"Indefinibili" è forse la parola che riassume con maggior precisione la carriera degli Archive. Nei loro ottovolanti musicali, infatti, le sonorità più disparate sono state prese e ricombinate assieme, muovendosi lungo gli stili seguendo un filo conduttore comune. Nella loro musica vive un'attitudine sinceramente progressive, atta a mescolare le più disparate influenze ricombinando insieme pop, rock, elettronica, orchestrazioni e trip-hop. Questo animo libero e sperimentale, a tratti ambizioso, ha fatto sì che il gruppo componesse opere anche di grande valore, curiosamente che hanno riscontrato poco seguito in patria, l'Inghilterra, ma che hanno catturato l'attenzione degli ascoltatori sul continente. Così, smontando e rimontando fra loro gli stilemi per combinarli in nuove modalità, occasionalmente tornando anche nell’alveo delle proprie origini, altre volte invece allontanandosene vistosamente, gli Archive di Darius Keeler e Danny Griffiths si sono ritagliati la propria nicchia peculiare e personalissima.
Esiste comunque una base, una radice, dalla quale il gruppo inglese ha preso l'abbrivio. Ripercorriamo quindi la sua carriera.
DA UNA COSTOLA DEL TRIP-HOP
Molti generi musicali hanno una località geografica di riferimento, per esempio una città in cui la scena ebbe inizio o divenne popolare. Nel caso del trip-hop, la "culla" dove attecchì e si consolidò il movimento è quella ormai storica di Bristol, al punto che per definire il profondo legame esistente fra il genere e la città inglese venne coniata l'espressione "Bristol sound". Come tutte le correnti anche il trip-hop, però, iniziò a svilupparsi fuori dei suoi confini naturali, attraverso una serie di gruppi. Gli Archive sono uno di essi: la formazione londinese, formata nel 1994 da Darius Keeler e Danny Griffiths dalle ceneri del gruppo breakbeat Genaside II, salì alla ribalta proprio in pieno boom del trip-hop, appena dopo la pubblicazione del caposaldo “Dummy” dei Portishead e prima ancora che “Mezzanine” dei Massive Attack ponesse il suggello definitivo a quella stagione.
L'album d'esordio della band, Londinium, esce nel 1996: è una pregevole perla trip-hop in cui il battito downtempo viene diluito in soffuse atmosfere tra soul psichedelico e chillout, speziato con inserti d'archi e di flauto che suonano quasi da musica da camera. Le basi sonore sono poste al servizio di soffusi duetti fra voce femminile e canto rap, rispettivamente quella della cantante e archeologa iraniana Roya Arab e del rapper inglese Rosko John. Le due voci si incontrano narrando la quiete notturna che discende sulla città, nascondendo il disagio del caos quotidiano, ma al contempo riflettendo l'inquietudine dei cuori dell'Inghilterra di fine millennio. Una testimonianza autentica delle sensazioni più intime dell'ambiente urbano londinese, in una dolce e insieme dolorosa visione della società moderna, che invoca uno spazio di quiete.
Questo contrasto ricorda per certi versi “Hex” dei concittadini Bark Psychosis uscito due anni prima: anche il loro rock dilatato e atmosferico, infatti, propone una soluzione soffice e meditativa, un lavoro di introspezione tra sonorità soffuse ed evocative in opposizione al caos quotidiano.
Gli ospiti che partecipano alle registrazioni è lunga e mostra la ricchezza strumentale del disco: Ali Keeler (violino), Julia Palmer (violoncello), Jane Hanna (corno francese), Anita Hill (triangolo), Peter Barraclough (flauto e chitarre), Karl Hyde (chitarra e basso), Steve Taylore (chitarre) Matheu Martin (batteria e percussioni), Jane Wall e Siobhan Sian (cori).
Le tonalità di Londinium sono malinconicamente autunnali, con un retrogusto di dolcezza tra le note più decadenti. Fanno da sfondo a esplorazioni sentimentali tratteggiati da inserti sonori delicati e arrangiamenti avvolgenti, trovando i vertici in perle come l'iniziale “Old Artist” (archi sofferenti su tappeto downtempo percussivo, forse le sonorità più sperimentali dell'album) o la celestiale “Beautiful World” (atmosfere nuvolose, forti bassi dub, synth celestiali in sottofondo, rap cadenzato). Si passa nel mentre per l'alienante “Man-Made”, la densa ed evocativa “Nothing Else”, i crescendo emozionali della title track “Londinium”, e l'eterea “SkyScraper”, che mostrano il rap più riuscito di John, su tappeto trip-hop arrangiato da archi e synth eterei. Si gustano anche miscele di tonalità retrò e altre più moderne, come nella settantiana “Headspace” o nei numeri noir di “So Few Words”, mentre la strumentale “Organ Song”, focalizzata sugli archi e sul dialogo fra sonorità elettroniche e strumenti classici, proietta in uno scenario sofferente e malinconico. In contrasto, “All Time” riprende le radici breakbeat della band innestandole con bassi dub e tenui vocalizzi femminili.
La splendida voce della chanteuse Roya Arab è intimista, vicina a un espressivo soul-jazz portato avanti con charme limpidissimo. Rosko John invece introduce l'interpretazione della scena hip-hop britannica all'album, amalgamandosi perfettamente nel disco con interventi rappati delicati. Tutto scorre fluidamente in un viaggio da ripetere più e più volte. La musica degli Archive si oppone alla confusione mondana della metropoli con tredici perle di quiete.
