno alle sei del mattino, con possibilità di accedere direttamente in spiaggia, ma i suoni electro hanno lasciato un segno anche sulle aree principali, grazie alle seguitissime performance di Aphex Twin, Flying Lotus e Jamie XX.
La grandezza del Primavera sta anche nel garantire un flusso di sorprese costanti, che vanno ben oltre la line-up annunciata da mesi e che rendono il festival un'esperienza assolutamente imprevedibile: il pubblico è chiamato a seguire i canali informativi social per non perdere gli annunci dell'ultima ora, i cosiddetti "Unexpected Primavera". E saranno non pochi a disperarsi per aver perso l'annuncio del secret show degli Arcade Fire, su un palco a 360 gradi utilizzato soltanto per questo evento, anticipazione di quello che sarebbe accaduto due giorni più tardi.
Venerdì 2 giugno
Il secondo giorno è la dimostrazione di come sia possibile costruirsi un itinerario musicale al Primavera senza necessariamente transitare per i due palchi principali, e lo comprendiamo sin da Vaadt Charigm, shoegazer from Tel Aviv assolutamente credibili, con quei suoni anni 90 influenzati da pulsazioni new wave, ai quali facciamo seguire il ritmatissimo set etno-jazz firmato Sinkane.
L'Unexpected Show del giorno è l'apparizione annunciata all'ultimo momento dei Mogwai, appena atterrati a Barcellona per presentare in anteprima assoluta mondiale le canzoni del nuovo album, "Every Country's Sun" (previsto in uscita a inizio settembre), forse un po' soporifere, o forse ancora da metabolizzare.
Tutto questo mentre nello spazio dell'Auditori Rockdelux i Magnetic Fields snocciolano la prima parte dello spettacolo diviso in due giorni incentrato sulle canzoni del recente "50 Song Memoir" (report dedicato anche per loro). Dopo la devastazione experimental-noise messa a segno dai sempre meritevoli Shellac di Steve Albini, devastanti e coerenti come al solito, ammiriamo la splendida forma dei Descendents (definirli punk-rock sarebbe oltremodo riduttivo) capaci di infilare un'ora tiratissima in grado di far impallidire stuoli di gruppi emergenti.
Un passaggio dagli Arab Strap, apparsi più energetici del solito, e di corsa verso gli XX che eseguiranno esattamente ciò che puoi aspettarti da loro: un set elegante e sensuale con Jamie XX (più tardi di nuovo sul palco per rimpiazzare Frank Ocean) che emerge (e del resto c'era da aspettarselo) come uno dei personaggi di spicco di questa edizione. Ma non possiamo resistere alla tentazione di fare un salto da Michael Gira che sta vomitando sul pubblico l'apocalisse industrial dei suoi Swans.
Quello che si sviluppa in questo via vai fra un palco e l'altro è un effetto "random/mordi e fuggi" figlio dei nostri tempi, figlio della cultura del web e del modo di fruire musica che segue l'esplosione di Spotify: ho molti eventi in contemporanea, inizio a seguirne uno, ma sono pronto a spostarmi altrove, come se avessi in mano un telecomando o come se mi trovassi di fronte a una pagina Internet infarcita di link che mi attirano verso altri indirizzi.
Un effetto che tende a rendere obsoleto il concetto stesso di concerto come atto unico e separato, da seguire in maniera integrale, e che ha il non certo secondario risultato di provocare un innalzamento del livello qualitativo: ogni band si ritrova costretta a dare costantemente il massimo, oppure il rischio sarà quello di vedere il pubblico defluire verso altri palchi. La discussione sull'opportunità di tutto questo è certamente controversa, ma la sensazione è che il futuro stia andando in tale direzione. E il futuro adesso è qui, al Primavera Sound, non soltanto per lo straordinario successo riscosso al botteghino, ma anche perché la scelta di assegnare il ruolo di headliner ad artisti del nuovo millennio, un segnale che sa di passaggio di consegne generazionale, è stato apprezzato dal pubblico e accettato persino dagli artisti più "anziani", che pur di essere della partita hanno accettato di apparire un pochino più in basso nel cartellone.
