John Foxx

John Foxx

The Quiet Man

Dal romanticismo punk dei primi Ultravox al glaciale pop futurista del capolavoro "Metamatic", fino ai recenti progetti tra ambient, musica sacra e nostalgia analogica. Questo e molto altro nel vasto curriculum di Dennis Leigh, alias John Foxx, il più umano e longevo fra gli androidi innovatori della new wave

di Matteo Meda

Intro

L'uomo e la macchina. La tecnologia e l'arte. La luce e il buio. Naturale e artificiale. Decadentismo e romanticismo. Punk, glam e new wave. Synth-pop, ambient e techno. Dennis Leigh, o se preferite, John Foxx. Una storia iniziata quasi per caso. Quattro ragazzi conosciutisi tra accademia d'arte e annunci sul "classico" Melody Maker, un gruppo prima altalenante, discontinuo, strabordante di idee e creatività. Poi una forma sempre più sicura di sé, un album, due, tre. E infine, il cammino solitario, rivoluzionario, di un leader troppo grande e artisticamente complesso per poter spartire tutte le sue velleità con una band. Gli Ultravox, la rivoluzione sintetica, la scomparsa, il ritorno, il nuovo viaggio verso una dimensione sonora personale e sempre all'apice di una ricerca approfondita, in grado di partorire risultati eccezionali. E, soprattutto, all'avanguardia, ispiratori per quel che sarà poi. Questo e molto altro è John Foxx, quella che tenteremo di raccontare è la sua storia.

La riscoperta e lo sviluppo del presente

26 settembre 1947: nasce a Chorley, nell'Inghilterra nord-occidentale da famiglia benestante, Dennis Leigh. L'arte è sua passione fin dall'infanzia, tanto da fargli intraprendere in gioventù il cammino dell'accademia, luogo in cui incontrerà poi i compagni d'avventura in quel che diverrà uno dei gruppi fondamentali per lo sviluppo della new wave. Ma il pallino di Leigh è da sempre il futurismo: una passione innata per quel movimento rivoluzionario, caratterizzato della sua costante volontà di essere precursore e non cavalcatore di tendenze, di trovarsi sempre al di là delle commistioni artistiche del presente. Dinamismo come parola chiave, nelle opere artistiche e nella ricerca: l'impossibilità, la pochezza dell'accontentarsi, del prender forma, dell'acquisire staticità; al contrario, il movimento, la tendenza al rinnovamento e al nuovo, a quel che ancora non esiste. La personale interpretazione animatrice della ricerca di Foxx ce la fornisce lui stesso, identificando la sua ricerca non come il tentativo di guardare al futuro, ma quello di scoprire e dar luce al presente più profondo: "La cosa più difficile è riuscire a vedere il presente, in altre parole quello che ho sempre cercato di fare. È molto difficile farlo nel momento in cui sta accadendo: puoi farlo vent'anni dopo e constatare che cos'è successo, ma è molto diverso capirlo in quell'esatto istante. La gente immagina un sacco di cose riguardo al futuro, ma io non sono fra quelli. Non scrivo mai del futuro, mi piace scrivere di ciò che sta succedendo ora, ben sapendo che possono volerci vent'anni per riconoscere il presente".
La personalità del giovane Leigh risente in maniera ponderante di questa passione: sua caratteristica sarà quella di non fermarsi mai, di non gettare l'ancora in nessun punto, di volersi trovare sempre all'avanguardia (nel presente, dunque, non nel futuro), di non sposare mai tendenze nella loro interezza, ma sempre e solo con l'intento di apportarvi cambiamenti, di servirsene per proseguire per la sua strada. Che si tratti di rock, elettronica, pop, paillettes, geli analogici o evocativi misticismi, la sua è un'opera che oltrepassa i confini di ogni definizione, per non stabilizzarsi mai in maniera definitiva.