Purtroppo il disco non viene premiato da un adeguato riconoscimento di vendite in patria (più fortuna nel resto d'Europa), ma Londinium è in ogni caso un piccolo capolavoro perduto del trip-hop, da riscoprire e assaporare in ogni sua sfaccettatura. Parte dello scarso successo nel Regno Unito forse è da imputare anche a un stampa di settore che li inquadra in modo superficiale, senza valorizzare il disco. Gli Archive di Londinium vengono inizialmente accostati ai Portishead per via del fatto che la prima voce in entrambi i casi è femminile, e come tali accolti semplicemente come loro "epigoni". Ma la Arab è una cantante molto diversa, molto più eterea, meno dolente e tagliente della Gibbons; non basta una voce femminile per essere simili, e si ignora poi il contributo di Rosko John.
Gli Archive, soprattutto, non incontrano mai certe atmosfere angoscianti e raggelanti che in diversi episodi della formazione di Bristol entrano invece in primo piano. Sono due gruppi molto diversi per atmosfere e arrangiamenti.
Il disco invece presenta semmai molte più affinità con i Massive Attack di "Protection" per le influenze soul e gli inserti rap, con meno suoni cocktail-lounge rimpiazzati invece dagli spunti da chamber-music, da alcuni spunti chitarristici che addirittura rimandano ai Pink Floyd, e da un'attitudine più atmosferica. Gli interventi di flauto (in "All Time", "Headspace" e "Last Five") sono infine accostati da alcuni giornalisti musicali ad "Aftermath" di Tricky, ma in realtà derivano dai gruppi soul e funk-jazz degli anni 70 che influenzano alla radice il trip-hop, che gli Archive interiorizzano così come molteplici gruppi rock si sono fatti influenzare dai classici blues. A titolo di esempio, si può trovare un flauto anche in "Definition" del duo downtempo austriaco Kruder & Dorfmeister, che risale addirittura al 1992. Londinium ha un'identità propria, degna di essere trattata a sé. Come molti altri dischi della corrente, viene superficialmente snobbato da parte della critica, che erroneamente lo percepisce come derivativo dei suoi più celebri predecessori, nonostante uno stile e una personalità propri.Dopo quest'album gli Archive, a causa di dissidi interni, si sciolgono temporaneamente, per poi ricomporsi e tornare nei negozi di dischi nel 1999 con una differente line-up e nuovi intenti musicali.
La parola che viene in mente ascoltando l'opera seconda Take My Head è "metamorfosi". La formazione inglese cambia completamente volto. Il trip-hop soffuso, evocativo e malinconico dell'esordio lascia spazio a un pop elettronico che lambisce cadenze ballabili, accentua l'impatto melodico e cerca ogni tanto di diventare più ricercato ed effettato. La componente pop diventa predominante e tastiere e i sintetizzatori si fanno spesso da contorno alle melodie, solo in certi casi prendendo le redini del brano. Scompare del tutto il canto rappato e la nuova voce Suzanne Wooder non ripropone le tonalità melanconiche di Roya Arab, virando su sfumature decisamente più vivaci. L'uso massiccio dell'elettronica sostituisce le atmosfere delicate alternando stratificazioni lisergiche (più riuscite) e attacchi sonori più catchy (meno riusciti).
Vien da fare a questo punto qualche paragone con un altro gruppo londinese che si è evoluto in modo paragonabile: i Morcheeba. Il loro primo disco del 1996 presentava una componente trip-hop tinta da varie influenze e con atmosfere dense e urbane, mentre il secondo disco del 1998 si allontanava dalla base per aprirsi ancora di più a territori pop. Qualcosa di simile lo hanno fatto gli Hooverphonic, che però suonano più upbeat e meno passionali. Non si può escludere che gli stessi Archive abbiano preso spunto dai loro "colleghi". Purtroppo Take My Head perde in evocatività e freschezza, con arrangiamenti discordanti tra di loro.
Il problema principale dell'album è la sua natura fortemente conflittuale tra l'anima pop e quella elettronica. Il conflitto non viene mai risolto, con lo spiacevole risultato di un disco spezzato tra una metà di tracce prevalentemente pop senza suonare convincentemente profonde e un'altra metà di tracce prevalentemente elettroniche senza suonare convincentemente accattivante. La fusione sembra avvenire solo in pochi frangenti. Vengono comunque sfoderati alcuni pezzi interessanti, soprattutto all'inizio. L'apripista “You Make Me Feel” è una hit, energica, trascinante, pulsante, infuocata, dove l'acidità di bassi ed elettronica si mescola a una sezione ritmica implacabile, tra chitarre elettriche urlanti e refrain ossessivi. Il contrasto generato dai dolci inserti di chitarra acustica e dalla limpida voce di Suzanne Wooder contribuisce a creare una sensazione straniante, amplificata dal contrasto fra le liriche d'amore e i suoni lancinanti che le accompagnano, quasi a stravolgerne il significato. Aggiungiamo un gusto per le melodie accattivante e abbiamo un singolo d'apertura semplicemente spiazzante. La seconda traccia “The Way You Love Me” è più pacata, assestandosi su tappeti di tastiere eteree su cui si adagia l'intensa batteria e il canto femminile cristallino. Nei brani successivi però gli Archive faticano a trovare il giusto equilibrio, alternando ballate che cercano di rimescolare pianoforti, archi di sottofondo e trip-hop ma suonando spesso troppo melense ("Brother", "The Pain Get Worse", "Cloud In The Sky") a parentesi energiche fra ritmiche upbeat o chitarre acide ("Well Known Sinner", "Woman")
L'oscura title track “Take My Head” è il picco dell'album, assieme alla opener, di cui è l'ideale seguito: dopo una breve introduzione di tastiera e voce, c'è un'esplosione di effetti e distorsioni che si riallaccia direttamente a una melodia molto simile a quella di “You Make Me Feel”, mentre l'intensità e le ritmiche scandite con fermezza riportano di nuovo in prossimità di territori trip-hop.
