Napoletano di nascita, ma beneventano d’adozione, Mario Giammetti si è imposto, durante gli anni, come uno dei massimi esperti dell’universo Genesis, formazioni tra le più amate nell’ambito del progressive-rock. Alla band inglese, oltre alla pubblicazione di una quindicina di libri, Giammetti ha dedicato, a partire dal 1991, la fanzine Dusk, che continua a dirigere con grande passione e professionalità. Lo abbiamo contattato per saperne di più sulla sua esperienza di appassionato, di giornalista e sul suo amore smisurato per la band responsabile di alcuni degli album più indimenticabili di un'epoca leggendaria della musica che tanto amiamo.
Caro Mario, sei tra i massimi esperti mondiali dei Genesis, una delle formazioni prog più amate in assoluto. Come nacque questa tua passione per la band inglese?
In realtà li ho veramente conosciuti piuttosto tardi, nel 1978. Era il periodo in cui Steve Hackett li aveva appena lasciati e il trio superstite pubblicò "And Then There Were Three". So che per molti, almeno qui in Italia, potrà sembrare blasfemo, ma quel disco mi fece letteralmente sobbalzare dalla sedia. Amavo la musica fin da quando ero piccolo, ma in quell’album mi ritrovai completamente a livello musicale, mi catturò incondizionatamente. Prima di allora, avevo avuto modo di ascoltare nel 1973, tramite un juke-box di Silvi Marina, in Abruzzo, la versione editata di "Watcher Of The Skies" grazie alle 100 lire investite da un ragazzo di Alessandria più grande di me. Mi aveva colpito l’atmosfera, ma non ebbi modo di approfondire. Da ragazzino, i soldi in tasca erano sempre pochi e dunque bisognava arrangiarsi.Hai scritto una quindicina di libri dedicati ai Genesis. Qual è stato il primo? Qual è quello a cui sei più legato? E quello che ti è costato più fatica?
Il primo è stato "Genesis Story", del 1988. Erano ormai una decina di anni che seguivo il gruppo. Mi ero procurato tutte le discografie solistiche e avevo ovviamente la splendida biografia di Armando Gallo. Pensavo però che i Genesis meritassero anche una guida critica e, sebbene non avessi alcuna esperienza, buttai giù un primo manoscritto che spedii alle due case editrici principali dell’epoca, se non le uniche. Fu mio padre ad avvisarmi che aveva telefonato qualcuno dalla Gammalibri/Kaos. Richiamai il giorno dopo e, dopo un breve confronto telefonico, mi misi sotto e riscrissi il tutto negli ultimi mesi del 1987. Partii alla volta di Milano nel mese di aprile del 1988 per correggere le bozze insieme al titolare della casa editrice, Domenico. E il mio libro fu pubblicato nel mese di giugno dello stesso anno.
Sono legato a tutti i miei libri perché ciascuno racconta una storia. Quello su Peter Gabriel, per esempio ("Il trasformista", Arcana), è uscito solo nel 1999 perché la nascita di mio figlio nel 1995 provocò un consistente ritardo (cosa per me del tutto inusuale, essendo uno che, invece, rispetta sempre le scadenze).
La collana ‘"Genesis Files", da un’idea del compianto Piero Mantero, il boss di Edizioni Segno, è invece un’iniziativa unica in tutto il mondo: un volume per ciascun membro dei Genesis contrassegnato da una lettera sul bordo, di modo che, una volta messi tutti e sette in fila in libreria, si compone il logo della band usato per l’album "Duke". Portarla a termine, anche se ci sono voluti 11 anni (dal 2005 al 2016), è motivo di grande orgoglio.