Quattro romantici tra punk e glam

John Foxx - UltravoxÈ il 1973 quando il primo embrione degli Ultravox prende vita, con il futuro John Foxx, cantante e tastierista, che chiama a sé l'amico chitarrista Steve Shears e recluta, tramite un annuncio su Melody Maker, Chris Cross al basso e Warren Cann alla batteria. È anche l'anno di "For Your Pleasure" dei Roxy Music, il trattato che integrerà lo standard sonoro del movimento glam-rock, trasformandolo così da tendenza di costume a vera e propria corrente musicale. Il glam, prima di tutto, è la base di partenza da cui il gruppo trae le proprie coordinate sonore, legate però in maniera covalente a elementi di puro romanticismo, come la melodia e il landscape lirico. Di ulteriore preponderanza nel sound della band è l'elettronica originatasi dal movimento kraut-rock, evolutasi nell'attività di esponenti quali Ash Ra Tempel, Kraftwerk e Neu!. Questi ultimi, pionieri nella condensazione delle sperimentazioni sonore kraut in scheletri ritmici tipici del rock, saranno anche il modello principale del drumming di Warren Cann, influenzato in maniera decisiva dal fantomatico "motorik". Assieme alle innovazioni del duo, anche i Kraftwerk completeranno il loro cammino traslitterando il loro linguaggio, con l'ausilio della melodia, in quello che presto diverrà il synth-pop, agli albori in album come "Autobahn" e "Radioactivity". Questo percorso è basilare nel curriculum di influenze degli Ultravox, che incorporando e fondendo gli elementi suddetti, conieranno una delle esperienze più innovative del movimento new wave.
"Non abbiamo mai voluto essere classificabili. Il nostro primo obiettivo è sempre stato quello di fare una musica 'nuova', che traesse spunto un po' da tutto senza assomigliare a niente".

La formazione, inizialmente altalenante (come dimostrato anche dagli svariati nomi, ultimo dei quali Tiger Lily), raggiungerà la sua stabilità un anno dopo, quando ai già presenti Chris Cross e Warren Cann si aggiungerà Billy Currie, ad affiancare Leigh che prenderà da quel momento il nome di John Foxx e la cui leadership giungerà a una sintesi proprio grazie a quest'ultimo: se i due saranno allineati nella vena sperimentale così come nel background sonoro, il tastierista e violinista tenterà col tempo di assecondare in maggioranza gli elementi romantici di derivazione glam, rinunciando ai lustrini e preservando in toto l'anima "umana" della musica degli Ultravox. Foxx, al contrario, sceglierà di seguire la strada kraftwerkiana dell'elettronica sintetica, della forma attraverso la macchina, dell'essere umano che s'inchina dinnanzi alla perfezione artificiale, pur senza abbandonare una personale visione dell'uomo, quieta e pastorale (dimostrazione di entrambe le tesi saranno i due opposti capolavori Metamatic e The Garden). Poco prima, lo stesso Foxx era stato invitato a provare con i futuri Clash per divenirne il cantante: l'incontro tra lui e Mick Jones fu distruttivo con i due che si accusarono a vicenda di non saper fare musica, ma rappresentò un indizio già indicativo dell'importanza che il personaggio sarebbe riuscito ad avere.

Atto I - La new wave prima della new wave

Beh, era tutto molto eccitante, perché la prima volta che sono stato a Londra nel 1973 non c'era musica per le strade, mentre incontravo persone che al contrario volevano farne, come ad esempio Mick Jones, Glenn Matlock e altri che avrebbero fatto parte dei Clash e dei Pistols...