Sul finire dell'album troviamo la strumentale “Love In Summer” (dolce, con alcune sonorità latino-americane e poi effettistica e sassofoni che si inseriscono nell'esplosione finale) e “Rest My Head On You” (brano dolce e malinconico senza risultare frivolo), che per atmosfere e ritmo downtempo è il brano più vicino a Londinium.
Chiude una hidden track, una ballata triste di pianoforte di appena due minuti.Dopo l'uscita del disco gli Archive salutano la cantante Suzanne Wooder per far posto al nuovo acquisto Craig Walker, ex-leader del complesso pop-rock Power Of Dreams. Registrato questo avvicendamento, gli inglesi pubblicano You All Look The Same To Me (2002) e cambiano di nuovo volto. Stavolta gli Archive imbracciano il sentiero di un rock moderno, elaborato, elettronico e d'attitudine progressista, che spazia fra ritmiche influenzate da trip-hop, breakbeat, pop romantico, alt-rock elettronico, elementi acustici alternati a spruzzi elettronici e tappeti d'atmosfere maggiormente ambient, con crescendo di grande intensità e batterie vellutate di derivazione post-rock. Le composizioni mantengono tutta la classe del gruppo e navigano con scioltezza fra stratificazioni sonore, momenti più distorti e distensioni melodiche. La lista di musicisti unitisi a Keeler e Griffiths durante le registrazioni è nuovamente ricca ed esplica la ricchezza compositiva e strumentale dell'opera: Lee Pomeroy (basso), Steve Emney (batteria), Dominic Brown (chitarre), Steve Barnard (batteria), Pete Barraclough (produzione e chitarre), Dominic Brown (chitarre), Alan Glen e Tom Brazelle (armonica), Steve "Keys" Watts (organo e pianoforte), Anita Hill (triangolo), Carl Holt (tromba), Annelise Truss (viola e violino), Jane Wall e Maria Q (voci).
You All Look The Same To Me si rivela un personale anello di congiunzione fra gli anni 70 e i 90, condito da un esistenzialismo tipicamente britannico e una vena sentimentale più stemperata. Si intravedono riferimenti lampanti a gruppi come Genesis e soprattutto Pink Floyd, questi ultimi che fanno da collante principale. Osiamo dire: questo disco è proprio ciò che potrebbero essere i Pink Floyd se nascessero al giorno d'oggi, si lasciassero contaminare dall'elettronica in modo massiccio, e apprezzassero i Radiohead e i Mogwai. La sensibilità floydiana è un'influenza molto marcata negli arrangiamenti, adattata a suoni più contemporanei grazie a quella radioheadiana (soprattutto nelle linee vocali, a volte, forse, troppo simili a quelle di Thom Yorke). Sebbene certi elementi, presi singolarmente, risultino particolarmente debitori delle band sopracitate, messi assieme e mescolati con il background degli Archive danno vita a un'opera sorprendentemente personale nel complesso. Il risultato sonoro è quindi comunque unico, dal momento che le influenze vengono mediate dalle radici musicali dei vari membri. Forse è questo il progressive del 2000 e lo stesso gruppo per certi versi si ritiene tale.
Darius Keeler e Danny Griffiths si consacrano così come compositori eclettici, se non camaleontici per la flessibilità con cui spaziano fra i generi da un disco all'altro.
L'iniziale “Again” è una suite di 16 minuti introdotta da una tromba che ricorda i tardi Talk Talk, a cui subito seguono morbidi arpeggi di chitarra, la mesta voce di Craig Walker e tenui effetti di sottofondo, che in breve si tramutano in eterei tappeti di tastiere ambient, accompagnati da una triste armonica. Non passa molto tempo prima che l'effettistica e l'impianto ritmico facciano il loro ingresso scandendo con leggerezza lo scenario del brano, che diviene quindi un caleidoscopio di sonorità intrecciate fra loro in un unicum che scorre fra crescendo emotivi (soprattutto quello finale) e intermezzi atmosferici con continuità scorrevole, anche se un po’ allungata nella sezione centrale. L'influenza del post-rock è avvertibile maggiormente nei tipici climax posti a coronamento dello sviluppo sonoro e in alcuni interventi di batteria, mentre le radici trip-hop del gruppo si avvertono nelle ritmiche più vicine al battito elettronico e nei passaggi atmosferici. Il tutto è intriso di emozionalità romantica, melodie britpop e rimescolamenti di chitarre acustiche ed elettriche.
La successiva “Numb” si fa guidare dal basso intermittente su cui si adagiano la batteria cadenzata e le linee vocali, molto simili a quelle di Thom Yorke. Successivamente le distorte chitarre elettriche irrompono costruendo un ripetuto muro sonoro, cupo ma graffiante, per poi abbinarsi ai tappeti di tastiera e ai sampling. “Neon” è un dolce viaggio spaziale fra tonalità floydiane, lievi spunti reggae, batteria in parte trip-hop, archi che si ricollegano al debutto e crescendo d'emozionalità. “Goodbye” gioca invece sul connubio fra la melodia da ninnananna, i consueti tenui fondali di tastiera e la batteria filtrata, rivelandosi però prolissa e ripetitiva.