In termini qualitativi, penso però che i migliori siano "Musical Box – Le canzoni dei Genesis dalla A alla Z" (Arcana, 2010) e "Genesis – Gli anni prog" (Giunti, 2013). Nel primo racconto tutti i brani della storia del gruppo in ordine alfabetico, con grande dettaglio storico, critico, aneddotico e statistico, per un totale di oltre 500 pagine. Nel secondo, invece, mi limito al periodo più amato in Italia, quello con Peter Gabriel cantante. La caratteristica di questo volume (oltre alla grafica splendida, come da tradizione dell’editore fiorentino) è che, sostanzialmente, sono i Genesis stessi a raccontare i sei album del periodo 1969/74, il mio compito è quello di mettere in ordine i loro pensieri sparsi. Ho avuto modo di ascoltare quei dischi spalla a spalla con alcuni di loro (Phillips, Hackett e Banks) e il libro è costituito esclusivamente da interviste rilasciate a me e al giornalista inglese Mike Kaufmann (parte delle quali era finita nei video allegati alle ristampe del 2008). Pertanto, tutte le dichiarazioni rilasciate dai Genesis e utilizzate ne "Gli anni prog" è inedito al 100%. Il mio percorso di scrittura dedicato ai Genesis ha avuto però una svolta con il nuovo decennio. Nel mese di maggio 2020, purtroppo con la pandemia appena deflagrata in tutto il mondo, ho coronato il mio sogno più grande: vedere pubblicato il mio lavoro in lingua inglese. Scrivere di una band inglese fino al midollo come i Genesis e avere l’ardire di uscire con un testo nella loro lingua, per una casa editrice londinese, era una scommessa teoricamente persa in partenza. In effetti, ci stavo provando da tempo, ma avevo trovato sempre le porte chiuse.
Invece, con la casa editrice Kingmaker (fondata dal leader dei Big Big Train, Gregory Spawton, e dal giornalista britannico Nick Shilton) è scattata subito la scintilla: "Genesis 1967 to 1975 – The Peter Gabriel Years" (versione in lingua inglese de "Gli anni Prog", il libro che Giunti aveva pubblicato nel 2013) è stato accolto con un grandissimo interesse in tutto il mondo, tanto da dovere essere ristampato (con piccoli aggiornamenti) per altre due volte. Nello stesso anno, con un altro editore italiano, Il Castello, abbiamo pubblicato invece "Genesis – Tutti gli album, tutte le canzoni", un libro di grande formato e qualità grafica, con stampa tutta a colori su carta lucida patinata e una sovraccoperta in cartone spesso. Poi, nel 2021, è stato pubblicato (sempre da Kingmaker) il mio secondo libro in inglese, "Genesis 1975 to 2021 – The Phil Collins Years", di cui è in uscito il 17 aprile l’aggiornamento (previa revisione generale) che porta la storia fino ai giorni nostri, con sottotitolo adattato ("Genesis 1975 to 2025"). La cosa curiosa su questo libro è che, ad oggi, è uscito solo in lingua inglese.
Avendo dedicato anche un volume a ogni membro della band, puoi provare a definire, in poche parole, la personalità di ognuno di loro?
Le personalità musicali credo siano note, basterà ricordare che i Genesis sono, in tutta la storia del rock, il gruppo in assoluto più coeso a livello di composizione. Su questo piano, nessun’altra band è in grado di rivaleggiare con loro. Persino i Beatles e gli Stones hanno avuto membri che, a livello creativo, hanno contato poco o niente, pur dando il loro contributo strumentale; nei Genesis, sono stati sempre tutti coinvolti al 100%, tanto che, come ho sempre detto, non è mai esistito un leader assoluto, a dispetto delle apparenze. Il che si è ovviamente tradotto nelle importanti, rispettive carriere soliste.
