
“Il miglior live di sempre. Punto”
(New York Post)
“The Wall Live è perfetto. Tutti dovrebbero vederlo almeno una volta prima di morire”
(Philadelphia Inquirer)
“The Wall è un trionfo di dimensioni e ambizione…la vetta più alta mai raggiunta dal rock”
(The Times, London)
Andare a vedere un concerto descritto dai più autorevoli giornali del mondo come la più grande esperienza che un musicofilo possa sperare di vivere nella vita è una sfida alle proprie aspettative. I floydiani più convinti hanno sicuramente visto le riprese di The Wall Live 1980 su YouTube, un footage all’Earls Court di Londra. Immagini che, nonostante non siano ufficiali e quindi di bassa qualità audio e video, riescono comunque a testimoniare la magnificenza di quel primo tour del disco, l’ultimo dei Floyd nella formazione storica.
Molti di loro hanno preso parte alla prima riproposizione moderna del disco, nelle tappe milanesi del 2010, suscitando non poca invidia e amarezza in chi, come il sottoscritto, non era riuscito a partecipare a quella che si pensava fosse l’ultima occasione. E sono molti fra loro ad aver partecipato anche alla data padovana: fra i quasi 50.000 del tutto esaurito all’Euganeo di Padova, in centinaia sfoggiano maglie, spille o addirittura sciarpe delle date milanesi. E’ grazie ai loro racconti, nella fila interminabile che sotto il sole delle 16 precede l’accesso al prato, che l’aspettativa cresce ancor di più; si descrivono esperienze epiche, indimenticabili, che non si sa se ascoltare o no, per non scoprire dei particolari che si vogliono riservare per qualche ora più tardi. Qualche metro più in là fan più anziani vestono altri cimeli: sotto i lunghi capelli bianchi spunta su una t-shirt corta e sgualcita “The Dark Side Of The Moon Tour 1972 (A Piece for Assorted Lunatics)”. Epico.
Ma l’anno è il 2013 e davanti a me, a poco meno di 150 metri, c’è il palco più alto della storia della musica live, contornato da un muro di mattoni bianchi lungo da tribuna a tribuna. "The Wall" spesso è il primo album che ascolta un neo-fan dei Pink Floyd, forse per il grandissimo successo di "Another Brick In The Wall Pt 2", diventata negli anni un inno della musica rock; è stato così anche per chi scrive. Ho consumato i due dischi in ripetuti ascolti, tutti i giorni per mesi; poi ho comprato il vinile, ho visto il film e tramite internet i live a Londra e soprattutto Berlino, davanti a uno dei muri più dolorosi dell’epoca moderna; sono cresciuto con la spettacolarità delle immagini reali e animate, con i mille messaggi chiari o criptici contenuti nel concept.
Quando alle 21.20 tutte le luci dello stadio vengono spente e anche il muro diventa buio, come lo schermo di una televisione spenta, l’eccitazione e l’attesa diventano commozione nel vedere il pupazzo di Pink maltrattato da due uomini in uniforme e la scritta bianco su nero “Io sono Spartaco” comparire sul muro in tutte le lingue del mondo.
E’ solo l’inizio: dopo qualche minuto parte all’improvviso "In The Flesh?" a volumi spropositati, accompagnata dall’accensione dell’intera scenografia sul palco e da altissimi fuochi d’artificio. Non pochi fra il pubblico saltano per il colpo improvviso. Roger appare pochi istanti dopo davanti al muro, il suo muro, in formissima, camminando da un lato all’altro del palco e salutando il pubblico urlante prima di indossare una lunga giacca di pelle nera da gerarca nazista. Dopo una smorfia - che simbolizza il disprezzo per tutti gli altri (e in particolare il pupazzo del Pink debole sotto i suoi piedi) - inizia a cantare, mentre la live band esegue magistralmente la canzone e i tecnici iniziano ad aggiungere al muro nuovi mattoni, che si illuminano delle immagini proiettate come fossero indipendenti l’uno dall’altro.
Lo show di video e fuochi d’artificio continua fino al crescendo finale: un aereo, fissato inizialmente al tetto della tribuna, viene lasciato cadere sul muro ed esplode in un tripudio di fuoco e frastuono. La commozione impedisce di articolare le canzoni.
Il live scorre veloce e senza interruzioni a parte una pausa fra "Another Brick In The Wall pt II" e "Mother", nella quale Waters si rivolge al pubblico in un ottimo italiano. In entrambe le canzoni l’attenzione si concentra su due enormi pupazzi gonfiabili, prima quello del celebre maestro, sfidato da un gruppo di bambini di Padova che entrano sul palco al momento del coro, e poi quello della madre, comparso a qualche metro da Waters nel mezzo dell’esecuzione acustica di "Mother" (durante la quale vengono proiettate sullo schermo circolare le immagini dello stesso Waters che canta la medesima canzone nel 1980 all’Earls Court), oltre a una interessante versione alternativa acustica di "Another Brick In The Wall Pt II".