Per rilassarci dai frenetici spostamenti ci riposiamo nello spazio dedicato ai "Backstage Party", riservati agli addetti ai lavori, nel quale vengono organizzati show case a ingresso limitato: optiamo per Nicholas Allbrook e i suoi Pond, energetici, trascinanti e in fin dei conti neanche così tanto Tame Impala.
Sabato 3 giugno
Sabato per quasi tutti è il giorno degli Arcade Fire, ma già dal tardo pomeriggio è lunga la sfilza di nomi importanti, a cominciare da Van Morrison, un monumento: nonostante l'età si mostra assolutamente a suo agio nel proporre alla vasta platea il suo blues venato di atmosfere jazzy, che i tantissimi giovani presenti mostrano di gradire.
Dai mostri sacri alle nuove signore della musica, con una Angel Olsen stilosissima, in total white e chitarra elettrica a tracolla sotto le luci del tramonto, nel palco Ray Ban con il mare alle spalle, una delle immagini iconiche di questa edizione. La Olsen ammalia la platea consegnando ai posteri uno dei migliori set dell'intero festival, imponendosi definitivamente come stella luminosa di primaria grandezza.
A seguire, sul palco "gemello", che prende proprio il nome di "Primavera", partono gli acclamati Teenage Fanclub, artefici di un'ora che regala nostalgie (quelle degli anni 90 di "Gran Prix") e belle contemporaneità (quelle del recente "Here"). Dopo di loro c'è giusto il tempo di ascoltare un Seu George carico di saudade nel toccante omaggio a David Bowie (a due passi dal Forum è allestita la celebrata mostra "David Bowie Is" che tutti gli appassionati hanno potuto visitare), per poi precipitarsi sul palco principale per la panterona Grace Jones, 69 anni suonati, che strega tutti con cambi d'abito e intramontabile carisma, glam e al contempo tribale nella sua miscela di grandi hit del passato ("Libertango", "Slave To The Rhythm") e personalissime cover ("Nightclubbing", "Private Life", "Love Is The Drug").
Dopo la pioggia di coriandoli si spengono le luci del palco "Heineken" e si accendono quelle del "Mango", dal lato opposto dell'arena principale. Parte un suono registrato e il nome più importante di questa edizione del Primavera Sound è finalmente on stage. Nessuno sa esattamente cosa accadrà: è la prima data assoluta del tour. Ebbene, gli Arcade Fire decidono di partire in quarta con l'inno "Wake Up" per mandare il pubblico subito in delirio, e lanciare a seguire due tracce che anticipano il contenuto di "Everything Now" (una terza seguirà più tardi, ma tutto sommato le nuove canzoni non convincono appieno), l'album annunciato proprio il giorno precedente è previsto in uscita a luglio.
In un'ora e 40 minuti i canadesi pescano uniformemente dai quattro dischi fin qui pubblicati, facendo ballare la foltissima platea sulle note di "Here Comes The Night Time" e sul coloratissimo trittico "Reflektor"/"Afterlife"/"We Exist". Win Butler sa ammaliare quando si siede al piano per "The Suburbs" e sa quando è il momento di lasciare la ribalta a Régine Chassagne ("Sprawl II") . Il delirio si scatena in corrispondenza di "No Cars Go", "Ready To Start" e "Rebellion", prima che la band abbandoni il palco per poi rientrare e proporre una versione da brividi di "Windowsill", cantata con sullo sfondo un fuoco che non smette di ardere, l'unforgettable fire del nuovo millennio, lo snapshot definitivo di questa edizione del festival, che suggella un set in grado di confermare il perfetto mix di epicità e spettacolarizzazione che ha reso gli Arcade Fire una delle band più significative e influenti della propria generazione.
I pur energetici Japandroids non possono che essere un esercizio defaticante dopo l'esperienza totalizzante di Butler e soci. Le ultime ore del festival non fanno mancare l'ennesimo show a sorpresa, questa volta con protagoniste le Haim. Dopodiché ha inizio il lento deflusso verso l'uscita, ma non saranno in pochi a decidere di restare fino al set conclusivo, quando l'alba è ormai una realtà.
Sabato 3 giugno due squadre spagnole si sono laureate campioni d'Europa: il Real Madrid in campo calcistico e il Primavera Sound in quello musicale. Due tradizioni che, ognuna nel proprio ambito, si confermano come eccellenze assolute. Con noi italiani che continuiamo ad avere ancora tanto, troppo, da imparare.