Le personalità umane sono altrettanto interessanti e ci vorrebbe troppo spazio per approfondirle. Sinteticamente, i quattro fondatori mantengono quella natura tipicamente inglese abbastanza chiusa dovuta a un’educazione estremamente rigida conseguita in un severo college del Surrey. Tony Banks e Mike Rutherford restano a tutt’oggi due gentiluomini di campagna, lontani anni luce dagli eccessi tipici delle rockstar (anche se il secondo qualche peccatuccio lo ha confessato nella sua autobiografia). Il percorso di Peter è ovviamente stato diverso in virtù del ruolo da frontman, tuttavia rimane ancora adesso, faccia a faccia, un signore timido e introverso che ha chiaramente forzato la sua personalità per esigenze artistiche.
Il più singolare di tutti è Anthony Phillips: anche se la sua parabola artistica (lasciò i Genesis per la paura da palcoscenico) farebbe pensare a un musone, in realtà, dei quattro ex-allievi della Charterhouse, è di gran lunga il più estroverso, una persona incredibilmente divertente e ironica, ma anche estremamente sensibile.
Steve Hackett e Phil Collins vengono da situazioni meno aristocratiche, dunque sono sicuramente, di primo acchito, più alla mano. Specie il batterista, il cui carattere allegro ed espansivo ebbe un ruolo determinante nel tenere in piedi il precario vascello Genesis dei primi tempi. Chiaro che, con la fama enorme raggiunta e, soprattutto, con le varie disavventure personali (sia familiari che di salute), il Phil di oggi sia molto diverso. Steve è un sognatore che vive per la musica, ma anche una bella persona, molto generosa e sempre pronta a farsi coinvolgere in ogni situazione per amore dell’arte. Infine il meno titolato di tutti, Ray Wilson, scozzese di nascita, tedesco di adozione, polacco di residenza. Molto più giovane degli altri e con un retroterra working class, Ray è stato però condizionato, a livello di personalità, dal passaggio troppo breve nei Genesis (e soprattutto dall’ingeneroso trattamento ricevuto), che per un certo periodo lo ha fatto piombare nella depressione.
Nel 1991, fondasti la fanzine Dusk, dedicata al mondo dei Genesis e attiva ancora oggi. Come la realizzavi, allora? Da dove prendevi le informazioni che ti servivano?
Dai giornali. Non c’era altro. Ero anche abbonato al Melody Maker, il leggendario settimanale inglese. Ma devo dire che sono riuscito molto presto a creare contatti con alcuni membri dei Genesis o i loro management, il che ha aiutato.
Com’è cambiata, durante gli anni, Dusk?
La cosa che più è cambiata riguarda l’aspetto pratico. Internet è stato ovviamente una rivoluzione, permettendo, per esempio, ai collaboratori di scrivere sul proprio pc e mandarmi gli articoli via e-mail (fino a un certo punto, dovevo ricopiarli uno per uno!). Allo stesso tempo, tante foto sono arrivate direttamente dalla Rete o quantomeno già digitalizzate, rendendo molto più semplice la lavorazione. La Rete ha ovviamente favorito anche i contatti con musicisti e personaggi tangenziali legati al mondo Genesis: un tempo bisognava fare ricerche incredibilmente lunghe e complicate, oggi puoi trovare (non sempre, sia chiaro) un sito di riferimento o un profilo Facebook cui inviare la tua richiesta. A parte questo, non è cambiato poi così tanto. Devi tener presente che Dusk è nata nel 1991, cioè ben tre anni dopo l’inizio della mia collaborazione con Ciao 2001. Quindi non mi sono mai comportato da fanatico, semmai da giornalista prestato al mondo delle fanzine, e non è una differenza da poco: ho sempre scritto i miei articoli con un approccio critico e rigoroso e l’unica concessione allo status di fanzine è stato sugli spazi, nel senso che non mi sono fatto condizionare da quel (pur comprensibilissimo) limite a livello di ingombri che qualunque rivista che va in edicola ha. Ai dischi e ai concerti abbiamo sempre dedicato lo spazio che era necessario, fregandocene di quante pagine avremmo occupato. Col tempo, naturalmente, grazie un po’ ai mezzi informatici sempre più ampi e un po’ alle competenze acquisite dalla maggior parte dei fantastici collaboratori che abbiamo, la qualità è andata ulteriormente migliorando. Dusk è una rivista a tutti gli effetti dal 2007, con tanto di registrazione al tribunale e un direttore responsabile (io, iscritto all’ordine dei giornalisti pubblicisti dal 1993) e mi sento di dire con totale onestà che non abbiamo niente da invidiare alla maggior parte delle riviste vendute in edicola (talvolta, semmai, accade il contrario).Quando hai visto per la prima volta dal vivo i Genesis? E l’ultima?