John FoxxIl 1977 è un anno fondamentale per la storia del rock. Il progressive, nella sua incarnazione originaria,  è ormai decaduto, mentre l'elettronica è sempre più materia popular, grazie all'uscita di "Trans-Europe Express" dei Kraftwerk. La new wave sta per abbattersi sulla scena, con "Heroes" di David Bowie pronto a toccarne una delle vette più elevate. E il punk è anch'esso in arrivo, grazie ai Sex Pistols e al loro "Never Mind The Bollocks", ai Ramones e ai Clash con gli omonimi debutti. Ma, cronologicamente coevo quando non in anticipo, e per questo ancor più importante, è l'uno-due con cui gli Ultravox danno il via alla loro carriera.
Usciti a distanza di meno di un anno fra di loro, i primi due capitoli della saga della band hanno il loro comun denominatore nella presenza di Steve Lillywhite, che grazie a queste due produzioni darà il via a una carriera da assoluto protagonista fino a divenire uno dei più celebri e importanti produttori dell'intero movimento. Ma nel primo dei due album, ad affiancarlo in cabina di regia, c'è anche Brian Eno, che chiuderà l'anno musicale con il trattato "Before And After Science", apice formale e sintesi anticipatrice di un'intera decade di musica. E quel che accade tra Eno e il gruppo è un vero e proprio scambio di stilemi sonori, con il guru che cede alla band - oltre alle sonorità avant-glam già espresse nel fondamentale "Taking Tiger Mountain (By Strategy)" del 1974 e a un'accentuazione degli elementi sperimentali già impressi nel loro sound - quella tipologia di cura del dettaglio nella registrazione, l'attitudine alla certosina trattazione del dettaglio fonico e sonoro. I doni che invece gli Ultravox consegneranno al non-musicista sono, soprattutto, le avvisaglie punk applicate in un ambito maggiormente "canonico" di quello dei Sex Pistols e più votate (ma qui Eno ci metterà anche molto del suo) allo sviluppo musicale, piuttosto che a quello "ideale"; questi si faranno sentire fortemente in "Before And After Science", a sua volta impositore uno standard su cui si assesteranno, su tutti, i Talking Heads, quando invece i Wire terranno ben saldo il legame con il punk originario.

Il risultato primo di questo scambio è Ultravox! (con il punto esclamativo presente anche nel nome del gruppo: verrà abbandonato a partire dall'anno seguente), l'incredibile debutto della band, un'autentica trasposizione del glam in salsa punk, forte anche di un corredo di spunti d'avanguardia e di una declinazione personale della lezione di Rother e Dinger. Della vena romantica, che presto diverrà il marchio di fabbrica della band, si notano già i primi parti, comunque legati indissolubilmente all'estetica di Ferry e soci. Altro riferimento primo per il sound del disco sarà David Bowie, cui Foxx si ispirerà notevolmente nell'uso della voce, elemento che perderà però progressivamente importanza e "purezza" nel corso della sua carriera solista.
Quel che ne risulta è un vero e proprio juke-box di idee, riferimenti, agganci al passato, ricco di un'irrefrenabile vena innovativa e di spunti che saranno capisaldi di almeno tre generazioni di band e artisti, e influenzeranno in maniera decisiva il panorama new wave. Brani come l'iniziale country-glam di "Sat'day Night In The City Of The Dead" e la ballata decadente "Slip Away" sono figli in toto del primo Bowie, nelle tematiche e soprattutto nello stile vocale, e il tema della città inizia già a farsi sentire pesantemente nei racconti "stradali" di "Life At Rainbow's End", così come nel profilo distorto di "Wide Boys". A porsi in eccezione è "Dangerous Rhythm", in cui i Roxy Music tornano prepotentemente a dominare il clima d'ispirazione, con Foxx capace di prodursi in un crooning in pieno stile-Ferry. La disperata "I Want To Be A Machine" è invece una sorta di suo testamento, e di primo passo verso le ambizioni future: l'appello del titolo è eseguito con un canto languido e sentito, contornato dapprima da chitarre acustiche, per poi mutare in spettrale marcia elettrica ed evolversi fino a raggiungere il fantasmagorico finale al fulmicotone tra archi, elettronica concreta e dissonanze. È il suo urlo liberatorio, che riuscirà a realizzare appieno dopo l'abbandono del gruppo, mentre il primo apice romantico della band si ha in "The Wild, The Beautiful And The Damned", nuovamente intrisa di partiture d'archi ed elettronica. A proiettare già verso l'evoluzione successiva è invece la conclusiva "My Sex", che al romanticismo unisce una vena "robotica", non distante dall'assetto che sarà sviluppato in entrambi i due lavori successivi.

Ultravox! è il folgorante primo atto di un gruppo il cui destino pare essere già scritto, in grado di anticipare, riciclando e inventando al tempo stesso, tendenze che diverranno in breve tempo veri e propri standard. Un'autentica dichiarazione d'intenti, che rivela la forza e la freschezza della ricetta proposta dai cinque. Ma ancor più peculiare risulterà essere il secondo parto del gruppo, il ravvicinato Ha!-Ha!-Ha!.

