Si sta come
d'autunno
sugli alberi
le foglie
All'uscita di "Blues Funeral", ottavo album a proprio nome,
Mark Lanegan era sopravvissuto a una stagione che nel Pacific North-West si era già portata via Andy Wood,
Kurt Cobain,
Mike Starr, Layne Stanley ed
Elliott Smith. Col desiderio di guardare avanti e di evitare un vicolo cieco, anche sul piano artistico, Lanegan aveva imparato a muoversi sul crinale tra morte e resurrezione, fissando entrambe negli occhi e raccontandone i tratti più ferali e incerti come un altro cantautore "maledetto" della musica americana,
Johnny Cash, bruciato dalle dipendenze e dalla passione per il folk e per June Carter. Lanegan e Cash non solo hanno stregato gli ascoltatori con le loro voci baritonali, le interpretazioni viscerali e i testi immaginifici - più volte Lanegan ne tributerà la memoria - ma hanno chiesto di essere guardati nei panni di Caino o dei ladroni crocefissi con Gesù. Dalla parte dei peccatori, dei deboli, dei reietti.
A metà anni 80, nello stato di Washington, Lanegan inizia il proprio percorso musicale con gli
Screaming Trees il cui successo esplode con la scena
grunge di Seattle negli anni 90. La
greater area della città, che si allarga a cittadine come Ellensburg e Aberdeen, è animata dai concerti degli esponenti di un movimento che esplora il lato più oscuro e imperfetto del rock, come
Melvins,
Soundgarden,
Green River,
Mudhoney e Mother Love Bone - cui fanno seguito
Nirvana,
Pearl Jam e
Alice in Chains - in un luogo dove si cresce a birra, Wailers,
Sonics e
Jimi Hendrix.
Nascono anche alcuni supergruppi, come i Mad Season, di cui il
songwriter e cantante fa parte insieme al batterista della sua band, Barrett Martin. In questi anni Lanegan attraversa il fuoco: diventa dipendente da sostanze stupefacenti e alcol, perde affetti - "Kurt was like a little brother, Layne was like a twin" - e si disintossica in California grazie all'aiuto di
Courtney Love.
Il romanzo della sua vita si compone di tutte queste tappe esistenziali e resistenziali, immortalate ogni volta da un album: i dischi a suo nome (da "The Winding Sheet", 1990, e "Whiskey For The Holy Ghost", 1994), le collaborazioni (con
Isobel Campbell prima di tutto,
Twilight Singers,
Soulsavers,
Duke Garwood e, tra le ultime,
Not Waving con lo pseudonimo di Dark Mark) e le band di cui fa parte (
Queens Of The Stone Age e
Gutter Twins).
Dopo aver realizzato "
Hawk" (V2, 2010) con la cantante e violoncellista dei
Belle & Sebastian - un ipnotico
songwriting folk-blues che affonda le mani nella tradizione americana - Lanegan torna alle composizioni soliste, coadiuvato da un gruppo di amici e collaboratori -
Jack Irons alla batteria e
Alain Johannes, ancora alla produzione dopo "
Bubblegum" (Beggars Banquet, 2004), al resto degli strumenti - per chiudere un album di svolta della sua carriera. Oltre al duo che lo accompagna nelle registrazioni, si aggiungono altre partecipazioni:
Greg Dulli (
Afghan Whigs, Twilight Singers, Gutter Twins),
Josh Homme (
Kyuss, Queens Of The Stone Age),
Duke Garwood, David Catching (
Eagles of Death Metal, Mondo Generator, Queens Of The Stone Age), David Rosser (Twilight Singers, Afghan Whigs), Martin LeNoble (
Jane's Addiction,
Porno For Pyros,
Cult), Aldo Struyf, Shelley Brien e Chris Goss.