Il 7 settembre 1982, al Palaeur di Roma. I Genesis mancavano dall’Italia da ben sette anni, dai tempi di "The Lamb...", quando io non li conoscevo e, comunque, ero troppo piccolo. Quando si spensero le luci e vidi quelle figure salire sul palco, provai una grande emozione, come puoi immaginare. Ma mi ero preparato bene: l’anno prima, nel 1981, avevo visto un concerto meraviglioso di Steve Hackett sempre a Roma, a Castel Sant’Angelo, e nel 1980 un concerto ancora più bello di Peter Gabriel alle Cascine di Firenze, con i Simple Minds come gruppo spalla. Ho deciso subito che non avrei visto il tour d’addio dei Genesis, per almeno tre ragioni: la prima di carattere sanitario (trovai a dir poco sconcertante, quando iniziò il tour nel settembre 2021, vedere, nei video, arene inglesi piene zeppe di fan, gomito a gomito e senza mascherine); la seconda di carattere economico (i prezzi ormai fuori controllo dei biglietti, a cui andavano ovviamente aggiunti i costi di hotel e viaggio all’estero, non essendo previsti concerti in Italia); la terza, e in fondo la più importante, di carattere artistico: avevo visto l’ultimo concerto di Collins solista in Italia, a Milano nel giugno 2019, e sapevo quindi cosa aspettarmi. Guardando in seguito i filmati degli ultimi Genesis su YouTube, ho riscontrato una situazione persino peggiore di quella che temevo, con un artista purtroppo non solo impossibilitato ad alzarsi dalla sedia, ma anche gravemente intaccato a livello vocale, in un contrasto stridente rispetto all’immenso cantante che è stato Phil. Sono stato sempre molto critico sulle reunion (a mio avviso gli unici veri passi falsi di tutta la carriera della band), ma l’ultima è stata davvero di una tristezza infinita, e l’unica motivazione che posso trovare è che, probabilmente, ad averne un bisogno disperato era proprio Phil, felice di dare, nel contempo, un’opportunità al giovane figlio Nic, assunto come batterista. Quindi la mia ultima volta dei Genesis è stata il famoso Concertone organizzato dalla Telecom a Roma nel luglio 2007, anche se dopo la prima canzone scappai a gambe levate dall’ingiustificatamente affollata tribuna stampa e me ne andai nel prato (una bolgia comunque). Per mia fortuna, avevo potuto vedere dalla terza fila la prova generale a Bruxelles nel precedente mese di giugno, con ingresso a inviti, limitati ad appena 300 persone.Il 19 aprile del 1972, nell’ambito del Nursery Cryme tour, i Genesis suonarono anche a Napoli, per la precisione al Teatro Mediterraneo all’interno della Mostra d’Oltremare. Alloggiarono all’Hotel Domitiana, sul cui tetto la band ebbe l’ispirazione per comporre "Watcher Of The Skies", uno dei suoi brani più famosi. Di quel concerto, esiste anche qualche bootleg, certo di qualità non proprio eccelsa. Dai racconti e dalle informazioni che hai raccolto durante gli anni, che tipo di concerto fu? Sai per caso se alla band piacque Napoli? Qualche aneddoto?