Ogni canzone funziona come un universo di messaggi a sé stanti, ma inseriti perfettamente nel complesso e funzionali all’opera, comunicati in parte dai meravigliosi visual e in parte dalla spiccata gestualità del fondatore dei Floyd. Toccanti, in particolare, sono i video di "Goodbye Blue Sky" (il volo animato di uno stormo di uccelli interrotto da quello di alcuni aerei da guerra che rilasciano a terra simboli di ideologie, religioni e marchi a mo' di bombe, riempiendo il terreno di sangue) e di "Don’t Leave Me Now" (il pupazzo di una moglie-mantide nuda scende davanti al muro colorato di verde e balla durante l’assolo).
Con "Goodbye Cruel World" si chiude la prima parte e viene posato anche l’ultimo mattone del muro, che ora copre completamente l’intero palco, ove rimarrà intatto fino all’ultima canzone.
La seconda parte non fa calare la maestosità dello show: la voce del bassista dei Floyd non dà il minimo segno di cedimento, mentre sono impeccabili le esecuzioni di "Hey You" e di "Is There Anybody Out There?"; da brividi, poi, il grande classico "Comfortably Numb", con gli indimenticabili pugni di Waters al muro che si squarcia, anche se solo in video, rivelando un retro multicolore in un crescendo emozionante che trova il suo picco con il magnifico assolo di David Kilminster, che non fa rimpiangere troppo quello storico di David Gilmour.
Da quel momento il live diventa un specie di enorme musical, con Waters che veste i panni di un gerarca nazista paranoico (tanto da “sparare” sulla folla con un mitra nell’encore di "In The Flesh") e con la band travestita come il suo esercito, con armi, bandiere e completi militari.
Come se non bastasse, sono forse proprio le ultime cinque canzoni il climax dell’intero concerto, a cominciare dall’inconfondibile riff di "Run Like Hell", cantata a squarciagola da tutto il pubblico. Con "Waiting For The Worms" l’intero muro si colora delle animazioni del film del 1982: l’epica marcia dei martelli viene proiettata in tutta la sua lunghezza e rimane, forse, il momento più emozionante dello show, prima che Waters si sposti per concentrare lo sguardo del pubblico sulla lunga sequenza animata di "The Trial".
I 50.000 dell’Euganeo, ipnotizzati dall’esperienza, gridano in coro “Tear Down The Wall”, incitati dallo stesso Waters, che scompare dal palco proprio mentre il muro crolla nell’euforia generale. L’intero gruppo ricompare, qualche minuto dopo, sulle macerie del muro, per "Outside The Wall".
Waters canta “Is this not what you expected to see?” in "In the Flesh?" e io penso che no, è molto di più. Rispetto al tour precedente quello del 2013 è coraggiosamente ridisegnato per gli stadi: il suono è potentissimo e proviene da tutte le direzioni, come del resto le luci e le proiezioni, che prendono tutta la lunghezza del muro; lo spettacolo costringe lo spettatore a una visione a 360° dello spazio sensoriale attorno a sé, più o meno come accade per il muro chiuso tutto attorno al protagonista, Pink.
Il messaggio dell’album è riattualizzato in un pacifismo concreto, basato sull’esaltazione di alcune figure-chiave, come quella di Jean Charles de Menezes, al quale Waters dedica lo show, o a quelle di molti attivisti e vittime di conflitti le cui foto riempiono il muro durante "The Thin Ice" e durante la pausa fra le due parti del concerto, senza però perdere di vista le vicende umane di Waters sulle quali del resto è incentrato lo svolgimento lineare del concept. L’insieme dei curatissimi particolari e il forte coinvolgimento di Waters e dell’intera band non può non destare una fortissima commozione, oltre all’emozione suscitata dal rendersi conto di assistere a qualcosa di unico, se possibile ben al di sopra della attese. L’intero show, del resto, è un incredibile capolavoro, per ambizione e concreta realizzazione, maestosa e diretta.
Del resto, si tratta di Roger Waters, il fondatore di un gruppo chiamato Pink Floyd, l’unico che riesca a trasformare un disco scritto e uscito più di trent’anni in un'opera ancora viva, di estrema attualità e spettacolarità. Ora, dall’alto della sua celeberrima modestia, il caro vecchio Roger, alle soglie dei 70 anni, può godersi il meritato e più alto gradino del podio della musica live mondiale. Ancora una volta.