Su “Now And Then” si registra l'esordio di Maria Q, nuova voce femminile, ma per ora ancora in un ruolo minore. “Finding It So Hard” è la seconda suite del disco: una cupa progressione elettronica fra atmosfere di nuovo floydiane che vengono trasfigurate con melodie quasi future-pop, ritmiche ripetute di stampo acid-house, tastiere ambient, bassi filtrati e campionati, tastiere spaziali e spettrali che ricordano "Irrlicht" di Klaus Schulze, chitarre che introducono un electro-rock inquietante e alienante. Dopo questi oltre quindici minuti, “Fool” si adagia su un più tranquillo mix di pop-rock, elettronica, trip-hop, distensioni atmosferiche autunnali e vocalizzi pop: non stupisce quanto i brani precedenti e si mostra un po’ monocorde, ma rimedia grazie all'atmosfera densa e notturna, arricchita da spunti “sixties” nelle fisarmoniche, nell'organo e in alcuni tocchi di chitarra leggermente psych-blues. In “Hate” la musica malinconica e dolce contrasta con il testo, risentito e sfiduciato; un conflitto sottolineato anche dalle linee vocali nostalgiche e vellutate, che conferiscono al brano un retrogusto amaro. La conclusiva “Need” per contro è un'esecuzione acustica placida e senza molto da aggiungere.
Sempre nel 2002 esce un Ep a edizione limitata (Cd, audiocassetta e vinile) intitolato The Absurd Ep, contenente quattro inediti che rimescolano pop romantico, basi effettate, alternative-rock elettronico, stratificazioni oniriche e armoniche, che il gruppo approfondirà in futuro. L'uscita appare comunque meno a fuoco e omogenea dell'album che l'accompagna, mostrandosi più "umile" e soffusa, ma anche meno incisiva.
L'iniziale “Absurd” sfoggia un avvolgente tappeto atmosferico che funge da soffusa base su cui si adagiano la leggera batteria, vocalizzi malinconici, con un’attitudine quasi gospel e soffici elementi onirici che creano un’atmosfera dolce e rilassante. La mini-suite “Junkie Shuffle” inizia con tenui fondali di tastiera quasi minimalisti, che evolvono in un leggero crescendo post-rock, costituito da trascinanti ritmi vicini al trip-hop, da basi elettriche mesmerizzanti di sottofondo, e soprattutto dalla voce accattivante di Walker, mentre il climax finale segna un punto d'incontro intrigante tra la verve rock e la tessitura elettronica.
“Sham” è un pezzo noir che combina battito trip-hop, vocalizzi e interventi chitarristici bluesy (piuttosto banali, a dire il vero), effetti elettronici alienanti e archi dolcificanti a stemperare i toni notturni e malinconici. Infine, c'è “Men Like You”, che riprende un piglio energico tipicamente britpop e lo prolunga, al tempo stesso dilatando l'accattivante piglio melodico e rendendolo un po' ripetitivo.
Le interessanti idee dell'Ep vengono offuscate dal raffronto con l’imponente Lp precedente, col risultato che l'uscita passa un po' in sordina.
Il 2003 è segnato invece dalla pubblicazione della colonna sonora del film Michel Vaillant, in bilico fra elettronica incalzante, orchestrazioni d'atmosfera, epicità, digressioni cupe e soundscape fra Brian Eno e Death In Vegas.Nel 2004 il quarto album studio Noise.
Il lavoro è fortemente ambizioso: la formula del precedente disco si ripete in modo molto più stratificato e sovrabbondante, ma senza mai toccarne i vertici strutturali ed emotivi.
Il risultato è discontinuo. Nel loro tentativo di risultare a tutti i costi sperimentali e innovativi, attingendo da un crogiolo di suoni diversissimi per assemblarli in qualcosa di inedito, gli Archive finiscono per mettere troppa carne al fuoco. Ne risulta un lavoro pretenzioso e a tratti anche troppo sentimentalista, un incrocio sconnesso di stilemi vari che spesso risulta anche troppo derivativo per dare personalità ai pezzi. In particolare i Radiohead diventano una presenza ingombrante, soprattutto nelle linee vocali di Craig Walker che non riescono a trasmettere personalità e originalità.
I pezzi migliori sono comunque ben degni di nota. “Fuck U” inizia con un soffuso e leggerissimo gioco di tastiere, a far da sottofondo alla voce, quindi si aggiungono la batteria e riverberi chitarristici a preparare il terreno al ritornello distorto. Il brano si evolve in un climax di chitarre elettriche stratificate contrappuntate dagli archi, con un terrificante testo composto da insulti e minacce, reso ancora più gelido dal tono vocale disgustato e non infuriato che contrasta con le sonorità dolci. “Wasted” è una suite radioheadiana di quasi dieci minuti guidata da chitarre distorte su cui si adagiano droni stranianti, battiti elettronici e voci filtrati. Il pezzo viene introdotto da una sorta di placido elettro/ambient minimale e occasionalmente enfatizzata da looping di synth ossessivi, archi e piccoli arpeggi stile Explosions In The Sky. “Pulse” ripiomba in un pop futurista che gioca sull'ossessionante ripetersi dei ritmi sintetici, delle distorsioni noise, degli inserti elettronici e rumoristici, ma soprattutto del canto femminile alienante, filtrato e quasi raggelante, ma anche bruciante e passionale. Nella title track invece abbiamo un punto di incontro tra alternative-rock e trip-hop, arricchito da chitarre acustiche, pulsazioni elettroniche, arrangiamenti orientaleggianti e rumoristici.
Ma nella maggior parte del disco o si mescolano spunti godibili ad altri più melensi, o il risultato è troppo debitore dello stile delle ballate acustico-elettroniche dei Radiohead (in particolare "Conscience", "Me and You", la breve "Wrong"). Su quest'ultimo punto, fa eccezione l'orecchiabile “Get Out”, che ricicla in una nuova veste graffiante alcuni cliché trip-hop e brit-pop, ma perché ricalca eccessivamente la melodia vocale di... “Stop Crying Your Heart Out” degli Oasis.
