Qualche tempo fa, ospite al programma di RaiTre “Quante Storie”, c’era Piero Pelù. Capelli sempre lunghi, ma pettinati e accuratamente raccolti all’indietro, baffetto curatissimo e pizzetto da moschettiere. Il commento di mia madre è stato: “Che bellino che è diventato! Quando lo ascoltavi tu, mi pareva una scimmia”. In effetti, quando, da adolescente, mi trovavo in macchina con i miei e cercavo di imporre loro l’ascolto di qualche cassetta, era quasi più facile fargli mettere su gli Iron Maiden o altre cose blandamente metal, piuttosto che i Litfiba. Mio padre, in particolare, li odiava: li considerava teatralmente cafoni, banali e privi di qualsiasi classe, in particolare proprio Pelù (che lui chiamava “Peluso”). Non usava il termine “tamarro”, ma era quello il senso della sua critica.
Oggi una delle migliori trovate dell’industria musicale italiana, è stata quella di lanciare un gruppo di modelli romani, scarmigliati ad arte e palesemente sagomati sui Litfiba degli anni 90 (salvo che all’epoca, immagino, una donna in formazione sarebbe durata ben poco), in modo che i miei coetanei siano contenti di accompagnare i figli ai loro concerti per ascoltare una specie di surrogato social della musica della loro giovinezza. Tutto purché qualcuno li tenga lontani dalla trap!
È un fuoco di paglia, ovviamente. Il tamarrock ha dato e, per citare qualcuno più saggio di me, sta bene dove sta. Un quarto di secolo fa lessi, non ricordo se sul Mucchio o su Rumore: “Siamo arrivati a figli e genitori che vanno insieme ai concerti dei Litfiba. Il rock sta morendo!”, appunto. Paradosso efficace: molto meglio che i ragazzi ascoltino robe loro come trap e hyperpop, piuttosto che una rimasticatura di quello che i loro vecchi registravano su qualche cassettina frusciante. Eppure, quella musica ha significato tanto per chi è stato ragazzo negli anni Novanta e, magari, cercava qualcosa a cui approcciarsi più immediata rispetto alla musica indie, ma meno scontata del desolante pop dell’epoca. Il che basta ad attribuirle un valore - anche se quasi mai assoluto. E può risultare interessante, se non rivalutare, quantomeno ricontestualizzare quella forma di rock con alte aspirazioni e innato provincialismo. Quella che, alla fine della fiera, è stato la prima, tardivissima, forma di hard rock prettamente nostrana e, ancora, viene ancora considerato il “rock italiano” per antonomasia: ne è riprova la frequenza con cui brani di Vasco Rossi, Ligabue, Litfiba o, al limite, Negrita passano per le radio rock più mainstream, dove, al contrario, viene quasi del tutto ignorata ogni forma di musica in odore di “alternative rock”. Perché le radio commerciali vivono di fidelizzazione e non c’è nulla che le spaventi di più di un ascoltatore che cambia frequenza solo perché sta passando un brano che interrompe il flusso e non lo fa più sentire a casa. E non c’è nulla che sappia più di casa della voce roca e biascicante del Vasco nazionale o della chitarra quasi tex-mex di Ghigo Renzulli.
A lungo l’hard rock e il suo gaio fratello glam nella nostra musica non hanno preso significativamente piede: negli anni 70 sono stati assorbiti dal prog (che, per quanto a tratti anche molto venduto, non aveva ambizioni, diciamo, ecumeniche, nel senso etimologico del termine) e, persino, dal cantautorato (in Italia è mai esistito un artista più glam di Renato Zero?). Proprio alcuni cantautori maggiormente devoti alla chitarra elettrica (Edoardo Bennato e Ivan Graziani, in primis) hanno propiziato un significativo irrobustimento delle strutture nella nostra canzone, ma la personalità (nonostante evidenti influenze e, persino, plagi) espressa dal primo Vasco Rossi, in particolare con il quarto disco “Siamo solo noi”, segna uno scarto decisivo. Se è mai esistita una forma di rock, a tratti decisamente pesante e lirico, in senso pop-olare e con ambizioni da classifica, prettamente italiano (e non solo per la lingua utilizzata), nasce qui. Seguirà a ruota “Latin Lover” di Gianna Nannini, una che con il rock aveva sempre flirtato, ma mai prima in modo così compiuto e originale.