La memoria dei fortunati che assisterono al concerto del 1972 che citi, e ancor più quello del 1974 al Palasport (quando la band promuoveva "Selling England By The Pound" e Gabriel si era già trasformato in uno straordinario frontman) è tuttora vivissima e circondata da una più che giustificata aura di leggenda. Quando si è in tournée, non c’è tanto tempo per visitare le città, e considera che quel giorno, a Napoli, i concerti furono addirittura due, uno pomeridiano, l’altro serale. L’episodio più buffo legato a quella data della band fu la visita al parco giochi dell’Edenlandia, che era vicinissimo alla Mostra d’Oltremare. In particolare, i membri dei Genesis furono accompagnati sulle giostre da due giovanissimi napoletani, uno dei quali era il quindicenne Massimo Fargnoli, oggi apprezzatissimo professionista e musicista in ambiti classici, che ha raccontato più volte l’emozione di condividere certi momenti con i suoi idoli e in particolare di come Peter Gabriel, forse il più socievole dei cinque, abbassasse la testa apparentemente spaventato, nel giro della Casa degli Spiriti, ogni volta che si materializzava una strega con tanto di scopa minacciosa.
Il mio disco preferito dei Genesis è “The Lamb Lies Down On Broadway”, all’epoca portato in tour con un grande dispiegamento di mezzi. Peccato che nessuno si prese la briga di mettere mano a un documento visivo degno di tal nome. Su YouTube circola un video messo a punto da alcuni appassionati con spezzoni e foto dell’epoca, ma bisogna accontentarsi! Come valuti questo lavoro nell’ambito della loro discografia? Ricordiamolo: fu anche l’ultimo disco prima dell’addio di Peter Gabriel…
“The Lamb...” è certamente un disco seminale in tutta la storia del rock, anche perché unico, per sonorità e contenuti, persino nella stessa parabola dei Genesis. Non si è mai capito bene per quale ragione non sia mai stato filmato professionalmente. Si dice sia dipeso da una decisione di Gabriel, che aveva concepito la storia e messo giù l’idea di base dello spettacolo, ma sono più propenso a pensare che, invece, semplicemente il gruppo (peraltro in un momento di grande tensione interna, che avrebbe portato subito dopo all’addio del cantante) non disponesse dei mezzi economici per commissionare una cosa del genere. La vera fama, come è noto, sarebbe arrivata solo in seguito. Anche se molti fan lo considerano globalmente non all’altezza dei tre dischi che lo hanno preceduto, “The Lamb...” è esattamente l’album che serviva ai Genesis per dimostrare una marcia in più rispetto a molti colleghi. E il merito principale, gli va riconosciuto, fu proprio di Gabriel, che volle assolutamente un cambiamento che, a quel punto, era necessario per non restare ingabbiati in una formula, per quanto esaltante. Proprio poiché Peter lasciò la band subito dopo il tour, quello rimane quindi un disco a sé stante e, di conseguenza, davvero unico.
Quali sono i tuoi tre dischi preferiti dei Genesis e perché?
Credo che il trittico 1971/'73 ("Nursery Cryme"/ "Foxtrot"/ "Selling England By The Pound") sia la quintessenza del miglior progressive inglese in assoluto, quindi probabilmente sono questi tre i migliori. Tuttavia, detto di "The Lamb...", personalmente adoro altrettanto "Trespass", un album pastorale e bucolico, con incursioni nel folk e quelle incredibili chitarre a 12 corde, un’invenzione di Anthony Phillips in combutta con Mike Rutherford. E naturalmente i primi due dischi senza Gabriel sono splendidi.
A proposito di "Trespass", ha un fascino particolare! Si tende un po' a dimenticarlo, quando si parla della loro prima fase, eppure ha un'atmosfera unica e contiene canzoni memorabili: "Looking For Someone", "Stagnation" e "The Knife", su tutte.