Anche alcuni gruppi sorti da poco, come i My Computer, sfoggiano soluzioni simili e sembrano ispirarsi proprio agli Archive, ma suonano un po' più ispirati che in Noise.
Ci sono interessanti esperimenti sonori, riff accattivanti e pulsazioni elettroniche coinvolgenti, ma sono annegati nelle stratificazioni eccessive degli arrangiamenti e dai momenti in cui il gruppo imita eccessivamente le proprie influenze.Il quinto album degli Archive, intitolato Lights, vede Pollard Berrier sostituire Craig Walker come cantante principale. Il disco interpreta certe soluzioni del precedente Noise con una vena meno propensa alle stratificazioni e più elettronica, coniugando le sue mescolanze sonore con maggiore cura melodica, mentre il contorno atmosferico si fa anche più avvolgente. Questo conferisce maggiore vitalità e freschezza al sound degli inglesi, forte di una maggior brillantezza compositiva e di arrangiamenti più variegati e trascinanti. Non è perfetto: in alcuni frangenti vengono riproposti gli stessi difetti di Noise con mezzi diversi, scivolando in un sound pomposo. Anche gli episodi acustici risultano troppo stesso debitori di Coldplay e Radiohead per convincere appieno (lo stesso Berrier ha un timbro vocale non a caso molto vicino a quello di Thom Yorke). Nel complesso, però, di canzoni riuscite e coinvolgenti, ve ne sono molte più che nel predecessore, e il recupero dell'emozionalità variopinta di You All Look The Same To Me (con il suo crocevia di tendenze stilistiche differenti) si sposa a una maggiore immediatezza e una più accesa emotività. Già l'iniziale "Sane" con il suo electro-rock trascinante fa ben sperare, con trascinante battito elettronico, cascata di arrangiamenti sintetici, scariche elettriche distorte, melodie vocali azzeccate. Il picco del disco è la suite elettronica di 18 minuti della title track, che rappresentano la summa stilistica della band, fra drumming instancabile, elettronica distorta, delay e droni psichedelici, stratificazioni dilatate e avvolgenti. Si tratta di un corposo viaggio spaziale che catapulta in un vortice psichedelico, raggiungendo climax distorti sostenuti da avvolgenti tappeti onirici e da battito downtempo.
Per contro, l'eterea “I Will Fade” è una ben più breve e placida ballata ambient/acustica tra note cullanti e la voce dolce di Maria Q, che si snoda scorrevole e rilassante; mentre “Fold” è un'eterea ballata guidata da pianoforte e grandi melodie vocali, con sottofondo di sample elettronici. L'ipnotica “Programmed” poi rimescola ballabilità quasi dance con vocalizzi filtrati, distorsioni sintetiche, alcuni richiami ai Primal Scream e delay trascinanti, sfoggiando forse le ritmiche più accattivanti e coinvolgenti del disco. In tutto il disco comunque, ormai è un'abitudine, sono mescolati spunti interessanti e godibili ad altri più confusi. Inoltre permane la tendenza a ricalcare troppo i Radiohead in certe ballate, lasciati da parte solo quando si tratta dei Coldplay ("Fold") o dei Muse ("Black").
Il lato buono della musica degli Archive è che è immensamente variopinta e curata. Il rovescio della medaglia è la sensazione che gli inglesi siano diventati troppo legati alla forma e che ciò gli impedisca di sfornare un vero e proprio capolavoro anche quando gli ingredienti ci sono.Nel 2009 il compito di smentire le critiche passate e sanare la conflittualità nelle tendenze compositive degli inglesi tocca a Controlling Crowds, sesto album studio ed ennesima prova di eclettismo stilistico. Anticipato dall'energico e riuscitissimo singolo "Bullets", il disco è un concept di protesta sul controllo delle masse e i lati negativi del capitalismo. È suddiviso in tre parti, a cui se ne sarebbe dovuta aggiungere una quarta che poi il gruppo ha deciso di pubblicare singolarmente alcuni mesi dopo. Viene messa a cuocere una mescolanza di elettronica, pop e rock tramite un caleidoscopio di suoni ed effetti altamente ragionato. In particolare, gli Archive coniugano lo spirito progressive, i crescendo con climax emozionale del post-rock, e i suoni alternative-rock ai battiti del trip-hop e del downtempo, spaziando occasionalmente nell'ambient-rock, nell'hip-hop sperimentale, nelle orchestrazioni tastieristiche e nell'indietronica.
Ne risulta un lavoro ricco di idee fresche che scorre in maniera trascinante. I momenti positivi come tradizione sono soprattutto evidenti in apertura e nelle suite. L'iniziale title track è condotta da tastiere avvolgenti accompagnate da delle ritmiche incalzanti. L'incedere è prolungato e dilatato, ben congegnato e caratterizzato, ma soprattutto variegato e senza ridondanze. L'arrangiamento è più ponderato e ciò rappresenta un distacco dalla vena degli ultimi due dischi. Ma i momenti più stupefacenti devono ancora giungere, come nel quinto brano “Quiet Time”, un pezzo elettronico e atmosferico in cui ritorna il rap del collaboratore dell'esordio, Rosko John (un graditissimo ritorno). Oppure l'emozionante “Collapse/Collide”, che introduce la seconda parte del concept: un lungo pezzo atmosferico dove via via si aggiungono sempre più elementi a costituire l'ormai centrale questione del crescendo, con effetti elettronici spaziali, voce femminile dolente, downtempo cadenzato, synth acidi, tappeti atmosferici e tanta ricercatezza sonora. La struttura in sé non dice nulla di nuovo, ma sono le combinazioni melodiche a mostrare freschezza e ispirazione, rivitalizzando i battiti del trip-hop con un caleidoscopio di suoni ed effetti altamente ragionato.