E che dire, poi, del tormentone dell’estate 1988 “Alzati la gonna” della Steve Rogers Band?! Brano condannato alla damnatio memoriae per il suo essere di un maschilismo databile senza l’uso del carbonio e, riascoltato oggi, cringe in maniera irredimibile, ma tappa irrinunciabile per questa trattazione. Proprio nello stesso anno, si consuma il passaggio, sia pur parziale, di quelli che sono gli eroi di questo articolo da un rock alternativo con influenze new wave a una musica più semplice, immediata, in cui hard rock e suggestioni latinoamericane si fondono in un ibrido efficacissimo.
Diversamente a quanto si è ritenuto per anni, i Litfiba erano “tamarrock” già con “3”, capitolo finale della trilogia del potere. E sarebbero definitivamente esplosi un paio di anni dopo con “El Diablo”- 1990, nuova musica per un nuovo decennio, il rock italiano che spopolava in patria- e non solo per il tempo di un’estate.
Inizia l’epoca d’oro del genere, con Vasco che torna sugli scudi con “Gli spari sopra”, il suo album più pesante e anche l’ultimo a essere degno di menzione, e l’emergere di artisti come Luciano Ligabue, i Timoria e i Negrita. Tutti artigiani del rock più o meno cantautorale, con in comune un’origine provinciale rivendicata con orgoglio, una poetica relativamente semplice (ma, assolutamente, almeno ai tempi, non banale) e, soprattutto, una passione per una musica diretta e viscerale, suonata pensando prevalentemente a chi si trova sotto al palco, fosse anche il pubblico di una sagra di paese (nelle quali, non a caso, le cover band di questi artisti sono tutt’oggi un classico intramontabile). Il tutto in contrapposizione al più intellettuale e, a volte, ombelicale (per usare una sola definizione: “universitario”) alt-rock- anche se parliamo di gente che frequentava gli stessi festival, godeva spesso dello stesso tipo di considerazione e, nei negozi di dischi, trovavi negli stessi scaffali. E chi più chi meno, incideranno tutti sia nell’immaginario musicale che nelle classifiche di vendita.
All’epoca, ovviamente, non si parlava di “tamarrock”. Si tratta di una definizione efficace, ma relativamente recente in cui riecheggia lo storico “kraut-rock”. Ma se quel termine riferito alla kosmische musik tedesca era frutto dello sciovinismo ignorante della stampa inglese, “tamarrock” è felicemente autoironico. Difficile non pensare che Piero Pelù, con il gilet aperto sul torso villoso pieno di monili, le iconiche basette a punta e le movenze da primate sotto Lsd, fosse davvero tamarro. Lo stesso si può dire dei primi Negrita che, nel video di “Cambio”, si agitavano nudi davanti alla telecamera. E, col senno di poi, il tipico tamarro degli anni 80 è un membro a caso della Steve Rogers Band. Soprattutto, la loro musica era (è) tamarra perché sinceramente popolare e per nulla affettata. Forse fin troppo, tenuto conto che, oggi, i fan di Vasco e Ligabue paiono più tifoserie di una squadra di calcio, che si affollano adoranti per ammirare gente, che, obiettivamente, non ha più nulla da dire da tanto tempo.
Certo, il rischio di questo genere (come d’altronde, di tutto quello che centra perfettamente lo zeitgeist di un’epoca) è quello di invecchiare malissimo - cosa che in buona parte si è verificata. La fine degli anni 90, poi, segnerà una china discendente per il tamarrock , con lo split di Litfiba e Timoria (dopo prove tra l’orrido e il deludente), con l’emergere di una nuova scena alternativa “di successo” (gente come i Subsonica e i Bluvertigo faceva apparire quantomeno polverosi i gruppi di questa trattazione) e il consolidarsi di quella storica (con gli Afterhours che diventano pian piano un’istituzione a colpi di dischi fenomenali e i Csi che, addirittura, raggiungono il vertice delle classifiche di vendita un attimo prima di sciogliersi).