Si tratta di un disco che è cresciuto ulteriormente nei miei favori in anni recenti: è vero, la triade 1971/73 è il non plus ultra del prog. Ma "Trespass", sotto certi aspetti, lo trovo persino più innovativo, dotato di un sapore e di un fascino unico e mai ripetuto (da loro e da nessun altro), in cui si esprime al massimo il talento e l’innovatività di Anthony Phillips.
A tuo avviso, quale loro disco è quello più sottovalutato?
"We Can’t Dance". Con le banalità che ho avuto modo di sentire e di leggere su questo disco si potrebbe pubblicare Il manuale dei luoghi comuni. Molti di quelli che si sono presi la briga di ascoltarlo (perché c’è anche chi, invece, ha sparato sentenze senza neanche averlo davvero sentito) si sono fermati a una prima e fallace impressione, inventandosi una dipendenza da Phil Collins (in realtà inesistente: tutti gli album dei Genesis, da "Abacab" in poi, sono nati da improvvisazioni dei tre in sala prove), criticando le sonorità (ma ogni disco è figlio del suo tempo: cosa si dovrebbe dire, allora, dell’ipersintetico "Invisible Touch"?) e ignorando invece l’eccellente fattura di buona parte delle canzoni e anche delle innovazioni compositive e stilistiche, per non parlare di testi finalmente maturi e calati nella realtà.Sono perfettamente d’accordo con te, perché a mio avviso “We Can't Dance” contiene momenti davvero toccanti…
Mi fa piacere questo tuo giudizio, frutto evidente di chi, correttamente, si è preso la briga di ascoltare sul serio, e non di basarsi magari su tre minuti di un singolo, come in tanti fecero al tempo. A conti fatti, "We Can’t Dance" è un album maturo e interessante, senza dubbio tra i migliori (se non il migliore) dei dischi realizzati in trio.
Negli anni Settanta, la musica dei Genesis fu apprezzata più in Italia che nella natia Inghilterra. Ci sono, a tuo avviso, motivi particolari?
Direi sostanzialmente due. Primo, la musica dei Genesis (come quella di altri artisti apprezzati da noi prima che in patria, pensa ai Van Der Graaf Generator e ai Gentle Giant) conteneva dei ganci classicheggianti che l’ascoltatore italiano aveva forse la capacità di apprezzare più di un inglese, in quanto la musica classica fa parte del nostro Dna e la nostra storia è piena di musicisti di immenso talento e gusto. I fan inglesi, ovviamente ben più avanti sul rock ma forse più portati verso il beat e il British blues, avrebbero colto i cambiamenti in atto con un po’ di ritardo. La seconda ragione, sempre a mio modo di vedere, è più a livello culturale. I primi anni 70 italiani erano colmi di tensioni sociali, ma i giovani di allora disponevano di un’invidiabile apertura mentale e provavano il desiderio di abbracciare nuove esperienze. Conseguentemente, ponevano la massima attenzione verso questi nuovi fenomeni musicali, ascoltando in religioso silenzio e applaudendo quando bisognava applaudire, in controtendenza al pubblico britannico che, all’epoca, era forse più propenso all’idea della musica come arte liberatoria, associata al movimento del corpo oppure a un boccale di birra. La musica sofisticata dei Genesis non poteva trovare, in quel momento storico, un pubblico più attento e ricettivo di quello italiano, come i membri della band hanno peraltro sempre riconosciuto.
Gli anni Ottanta dei Genesis, al netto di un grande successo di vendite, non hanno mai riscosso grandi consensi critici, soprattutto al di fuori della cerchia dei loro fan. Per quanto mi riguarda, ci sono diverse belle canzoni, ma nessuno di quei dischi regge il confronto con quelli della loro stagione d’oro. Qual è la tua opinione su quel periodo?