Ancora, “Bastardised Ink” colpisce col suo essere molto inquietante, grazie alla sua unione di beat hip-hop secchi e tappeti di tastiera gelidi, ad anticipare i refrain futuristi che dipingono uno scenario urbano modernissimo, pulsante e vitale, ma che lascia trapelare un senso di decadenza e angoscia; il rapping deciso catalizza quest'oscurità, tanto subdola quanto incisiva. Nel lento trip-hop jazzy di “Whore”, invece, la voce femminile filtrata è sensuale e avvolgente, mentre le tastiere miscelano un tripudio sottile ma toccante di dolce e amaro: è il pezzo che conclude la seconda parte del disco.
La terza parte del concept convince un pochino di meno, ma risulta ugualmente vivida e coinvolgente; viene introdotta da “Chaos” che, a dispetto del nome, gioca sulla dolcezza delle linee vocali, supportata dal deciso ma malinconico pianoforte, restando costantemente su tessuti sonori morbidi, avvolgenti, con i soliti archi, i falsetti radioheadiani e una progressiva espansione emotiva mutuata dal post-rock.
Ma in generale tutto l'album suona molto più fresco, coeso e ispirato dei predecessori, probabilmente il loro migliore dai tempi dell'esordio. Anche quando cita influenze, come i Porcupine Tree ("Dangervisit"), Fleet Foxes ("Clones"), Garbage ("Kings of Speed") o il dubstep ("Razed To The Ground"), lo fa in maniera stavolta davvero personale.Il seguito del concept, Controlling Crowds Part IV viene pubblicato dopo solo sei mesi dall'uscita dell'originale. Questo breve periodo è stato probabilmente dovuto al fatto che Griffith e Keeler non se la sentivano di rilasciare in una sola volta un massiccio e indigeribile doppio Cd unico di oltre 2 ore (che difatti è stato rilasciato solo in seguito, in edizione limitata).
La parte quarta prosegue naturalmente il discorso del precedente disco ma al contempo giocando a ricongiungerlo con particolari momenti della produzione del gruppo, trovandovi così spesso nuove idee, ma perdendo l'equilibrio e la compattezza raggiunti. Diluito e nuovamente ridimensionato il trip-hop, il lavoro risente di una maggior influenza del post-rock, nei suoi ormai stereotipati climax, anche se non rinuncia a pulsazioni elettroniche, onirismi ripresi dai Sigur Ròs e ballate emozionali immerse in viaggi onirici e spaziali. Il mood è generalmente disteso e sognante, con i picchi romantici di Noise reinterpretati con gli arrangiamenti malinconici più elaborati di You All Look The Same To Me e le armonizzazioni e le miscele stilistiche di Controlling Crowds.
Come sempre, l'apertura del disco riserva alcuni dei momenti più riusciti: “Pills”, che catapulta direttamente negli anni 80 con synth notturni, bassi pulsanti, beat incalzanti, atmosfere avvolgenti e la voce suadente di Maria Q che riecheggia per le strade di una viva metropoli illuminate dai lampioni, dai fari delle automobili e dalle insegne luminose dei club; e “Lines”, che gioca di più con effetti sonori stranianti e distorsioni acide, tra refrain taglienti, battiti filtrati e sintetici e attacchi acustici, su cui si stende il rap duro e scurissimo di Rosko John.
In generale il disco rimane sempre godibile, ma è un peccato che in molti brani il gruppo attenui gli spunti positivi indugiando troppo con la continua progressione sonora soft/loud secondo i consueti canoni post-rock e i suoi prevedibili climax, oppure dai gruppi del wave-revival. Ma il gruppo ci mette la sua classe nell'arricchire l'ascolto tramite un un susseguirsi di tastiere dolci e atmosferiche a cui si aggiungono beat più dinamici, bassi intermittenti, hammond malinconici, tastiere ora rarefatte ora corposamente oniriche. Ritroviamo suoni più psichedelici con “Come On Get High”, dove l'influenza dei Pink Floyd e un'attitudine maggiormente ambientale vengono mescolate al trip-hop e all'elettronica. “The Feeling Of Losing Everything” inizia come un duetto fra la voce malinconica di Dave Pen e un piano in lo-fi che conferisce un tocco retrò, poi c'è una trasformazione in un elettro-ambient cosmico, denso ed etereo, con tappeti d’archi ad accompagnare spruzzi elettronici. Infine, l'album viene concluso da “Lunar Bender”, dolce ed etereo viaggio fra space-ambient e le consuete influenze dai gruppi post-rock, con arpeggi delicati, elettronica vellutata e vaste distese celestiali dipinte dalla musica.
La sensazione è che gli Archive abbiano più che altro concluso il discorso intrapreso con Controlling Crowds senza preoccuparsi di eccedere o adagiarsi sugli allori, anche se i capitoli I-III risultano maggiormente riusciti.