Ma, soprattutto, chi da ragazzo ascoltava quel tipo di rock, crescendo, aveva due strade: passare ad altro, oppure sclerotizzarsi in una nostalgia fine a se stessa. Il che non vuole essere sminuente: per i primi, si è trattato comunque di una tappa importante e decisiva nella formazione del proprio gusto. In quanto ai secondi, vorrei vedere quali artisti in futuro macineranno i duraturi numeri di un Liga o di un “Komandante”.
La definizione di “tamarrock” non può che essere porosa: se, soprattutto negli anni 90, era evidente a sinistra una certa contiguità con il rock alternativo, a destra non sono mai mancati artisti prettamente pop che non disdegnavano arrangiamenti più ruvidi (vengono in mente Biagio Antonacci, Gianluca Grignani, ma spesso anche Eros Ramazzotti). Ma, se non altro, in quel decennio ci sono quelle tre/quattro figure chiave che fungono da infallibile metro di paragone. Guardando al nuovo millennio, la faccenda si fa più difficile. Sicuramente non sono mancati artisti fautori di un rock latino, semplice e diretto, tanto nella musica quanto nei testi, ma nessuno particolarmente rilevante. In fondo, parliamo di musica popolare, per cui il successo, sia pure relativo, ha un peso decisivo per stabilire cosa sia importante e cosa no. Inoltre, finiti gli anni 90, il genere si è in qualche modo parcellizzato: all’inizio di questo millennio, la chitarra distorta (per quanto levigata dalla produzione) è diventata un elemento quasi irrinunciabile in ambito pop (ne sono un buon esempio i Negramaro, ma anche i Modà, ed echi di tamarrock si trovano, di recente, anche nei melensi paciughi di Ultimo) e un peso di quel tipo di rock si riscontra in gruppi indie più diretti, come i Ministri. Per quanto riguarda i Måneskin, la mia impressione è che il rock dei vari Litfiba e, soprattutto, Negrita, per quanto somigliante, sia stato da loro più introiettato che una vera influenza. Potrà sembrare snob, ma i quattro romani non mi hanno mai dato l’impressione di essere gente che ama altra musica che non sia la loro - che è, probabilmente, anche l’unica che ascoltano.
In ogni caso, per “tamarrock” qui si intende un rock robusto, ma quasi mai particolarmente pesante, di impatto immediato con strutture semplici e forti componenti melodiche e liriche. Incalzante, ma mai veloce, che predilige l’intensità anche (ma, direi, soprattutto) nei brani più lenti. Ma, come fu per il rock’n’roll delle origini, a definire il genere è, in particolare, lo scarto. Il riproporre modelli anglosassoni con una sensibilità diversa e, a differenza, per esempio, del beat italiano, in modo non pedissequo. È palese che i Negrita adorino i Rolling Stones, che i chitarristi del primo Vasco ascoltassero a palla hard rock inglese e che Ligabue abbia sognato di diventare lo Springsteen della via Emilia. Eppure tutti loro rivendicavano anche un forte bagaglio di italianità, non solo per il contesto, ma anche per le influenze (per Vasco, Battisti e Jannacci; per Ligabue, Bertoli ed Endrigo, ed è difficile non vedere su Piero Pelù l’ombra di Edoardo Bennato). Tradotto: era gente che voleva fare rock “italiano” e non solo “in italiano”.
Per quanto concerne i testi, prevalgono scorci di vita di paese, ritratti di loser colti nel disperato tentativo di darsi tono o in rari momenti di spietata lucidità, fascinazioni cinematografiche e fumettistiche (gli immancabili indiani), ribellismo adolescenziale a volte decisamente poco a fuoco (anche se non bisogna dimenticare che era gente che, per lo più, rivendicava con orgoglio uno schieramento a sinistra e che la mia generazione ha scoperto l’impegno anche grazie a brani come “Santiago” e “Maudit”), ma che va contestualizzato in un’epoca diversa dalla nostra, in cui non si parlava di qualunquismo e i social non avevano ancora appiattito e avvelenato il discorso pubblico. Certo, crescendo, ci si è distaccati da certe ingenuità con un po’ di disprezzo, salvo poi tornare a ripensarle con affetto quando i nostri figli hanno raggiunto l’età che avevamo noi all’epoca.