Non c’è dubbio che l’apice artistico dei Genesis risieda negli album degli anni 70, e soprattutto quelli del quadriennio 1970/'74. Ma questo vale, in linea di massima, per tutti gli artisti: l’inesperienza di un musicista giovane e a inizio carriera può essere ampiamente compensata dall’entusiasmo e soprattutto da una creatività debordante. Onestamente, faccio fatica a pensare a un solo grande artista rock che non cada in questo cliché: certo, poi molte star hanno avuto fantastici colpi di coda, ma alla resa dei conti, nella stragrande maggioranza dei casi, se venisse chiesto di scegliere la “stagione d’oro”, per usare le tue parole, di un Bob Dylan, un Lou Reed, un Bruce Springsteen o un Neil Young, o di band longeve come Rolling Stones e U2, sfido chiunque a non indicare i primi anni di carriera. E allora perché ci si accanisce proprio con i Genesis, giudicando con sufficienza il post-Gabriel? E rilancio: meglio i Genesis che hanno avuto la forza di reinventarsi, per di più mantenendosi sempre sulla cresta dell’onda, o meglio gli Yes che, a dispetto dei cambiamenti continui di line-up, pubblicano ancora oggi copie sbiaditissime della gloria che fu, ma poi in tour suonano integralmente i dischi degli anni 70? Senza nulla togliere ovviamente alla grandezza degli Yes, la differenza mi pare semplicemente abissale. E quando il vento è cambiato, i Genesis hanno semplicemente smesso di far musica nuova. Purtroppo, aggiungerei, perché personalmente avrei preferito di gran lunga alle due reunion, sulla cui utilità ho già espresso il mio parere, un tentativo, fosse anche maldestro, di rimettersi in gioco.
“...Calling All Stations...” (1997), con Ray Wilson alla voce, invece, lo trovo proprio brutto. Ricordo che, all’epoca, mi lasciò incredibilmente perplesso...
Posso comprendere la tua reazione: il sound di quel disco, e non soltanto della voce, è molto diverso da quello tradizionale dei Genesis. Banks e Rutherford cercarono di cambiare, imprimendo sonorità più dure (in particolare nell’uso delle chitarre) e qualche influenza dark, situazioni in cui la bella voce di Wilson poteva certamente dire la sua. Alla fine, però, oltre al sottoutilizzo creativo del nuovo cantante, seppur non voluto (Ray fu scelto quando la maggior parte delle basi erano già state registrate), a pesare molto fu l’assenza di Collins, e non tanto a livello vocale e strumentale, quanto sul piano degli arrangiamenti, poiché uno dei grandi talenti di Phil era la capacità di sintesi e di raccordo di certe asprezze dei due colleghi. Nel complesso, e tanto più col senno di poi, si avverte quindi un senso di incompiutezza sul piano compositivo e realizzativo, specie nei brani più lunghi come "The Dividing Line", "One Man’s Fool" e "There Must Be Some Other Way", che a conti fatti non mantengono le promesse e sono un po' deludenti. Però, non è tutto da buttare, e la title track credo sia stabilmente nella mia top ten dei Genesis di sempre. Semmai, credo che la band avrebbe dovuto avere il coraggio di insistere almeno per un altro disco, anche per permettere a Wilson di integrarsi e contribuire di più. Purtroppo non è avvenuto.
Quali sono gli elementi che rendono i Genesis così riconoscibili nell’ambito del progressive-rock?
Direi sostanzialmente due cose: il gusto e la melodia. Per il primo elemento, mi pare stridente la differenza rispetto ad alcune delle pomposità e degli eccessi tipici del prog-rock (spesso reiterati nei concerti) che, di lì a qualche anno, sarebbero diventati tra l’altro il (sacrosanto) bersaglio preferito del punk. Ecco, i Genesis non sono mai caduti in quella trappola, semplicemente perché non era nella loro natura. E poi la melodia, per quanto non certamente scontata o banale (e qui vanno riconosciute in particolare le doti di Tony Banks), ma che li ha differenziati da colleghi altrettanto, se non più dotati tecnicamente, che però avevano la tendenza a ingolfare le loro partiture di elementi intricati e non sempre, diciamolo, davvero necessari.Fermo restando che, per quanto riguarda le carriere soliste, quella di Peter Gabriel è sicuramente stata la più affascinante e creativa, io ho sempre avuto un certo affetto per quella di Phil Collins, il cui “...But Seriously” (1989) è un disco di grandissima classe e con alcune canzoni bellissime. Qual è la tua opinione sulla carriera solista del grande batterista inglese e su quel disco in particolare?