Nel 2012 con With Us Until You're Dead (un concept sull'amore) il gruppo presenta sia una forte ricchezza sonora che una generale discontinuità, che a tratti fa apparire le tracce come pezzi di un collage improvvisato. Tornano la ricerca sonora dei due “Controlling Crowds” e i barocchismi romantico-sinfonici messi in primo piano su Noise e Lights, il tutto immerso in una matrice elettronica caleidoscopica che pone enfasi soprattutto sulla stratificazione continua. Spesso ciò avviene a scapito dell'immediatezza melodica, per di più quando quest'ultima viene lasciata libera e si incentra soprattutto sui climax emotivi accompagnati dalle orchestrazioni atmosferiche. Pesa anche l'assenza di Rosko John e del suo rap inquietante e coinvolgente, nonché degli elementi sonori più marcatamente trip-hop; aumentano, invece, i ricalchi del synth-pop, del big beat e della new wave revival. Ne scaturisce un album imponente, a volte anche troppo, ma sempre fortemente emotivo (almeno per quanto riguarda la musica, mentre i testi scadono ogni tanto in un eccesso di sentimentalismo salvato però dalla tensione psicologica, a volte violenta, fra le righe) e ricco di ambizione. Viene aggiunta tanta carne al fuoco, ma non sempre riesce a trovare il giusto equilibrio. In particolare, l'accesa passionalità del gruppo non raggiunge i picchi creativi e di spontaneità di Controlling Crowds, finendo per scadere ogni tanto nell'auto-indulgenza delle precedenti release. With Us Until You're Dead si configura come un disco meno originale del suo predecessore e più minato dai cliché, a tratti persino kitsch, ma riscattato da interventi ritmici di spessore e spruzzate di elettronica elegante. È questo il sunto di luci e ombre che costellano la discografia degli Archive, capaci di avvicinarsi costantemente al capolavoro senza riuscire però a toccarlo, a volte venendo tirati via lontano con forza.
Dopo essersi sentiti definire “cinematica” la loro musica per una vita, gli Archive decidono, finalmente, di scrivere una colonna sonora per un film. Non volevano essere banali, però, così hanno invertito il processo di produzione: sono nati prima i loro brani, un vero e proprio script musicale, attorno al quale è stato poi costruito il film. A convertire i loro suoni in immagini ha provveduto il collettivo cinematografico spagnolo NYSU. Ne è scaturito Axiom (2014), film di 40 minuti con relativo album, distribuito in cd, download, Dvd nonché in alcune sale esclusive, come la Roundhouse di Londra dove è stato presentato in anteprima.
Giunti all’ottavo album, gli Archive accentuano la loro vena epica, esaltandosi nei dieci minuti della title track, un nuovo tour de force, scandito dalle campane e suggestivo nell’alternanza tra estasi celestiali, enfatizzate dai cori angelici, e paesaggi brumosi, in cui allignano beat minacciosi e scorie noise (atmosfere poi ribadite nella “Reprise” finale). Ma la vera prodezza del disco è la successiva “Baptisme”, inquietante pièce sospesa tra i Genesis era-Gabriel e i Marillion più apocalittici, in cui la sensibilità avanguardista del gruppo riesce ancora una volta nell’impresa di attualizzare i canoni prog innervandoli di potenti scariche elettroniche, con canto disperato a corredo, nel solco del capolavoro “Collapse/Collide” del 2009.
Le reminiscenze dell’era trip-hop riaffiorano, invece, tra le pulsazioni della suadente “Transmission Data Terminate”, ingentilita dai vocalizzi della sempre sensuale Maria Q, vero valore aggiunto della band a partire dal suo ingresso nella line-up, datato 2006. Una voce che disegna nuove trame celestiali nella pacata “The Noise of Flames Crashing”, ovvero la quiete dopo la tempesta, appena increspata da sinistri rumori elettronici sullo sfondo. Quasi un contraltare femminile alla serafica ouverture “Distorted Angels”, che distilla un’altra tenera melodia delle loro su un soffice tappeto d’archi.
Axiom segna insomma l’ennesimo centro per gli Archive, ai quali si può perdonare qualche lungaggine e la tediosa digressione di “Shiver”, che dovrebbe essere il pezzo più pop del lotto ma finisce col perdersi in uno spartito anonimo.
Nel successivo Restriction i risultati sono meno convincenti. Il tentativo è di realizzare un intricato mix di rock ed elettronica che al tempo stesso si distacchi dalle sperimentazioni passate, qualcosa di simile a un incrocio fra ultimi Radiohead, primi Porcupine Tree e ultimi The Gathering. Ciò che si ottiene però è meno ispirato e a tratti troppo derivativo. I passaggi di batteria elettronica sembrano troppo debitori della lezione impartita da dischi come Kid A; in pezzi come "Greater Goodbye" le linee vocali ricalcano troppo Danny Cavanagh degli Anathema, che influenzano anche le chitarre atmosferiche assieme alle melodie pop dei Coldplay. Non mancano poi Prodigy e Massive Attack. Ci sono molti spunti interessanti e idee da sviluppare, ma i brani sono troppo poco incisivi per non suonare in certi frangenti ripetitivi e alla lunga noiosi. Di nuovo, gli Archive si presentano in maniera discontinua, in bilico tra genialità creativa e ridondanza auto-indulgente.
Nel 2016 esce The False Foundation, che segue dei binari introspettivi, con tenui sinfonie elettroniche che trasformano i brani in languide sperimentazioni dedicate alla contemplazione. Le basi elettroniche rimangono le stesse, influenzate dall'ambient à-la Brian Eno e dal trip-hop dei Massive Attack (nelle atmosfere lounge ma non nel battito downtempo), ma le stratificazioni si fanno più diradate e strizzano l'occhio anche all'industrial degli ultimi Nine Inch Nails dei momenti più melodici e meno distorti. Gli umori sono più cupi e malinconici che mai, trovando punti di contatto tematici e sonori con gli ormai puntuali Radiohead, la cui influenza rende questo probabilmente uno degli album più intimisti degli Archive. Si viene così a cercare un ibrido fra il minimalismo atmosferico, i droni elettronici e i consueti arrangiamenti eclettici e variopinti della band. Purtroppo l'impresa è ardua e spesso gli inglesi diventano ripetitivi, oppure finiscono per stemperare il potenziale melodico, che cerca di uscire a più riprese, rendendo i pezzi poco più che semplici intermezzi se non riempitivi. Il disco, nel complesso, non suona particolarmente compatto, nei momenti più convincenti c'è la solita discontinuità del gruppo anche all'interno dello stesso brano, mentre in quelli deboli permane un po' di incompiutezza. Viene mantenuto il tradizionale contrasto tra l'anima più pop e quella elettronica e sperimentale (lasciando in disparte quella "orchestrale" e quella "rock"), ma è innegabile la classe di fondo. Si tratta, quindi, di un album di transizione, con cui sperimentare particolari soluzioni sonore prima di ricongiungere il tutto in un lavoro più unitario, diretto e melodico, come già gli Archive ci avevano abituato a fare in passato.