In ogni caso, ora passeremo in rassegna 10 dischi (per altro, quasi tutti famosissimi) che hanno segnato l’arco storico, durato una quindicina d’anni, del tamarrock. Fermo restando che, ovviamente, si tratta di una definizione scherzosa che non può, né vuole, essere esaustiva, soprattutto per dischi che sono classici della musica italiana tout court. L’intenzione di questa trattazione è ripercorrere la nascita di un tipo di rock italiano per la prima volta davvero autoctono e di successo, coevo in buona parte con lo sviluppo della passione per la musica di chi scrive.
Vasco Rossi - Siamo solo noi (1981)
Fa specie pensare che, oggi, Vasco Rossi sia considerato il profeta dell’italiano medio. Soprattutto perché, a inizio carriera, l’uomo di Zocca cantava gli ultimi da ultimo - in questo, più vicino a uno spiantato alticcio come Piero Ciampi, piuttosto che a un alto-borghese che amava le prostitute come Fabrizio De André. Nel 2024 il testo di “Siamo solo noi” viene postato sui social dal Sig. Qualunque sotto le foto delle proprie vacanze al mare. Ma quel brano parla di alcolisti e drogati, in un periodo storico in cui nessuno (politica, religione o culto della tranquillità borghese che fosse) offriva un’alternativa valida all’autodistruzione. Gente che il Sig. Qualunque di cui sopra oggi disprezzerebbe, fosse anche il Vasco dell’epoca che, in quella meravigliosa copertina originale, appare con il volto distorto da un ghigno inquietante, palesemente sotto l’effetto di qualche additivo. Raggiunto il successo, quella foto è stata sostituita da una anonima con microfono e occhiali scuri di ordinanza. È quel secondo Vasco a essere stato conosciuto dai più, ma, all’inizio, era un’altra cosa.
“Siamo solo noi” resta uno dei vertici della canzone italiana e il nostro vero primo inno rock. Le chitarre di Solieri e Riva hanno un crescendo e una maestosità degne di un Brian May e sfido a cercare nella storia della nostra musica un giro di basso più famoso e iconico di quello di “Gallo” Golinelli che apre il brano.
Ma tutto il disco segna il definitivo approdo di Vasco Rossi sui lidi dell’hard rock, solo costeggiati in precedenza. Dal riff rubato ai Judas Priest in “Dimentichiamoci questa città” alle liberatorie esplosioni elettriche che infiammano “Brava” e “Incredibile romantica”, fino al riff robotico-demenziale di “Ieri ho sgozzato mio figlio”, a cui manca davvero pochissimo per raggiungere quota Scorpions e che fa sfoggio di un testo che porta al sublime il nonsense degli Skiantos.
Il periodo più “hard and heavy” di Vasco (che non ha mai accantonato del tutto le sonorità ruvide ed energiche e si è sempre definito con orgoglio un “rocker”) continuerà con il successivo “Vado al massimo”, prima della svolta pop dell’ancora sublime “Bollicine”.
Dopo, sarà comunque ottima maniera, almeno fino al potente “Gli spari sopra”, uscito, non a caso, nel periodo di maggior successo del rock italiano dopo l’exploit di “El Diablo”.
Il resto meglio dimenticarlo.
Gianna Nannini – Latin Lover (1982)
Non voglio entrare in un ginepraio, ma non credo sia un caso che l’unica eroina di questa trattazione sia quella che ha sempre fatto sfoggio di un look androgino, di energia testosteronica (ahi!) e che, all’epoca, veniva considerata decisamente “maschia” (erano ancora tempi abbastanza schematici circa quello che poteva essere considerato “maschile” e “femminile”). Le donne, si sa, tendono a essere meno tamarre degli uomini.