Sebbene il disco della rivelazione di Collins solista sia per ovvi motivi “Face Value”, anche a me piace molto “…But Seriously”, che è probabilmente il suo album migliore nel complesso: maturo, suonato divinamente (anche con un magico Eric Clapton in "I Wish It Would Rain Down") e con ottime canzoni al suo interno. Il suo disco peggiore di materiale originale secondo me è il più recente, “Testify”, che trovo piuttosto blando. Nel resto della carriera, invece, Collins si è sempre tenuto a livelli medio-alti anche sul piano creativo. Ho sempre detestato, in realtà, “No Jacket Required”, il suo album dance del 1985 (peraltro baciato da un successo senza precedenti), ma in tempi recenti mi è capitato di riflettere su alcuni aspetti che avevo in precedenza trascurato. Per esempio, un brano come "Who Said I Would" lo trovo irritante ancora oggi, ma non posso fare a meno di restare a bocca aperta ascoltandone le ardite scansioni ritmiche della sezione fiati, specialmente nella versione dal vivo. E poi c’è una B-side che ritenevo orrenda: "I Like The Way". Ma ho provato a immaginarmela cantata da Michael Jackson (se ne fossi in grado, proverei a realizzarlo con l’intelligenza artificiale!) e improvvisamente, nella mia mente, ha preso tutta un’altra piega! A dimostrazione del fatto che, per quanto lo si voglia sottovalutare, Phil Collins è dotato di una musicalità con pochi rivali. Non a caso è sempre stato considerato intoccabile da tantissimi artisti neri, anche di estrazione più moderna, provenienti dal mondo del rap e dell’hip hop.Di ogni singolo membro della band, quale lavoro solista consiglieresti a chi non ha mai ascoltato nulla di loro?
Detto di Collins, dipende dai gusti di ciascuno e da ciò che ci si aspetta. È chiaro che se si cerca qualcosa di molto genesisiano, allora non posso non consigliare i debut album di Mike Rutherford (“Smallcreep’s Day”), Steve Hackett (“Voyage Of The Acolyte”) e Tony Banks (“A Curious Feeling”). Gli ultimi due hanno proseguito le rispettive carriere prevalentemente in ambiti di rock romantico o classicheggiante, per cui, volendo un’alternativa, potrei consigliare "Strictly Inc." del tastierista (non fosse altro che per i meravigliosi 17 minuti di "An Island In The Darkness") e “Spectral Mornings” del chitarrista, mentre il bassista ha preferito, come è noto, un’area più prettamente pop, con Mike & The Mechanics (il cui album migliore, secondo me, è “Beggar On A Beach Of Gold”). Il terzo album solista di Peter Gabriel è ovviamente una pietra miliare (seguito a ruota dal quarto), ma il disco solista che preferisco in assoluto è “The Geese & The Ghost” di Anthony Phillips, di una bellezza acustica devastante (a chi non disdegna le atmosfere classicheggianti, suggerisco invece “Slow Dance”). E, se mai qualcuno volesse approfondire anche la carriera solista di Ray Wilson, consiglierei “Song For A Friend”, un disco che profuma più di Roy Harper che di Genesis e, proprio per questo, è ancora più prezioso.
A proposito di Peter Gabriel, cosa pensi della colonna sonora "Passion", che trovo superlativa...
Dopo il suo terzo e il quarto album, per me è il miglior disco di Gabriel. Vedo che su tante cose la pensiamo in maniera simile.
16/03/2025