"Blues Funeral" è un lavoro compatto e coerente, allo stesso tempo composto da brani ben caratterizzati e diversificati nel
sound e negli stili che incrociano. All'uscita l'album spiazza gli ascoltatori di Lanegan - la stessa
recensione pubblicata allora da OndaRock riflette questo disorientamento - perché il cantautore di Ellensburg ha commistionato la sua tipica miscela di blues, folk, rock e
psichedelia ("The Gravedigger's Song", "Bleeding Muddy Water", "Riot In My House") con i suoni elettronici della
new wave e soluzioni di arrangiamento pop-rock, che si potevano collocare dalle parti dei
New Order ("Gray Goes Black"). La miscela di questi stili è il corpo sonoro che permette alla voce del
crooner di dispiegare visioni, squarci di memorie e momenti di profonda verità che lo mettono a nudo con toni meno epici di quelli precedenti.
Gli esiti più personali di queste ibridazioni li troviamo nella parte centrale dell'album a partire dalla
electro ballad in stile
americana "St. Louis Elegy", un fosco affresco di resurrezione tra Bibbia, Edgar Allan Poe e William Burroughs sostenuta dai cori di
Dulli:
I think I see forever
Across on the other side
I look at the sky
I see a nightbird as it flies
Over the old bent cherry trees
Shivering in a row
Down here the winter
Will cut you quick
These tears are liquor
Oh yeah
And I've drunk myself sick
oppure nell'incedere rock delle pennate di "Ode To Sad Disco" immerse nei
beat e nei
keys elettronici, in una preghiera che si fa danza e catarsi:
Gloria
I get down on my knees
Further from my own
Under a cliff
Darkness denied
Here I have seen the light
Here I have seen the light
Here I have seen the light
Here I have seen the light
o ancora nella
smooth ballad dai toni
black di "Phantasmagoria Blues":
I thought I'd rule like Charlemagne
But I've become corrupt
Now I crawl the promenade
To fill my empty cup
And you're free
You're free again
One more time
Now if you found a razor blade
And took it to your wrist
Then I'd be here in my electric chair
Because of this
nella psichedelia dance-rock di "Quiver Syndrome" che ammicca ai
Dandy Warhols:
Will the lord hold me down 'cause I'm wicked?
Will the lord hold me down, to my shame?
Will your love it get into me Jesus?
Now I heard you calling out my name
e nell'irresistibile electro-rock di "Harborview Hospital", con un
groove che rompe la drammaticità del testo e offre consolazione quantomeno ai corpi:
The devil's ascended
Upon some crystal wings
In the citadel lightning
Splits a cloud of butterflies and fiends
And with a vacant stare I'll leave a flower there
They're riding, they're riding
A hellhound down the hill
They're sinking, they're sinking
Into the ocean, beautiful and still
And yet it's hard to leave in wealth or poverty
Il trittico finale dell'album torna su territori più familiari da cui emergono, con una tessitura più asciutta, l'ombra dei
Beatles ("Leviathan") e di
Nick Cave ("Deep Black Vanishing Train") con uno scarno folk-blues
laneganiano che prelude alle collaborazioni con Garwood.
L'ultima traccia è ancora un colpo da maestro con cui il cantautore ci riesce a spiazzare ("Tiny Grain Of Truth"), tra fischi di distorsioni e
kick-and-snare elettronici, lasciando la porta aperta alle sperimentazioni che arriveranno in album posteriori, seppur meno ispirati ("
Gargoyle", 2017, e "
Somebody's Knocking", 2019).
Così "Blues Funeral" è l'album che ci ha sconvolti ma che non abbiamo mai smesso di ascoltare. Si è imposto negli anni come l'opera sì più inaspettata del
crooner di Ellensburg, ma anche la più matura e consapevole dei propri mezzi, in grado di stupire gli ascoltatori e lo stesso Lanegan, autore e interprete mai pago della meta raggiunta, mai persuaso da alcuna certezza e sempre desideroso di canzoni che lo potessero collocare "altrove", fuori da generi prestabiliti, dalle emozioni più dolorose e dalla depressione, ma dentro le proprie radici e i ricordi, anche i più duri, che non ha mai smesso di affrontare.
Siamo certi che avrebbe avuto ancora tanto da dire, che ci avrebbe ancora sorpreso e che sarà una delle voci che ci mancheranno di più.
27/02/2022