La Gianna resta la rocker italiana per antonomasia e il suo “California” avrebbe potuto tranquillamente aprire questa rassegna, non fosse che si tratta di un disco sì bello, ma decisamente derivativo. “Latin Lover”, oltre a essere più originale, ha senza dubbio segnato, in modo meno irruente di Vasco, ma con pari grandeur e con un respiro più internazionale, il solco del rock italiano, ottenendo anche riconoscimento nei paesi di lingua tedesca. I suoi urli rochi nell’opener “Prima donna” sono un biglietto da visita indicativo: qui non c’è più alcun senso inferiorità rispetto ai modelli anglosassoni, ci si permette divagazioni kraut (“Wagon-Lit”) e psichedeliche (“Volo 5/4”), ma il cuore del disco sono le sferzate di energia nella meravigliosa title track e in brano come “Amore Amore”- anche se non si smette di deflagrare fuoco nemmeno in ballate come la notissima “Ragazzo dell’Europa”.
Con “Latin Lover” il rock italiano non ha più avuto bisogno di inventarsi l’America, ma ha imparato a star con sé e a bastarsi.
Litfiba – Litfiba 3 (1988)
O “Tre” o come vogliamo chiamarlo. Resta un capolavoro. Non l’ultimo dei Litfiba, come, con un pelo di manicheismo, molti (me compreso) ritenevano negli anni 90. Non è nemmeno vero che vi sia questa cesura tra la fine della “alternativa” trilogia del potere e l’inizio della “commerciale” quadrilogia degli elementi. Alla fine, il terzo album è molto diverso dal precedente, abbacinante, “17 Re” - ma già questo aveva poco in comune con le sonorità tardo wave di “Desaparecido”.
È ancora la formazione storica Aiazzi-De Palma-Maroccolo-Pelù-Renzulli e nella foto del disco il cantante fa per la prima volta sfoggio del look da indiano toscano che lo caratterizzerà per il resto della carriera. È l’opera più politica dei Litfiba, a partire dalla barricadera “Santiago”, feroce accusa alla connivenza di “San” Wojtyła con il regime fascista di Pinochet, sulla base di un devastante rock latino-americano, e nelle successive “Lousiana”, “Paname” e “Ci sei solo tu”, vero campionario di prese di posizione sulle ingiustizie di questa società, dalla pena di morte alla ghettizzazione sociale fino al trattamento atroce spesso riservato alla malattia mentale.
È un disco diviso in due, tra pezzi sperimentali sul filo delle opere precedente (“Cuore di vetro”, “Peste”, “Bambino”, la già citata “Ci sei solo tu”) e brani decisamente più lineari e immediati, in cui la chitarra di Renzulli comincia a far da padrona senza essere più sovrastata dal muro delle tastiere. I testi si semplificano diventano, come detto, esplicitamente politici o inni alla libertà (“Corri”) e all’amicizia (“Amigo”) e Pero Pelù diventa definitivamente il frontman sopra ogni riga che ancora oggi conosciamo.
Ma, soprattutto, è il disco di “Tex”, che è modello e inno del tamarrock. Chiunque nella mia generazione si è trovato almeno una volta nella vita in bicicletta o su un motorino a canticchiare “sulla strada ci sono solo io/ circondato dal deserto attorno a me” o a darsi la carica pensando ”non voglio più amici/ ma voglio solo nemici!”. Sulla base di brani così, di un’efficacia e una comunicatività pazzesca, da lì a poco i Litfiba costruiranno il loro successo.
Steve Rogers Band – Alzati la gonna (1988)
Gli anni 80 sono già stati abbondantemente rivalutati e non è mia intenzione aggiungere alla lista dei recuperi necessari anche la Steve Rogers Band. Che, alla fine della fiera, senza la genialità di Vasco Rossi, era solo un onestissimo e solido gruppo rock, figlio del suo tempo. Eppure, il successo di “Alzati la gonna” nel 1988 ha avuto un peso, quello sì, non sottovalutabile nell’imporsi del rock italiano nell’immaginario popolare. Successo che dice molto anche del cambio sociale del nostro paese in quegli anni. Oggi il brano sarebbe inaccettabile per il suo imbarazzante machismo da boomer, ma, nell’Italia formalmente ancora democristiana dell’epoca (ma, di fatto, craxiana e già pronta per diventare berlusconiana), lo era per la sua volgarità ruspante ed esplicita. Non parlava per doppi sensi (quelli già abbondantemente sdoganati), ma invitava una ragazza in età scolare ad alzarsi la gonna per lasciarsi fare in macchina, con grande scandalo delle mamme quando il brano passava per le radio sotto gli ombrelloni. Ovviamente, il successo del singolo sarebbe stato impensabile senza lo strapotere delle televisioni e radio private.