L’ampia e diversificata discografia prodotta lascia spazio a innumerevoli interpretazioni. Vantare un numero considerevole di brani pubblicati, spalmati su molti anni di attività, porta frequentemente l’artista a sentire la necessità di riprendere il lavoro compiuto e riproporlo in una veste diversa.
Con Versions anche gli Archive hanno deciso di dare un nuovo aspetto ad alcune delle composizioni più significative che ne hanno contraddistinto la fulgida carriera. Per commemorare i primi venticinque anni di attività e dopo la pubblicazione di un vero e proprio compendio che ne tracciava la summa definitiva (il cofanetto “25” datato 2019), Darius Keeler e Danny Griffits si sono spinti nella profonda e sempre rischiosa revisione di vecchi successi e di alcuni inediti che erano stati inseriti nel box celebrativo dell’anno precedente. I pezzi sono completamente svestiti dei sontuosi orpelli sonori originali e figurano, con la massima riduzione possibile, denudati e mostrati al pubblico senza le sovrastrutture che ne avevano caratterizzato le versioni ufficiali. “Lights”, estratta dall’omonimo album del 2006 e l’intensità oldfieldiana di “Again”, ripresa da “You All Look The Same To Me” del 2001, sono tracce esemplari in tal senso. Gli eccessi e le venature traboccanti delle official versions sono letteralmente scomparsi, per lasciare spazio a suoni sferici, eteree e dilatate note di pianoforte e superfici di remoti sintetizzatori o chitarre che esaltano la voce solista di turno.
Nel 2022, la band torna sulla via del precedente album di inediti con Call To Arms & Angels, un flusso dilatato che si sviluppa (nella versione in vinile) su ben sei facciate, alternando momenti soffusi ma ricchi di tensione a entusiasmanti addensamenti ritmico/melodici. A permettere la magia, oltre allo storico produttore Jérôme Devoise, anche un organico decisamente allargato che spazia dalla strumentazione rock a quella elettronica, includendo anche contrabbasso, violino, viola e due corni francesi.
I temi che fanno da ispirazione riflettono le crescenti tensioni nella società, dall’ovvia pandemia all’ascesa dell’estrema destra in Occidente, ma l’approccio con cui sono affrontati è come consueto obliquo: testi ed elementi musicali sono allusivi, spesso marcati da ripetizioni al limite dell’ipnotizzante, e costruiscono inquietudine anche e soprattutto con il loro girare in tondo. Tra gli apici di coinvolgimento emotivo, svettano soprattutto l’ossessivo e super-progressivo drum’n’bass di “Numbers”, e la lunga cavalcata trance-rock “The Crown”, che rilegge in chiave oscura i fasti floydiani di “One Of These Days”. Il titolo di pezzo più lungo va tuttavia ai quattordici minuti abbondanti di “Daytime Coma”, più che mai ammaliante nel suo gradualissimo crescendo — dalle gentili ondulazioni pianistiche dell’inizio alla maestosa concitazione che si impone a metà brano. Quasi un pesce fuor d’acqua per il suo carattere a suo modo luminoso e pop, “Freedom” è invece il pezzo più inatteso del disco: un’apertura quasi rnb, ancora un poco ombrosa, cede il passo a un ritornello che pare arrivare dritto da un qualche perduto singolo classicheggiante tardo-Sixties (thanks Pachelbel, per l’ennesima volta).
Un album che non scombussola le carte e non attirerà nuovi fan, ma rappresenta un viaggio appagante se vissuto in un’unica tratta, così come gustato con le dovute interruzioni e riprese.
Attendiamo Darius Keeler, Danny Griffiths e compagni alla prova del prossimo album, con la consapevolezza di avere a che fare con una delle formazioni più caleidoscopiche del panorama pop e rock contemporaneo.
Contributi di Matthias Stepancich, Claudio Fabretti, Cristiano Orlando ("Versions"), Marco Sgrignoli ("Call To Arms & Angels").
Londinium (Island Records, 1996) | ||
Take My Head (Independiente Ltd., 1999) | ||
You All Look The Same To Me (Universal, 2002) | ||
The Absurd (Ep, East West, 2002) | ||
Noise (East West, 2002) | ||
Lights (East West, 2002) | ||
Michel Vaillant (colonna sonora, PID, 2003) | ||
Pieces B Sides (Ep, WM Record, 2006) | ||
Controlling Crowds (Warner, 2009) | ||
Controlling Crowds, part I-IV (Warner, 2009) | ||
With Us Until You're Dead (Dangervisit Records, 2012) | ||
Axiom (Cooperative Music, 2014) | ||
Restriction(PIAS, 2015) | ||
The False Foundation (Dangervisit, 2016) | ||
Versions(Dangervisit, [pias], 2020) | ||
Call To Arms & Angels(Dangervisit, [pias], 2022) |
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