Il Belpaese era cambiato e si scopriva libero di essere maleducato. E la maleducazione veniva accompagnata dai riff cromati di Massimo Riva e Maurizio Solieri, due che non avrebbero sfigurato in contesti più blasonati.
Tutto il disco è un ascolto piacevole, anche se datato. Alla fine non così ridicolo come mi faceva temere la foto di copertina. Ma, d’altronde, stiamo parlando di musica tamarra e la Steve Rogers Band può orgogliosamente rivendicare il ruolo di alfiere in materia.
Litfiba – El Diablo (1990)
Quasi mezzo milione di copie vendute nel 1990, in Italia, sono numeri importanti. “El Diablo” fu il nostro “Nevermind”, e lo fu con un anno di anticipo.
I Litfiba arrivano all’appuntamento non proprio da sconosciuti. Lo splendido singolo “Cangaceiro” e il pessimo live “Pirata” avevano ottenuto buoni riscontri. A quel punto la storica sezione ritmica (Gianni Maroccolo e Ringo De Palma) lascia per unirsi ai CCCP in procinto di realizzare il commiato "Epica Etica Etnica Pathos" e il tastierista Antonio Aiazzi si mette da parte, pur continuando a collaborare con il gruppo quasi da sessionman. Restano Pelù e Renzulli, unici titolari del progetto.
E se c’erano dubbi su chi fosse responsabile dell’anima più selvaggia e istintiva dei loro dischi precedenti, vengono fugati immediatamente dopo lo storico “buaaaarg!” che introduce “El Diablo”. Parte immediatamente un giocoso sabba in cui la chitarra carica di suggestioni western (spaghetti, ça va sans dire) viene accompagnata dagli altri strumenti, tra cui emergono le percussioni del compianto Candelo Cabezas, mentre Pelù declama “Giro di notte con le anime perse/ sì, della famiglia io sono il ribelle” e altre perle da satanismo liceale. Perfettamente efficaci, però. Con il senno di poi, si tratta di un ribellismo innocuo e ingenuo, ma migliaia di ragazzini in Italia impazziscono e con piena ragione: “El Diablo” è un brano perfetto che si è guadagnato l’immortalità.
Pelù arricchisce il campionario di urli e intercalari e spinge forte sulla teatralità, diventando immediatamente uno dei cantanti più iconici della musica italiana. In realtà nel disco, funziona tutto: i brani più divertiti come “Proibito” e il demenziale “Gioconda” (entrambi singoli di successo), quelli impegnati (“Woda Woda” e “Ragazzo”) e intimisti (“Il volo”).
Fu facile per anni parlare di “tradimento”, ma se nel pop-rock italiano di successo “El Diablo” non ha l’importanza di una “Voce del padrone”, poco ci manca.
Poco più di mezz’ora che ha segnato un prima e un dopo nella musica italiana.
Ligabue - Lambrusco coltelli rose & pop corn (1991)
A forza di prove improntate su una ricercata mediocrità buona per un airplay generalista con poche pretese, Ligabue ha quasi fatto dimenticare a tutti che artista di razza fosse a inizio carriera (anche se, nel suo caso, si parla di una lunga gavetta che l’ha portato all’esordio solo a 30 anni e al successo 5 anni dopo), con due dischi meravigliosi e un dolente capolavoro come “Sopravvissuti e sopravviventi”.
“Lambrusco coltelli rose & pop corn”, opus n.2, non è quindi il suo disco migliore, ma è quello più rock, quello degli inni da stadio - anche se, all’epoca, suonava ancora nei locali. La sua voce roca, che adesso è considerata un classico, ma all’epoca infastidiva non pochi, tratteggia un meraviglioso affresco della provincia emiliana, descritta senza accondiscendenza (fin dal primo brano “Salviamoci la pelle”, se ne parla come un posto da cui scappare più che da esaltare) e con un piglio palesemente springsteeniano.
E, se il sogno di ogni fan del Boss è quello di scrivere la propria “Born To Run”, il Liga c’è riuscito con la celeberrima “Urlando contro il cielo”. Ma dal disco si possono pescare altre perle come le anthemiche “Libera nos a malo” e “Anime in Plexiglass”, ballate sentite come “Con queste facce qui” e “Sarà un bel souvenir” e divagazioni di (im)pura americana come “Camera con vista sul deserto” e “Regalami il tuo sogno”.
Cantautore, rocker e autore per altri (tra cui Rats e Timoria), Ligabue è stato una figura centrale di quella scena nei primi anni 90 a cavallo tra la rock da classifica e la musica alternativa. Raggiunto il successo con il non imprescindibile “Buon compleanno Elvis”, inizierà un’altra storia che, francamente, non mi interessava all’epoca e non mi interessa nemmeno oggi.
Rats – Indiani Padani (1992)
Parliamo di un gruppo che, dopo aver registrato un capolavoro della new wave italiana, ha raggiunto il successo negli anni 90, incidendo nella storia del tamarrock. E non sono i Litfiba.
I modenesi Rats esordiscono nel 1981 (sotto l’ala protettrice di Red Ronnie, che, prima di perdersi dietro le scie chimiche, era un agitatore culturale di vaglia) con “C’est Disco”, gioiello di musica sghemba e nevrotica. Ma, sì sa, la nostra wave era effimera per costituzione e, così, il gruppo non riesce a far pubblicare un secondo album già registrato. Successivamente la cantante Claudia “Lloyd” Baracchi e gli altri membri abbandonano il progetto, lasciano solo il chitarrista Ulderico “Wilko” Zanni, il quale non si dà per vinto, si improvvisa cantante e comincia a virare verso sonorità più rock con un paio di lavori di transizioni e, soprattutto, tanti concerti.
I Rats riescono così a beccare perfettamente la coincidenza con l’esplosione del tamarrock e, nel 1992, danno alle stampe la loro opera più venduta (50.000 copie), “Indiani Padani”, con i tre musicisti in copertina che paiono emuli di Piero Pelù- ma più glabri.
Il disco è un concentrato di topoi: rock ruspante, vita di provincia, vago ribellismo. Non personale e innovativo come quello dei Litfiba e nemmeno con una scrittura di livello del coevo Ligabue (che firma l’iniziale “Fuori tempo”). Però, tutte le ragazze della mia generazione hanno cantato almeno una volta “Chiara” in gita scolastica e davvero non si può dire nulla sull’onestà e sull’attitudine del trio, che tira fuori 48 minuti di piacevolissima musica proletaria che ha, comunque, segnato un’epoca, sia pure in tono minore rispetto ad altri. Ne è riprova l’affetto sempre dimostrato dai fan del gruppo, che ha spinto i tre a una reunion nel 2007 che dura tutt’oggi con ottimi riscontri.
Se vogliamo il loro è l’unico disco tamarrock in purezza di questa trattazione.
Timoria - Viaggio senza vento (1993)
È una pietra miliare del rock italiano. Disco unico e irripetibile, anche da parte dei suoi stessi autori (che, comunque, ci sono arrivati vicini quando nessuno se l’aspettava più con “El Topo Gran Hotel”). Storicamente, fu un tentativo di un gruppo a un passo dal venire scaricato dalla propria etichetta (con qualche ragione, tenuto conto i tre dischi precedenti non erano esattamente imprescindibili) di realizzare il proprio canto del cigno. Un disco doppio ispirato concettualmente al prog anni 70, nientemeno!
Tematicamente, è una risposta, se vogliamo a tratti un po’ ingenua ma indubbiamente sentita, al nichilismo di Vasco in “Siamo solo noi”. La nostra generazione non avrà vento alle spalle (politico, culturale o religioso che sia), ma il singolo, con un proprio percorso di crescita, può trovare un senso per andare avanti.
Ma quello che conta sono i classici inanellati in questi 70 minuti di musica: “Senza vento”, “Sangue impazzito, “Il padrone dei cani”, “Piove”, “Come serpenti in amore”: tutti gioielli di base rock, ma impreziositi da arrangiamenti ambiziosi- evitando, però, ogni forma di osticità. E che dire della splendida voce di Francesco Renga, che meglio avrebbe fatto a continuare a interpretare i brani di Omar Pedrini, piuttosto che buttarsi in una carriera pop banalissima che l’ha portato a un tour con Nek (Sant’Iddio!)?!
“Viaggio senza vento” riuscì a coniugare qualità e vendite, lanciando finalmente la carriera della band bresciana, che terrà botta anche dopo l’abbandono di un cantante così caratterizzante e carismatico.
Dopo 30 anni, resta un capolavoro impossibile da sottovalutare.
Negrita - Negrita (1994)
Pau e compari a me hanno sempre fatto simpatia. Non sono esattamente un loro fan, ma quando passa un loro brano per radio, non cambio mai frequenza, perché risulta, alla peggio, piacevole e ben scritto, alla meglio è una bombetta di rock danzereccio.
E il successo dei Negrita non è certo arrivato di colpo (mi vengono in mente loro brani di successo, ma mai un game changer, tipo “El Diablo” o “Certe notti”), ma è stato costruito un disco dopo l’altro, in cui non sono mai mancati quei due o tre singoli che funzionano alla grande - certo, la partecipazione alle colonne sonore dei film di Aldo, Giovanni e Giacomo sono state un discreto volano.
Fin dall’esordio, con il divertente video di “Cambio” che passava sulla compianta Videomusic, hanno messo le carte in tavola: dell’originalità non ce ne frega nulla (e, infatti, questo disco fu fatto a pezzi dalla critica, che pareva, all’epoca, avere come unico argomento “questi copiano i Litfiba” per ogni gruppo il cui cantante si esibiva a torso nudo), noi puntiamo sull’impatto. E l’impatto erano soprattutto le chitarre orgasmicamente rock di Drigo e Mac, figlie bastarde di Keith Richards, concepite con qualche intraprendente e disinibita fan toscana.
Ovvio che, quantomeno per osmosi, l’influenza degli altri gruppi di rock italiano si faceva sentire (e non solo: a tratti paiono i Black Crowes sotto anfetamina) e dai testi emerge spesso una confortante ingenuità (brani come “Militare“ segnano decisamente l’età del disco), ma i Negrita avevano un surplus di grinta che li faceva emergere anche in un ambito sovraffollato.
“Negrita” passa veloce come una scarica elettrica su per il sedere. Ed è il miglior complimento per un disco che ha come prima ambizione quello di farvelo muovere.
Clan Destino – Clan Destino (1994)
Un peccato, ma anche indicativo, il fatto che i Clan Destino non abbiano mai raggiunto il successo e che la loro fama sia legata esclusivamente ai primi tre dischi di Ligabue, dal quale, per altro, sono stati negli ultimi anni sequestrati per una banale operazione-nostalgia ai vari Campovolo.
Peccato perché i loro due album storici (usciti in un battito di ciglia tra il 1994 e il 1995) erano ottimi e perché Max Cottafavi era uno dei migliori chitarristi italiani della sua generazione.
Comunque, rotto il sodalizio con il Liga dopo lo splendido (ma poco venduto) “Sopravvissuti e sopravviventi”, i quattro Clan Destino si organizzano e registrano in breve l’omonimo esordio, in cui vengono messe da parte le istanze cantautorali e viene dato sfogo alla passione per l’hard rock e il blues. Il disco, a tratti, è davvero pesante, ma non viene mai superato il confine che li porterebbe verso il grunge (come nel caso di certi gruppi nostrani contemporanei, tipo i Karma o i Movida) e i piedi vengono tenuti saldi nel fango della campagna emiliana, tra storie di amori andati a male, amicizia virile e degrado.
“Clan Destino” è assolutamente un piccolo classico, ma manca evidentemente un singolo più efficace della media, per quanto i video di “Fratello” e della ballata “Lui non ci sarà” godono di numerosi passaggi.
Ci riproveranno l’anno successivo con “Cuore-Stomaco-Cervello”, ammorbidendo la proposta, ma senza significativi riscontri. Dopo, ognun per sé, fino alla reunion di prassi e alla morte del bassista Luciano Ghezzi.
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