Anticipato dal fuorviante singolo "Young Savage" - che sarà invece un importante indizio verso il suono del futuro terzo album della band - questo secondo lavoro è il parto maturo di un gruppo maggiormente consapevole della strada da percorrere e deciso nel proporre un suono ancor più personale e variegato, focalizzandosi in ciascun brano su diversi versanti. Un'ulteriore evoluzione è rappresentata dal maggior utilizzo di strumentazione elettronica: se infatti in Ultravox! la matrice rock risultava in gran parte dominante, e il mezzo elettronico era sfruttato quasi sempre come corredo secondario, quest'ultimo diviene in Ha!-Ha!-Ha! elemento centrale e fondamentale al pari di chitarre, basso e batteria. Lillywhite è confermato, non c'è più Brian Eno, ma l'eredità lasciata dal chimico della non-musica ha un peso ancora rilevante. L'album contiene buona parte degli apici espressivi dei "primi Ultravox", tra cui il dissonante punk elettronico di "Fear In The Western World", teatrale festival assurdista dalla marcata vena ironica, e l'incedere dadaista di "The Frozen Ones", che contrappone una strofa spensierata a un ritornello sentito e sofferente. L'iniziale "RockWrok" si congiunge invece ai fasti del primo album, tornando a coprire Foxx e soci di lustrini e paillettes, mentre "Distant Smiles" mette l'accento sul romanticismo melodico di Currie, suggellato da una lunga e toccante introduzione al pianoforte acustico. Ma ancor più rappresentativi dell'intero lavoro sono il kraftwerkiano synth-pop di "The Man Who Dies Every Day" - una marcetta cruda e raggelante per synth e chitarra, vero caso isolato all'interno del disco, dove Foxx si veste per la prima volta da androide -, il pastiche elettronico di "Artificial Life" - che riprende laddove "I Want To Be A Machine" aveva lasciato, opponendosi alla resistenza di "While I'm Still Alive" - e il vero capolavoro dell'album, e probabilmente della storia della band, quell'"Hiroshima Mon Amour" capace di miscelare animo romantico e disperazione decadente in cinque fra i più intensi minuti dell'intera new wave, con un Foxx in stato di grazia nel corredare assieme l'interezza degli elementi del sound ultravoxiano e convogliarli in un chiaroscuro al tempo stesso distaccato e commovente.

Con Ha!-Ha!-Ha! gli Ultravox danno vita a un altro album magnifico e siderale, specie se considerato assieme al suo predecessore. Nei due capitoli che segnano la loro ascesa, i cinque  riescono nell'impresa di prevedere contemporaneamente l'ala romantica della new wave (che vedrà Japan, Simple Minds, Talk Talk e Duran Duran fra i propri nomi di punta, e che proprio gli Ultravox teorizzeranno l'anno dopo) e il lato più freddo e sintetico, cavalcato invece dallo stesso Foxx, da Gary Numan e dagli Human League. Due versanti, questi, che saranno ulteriormente sviluppati, fusi e contrapposti nel terzo e ultimo lavoro della prima fase della band.

Atto II - Romanticismo per robot

John FoxxDopo l'ingresso di Robin Simon a sostituire Shears alla chitarra, Foxx e soci virano nel successivo Systems Of Romance - uscito di nuovo a distanza ravvicinatissima (poco meno di un anno) - verso un sound di pura romantic-wave, guarnito qua e là dalle prime geometrie elettroniche che saranno protagoniste nel futuro del Foxx solista. La chiamata alla corte della band di Conny Plank, sorta di turnista onniscente del kraut-rock (passato tra Can, Cluster, Neu!, Kraftwerk e Ash Ra Tempel) è il segnale innanzitutto del predominio di Foxx su Currie nell'interpretazione del linguaggio sonoro - con quest'ultimo decisivo invece in fase di composizione - e secondariamente della svolta che caratterizza l'album rispetto ai due precedenti. Plank verrà anch'esso lanciato nel mondo della new wave da questa produzione, analogamente a quanto accadde con Lillywhite e il tandem d'esordio, e diverrà tra uno dei produttori più ricercati su scala internazionale (finirà per "concedersi" persino a Gianna Nannini). E proprio questo controsenso è l'equilibrio su cui poggia l'album: la vena romantica di Currie è letta ed interpretata dalla fredda elettronica di Plank e Foxx, a bilanciare gli animi e le idee di entrambi.
Si ha quindi un perfetto surrogato di elettronica mai così "umana" e romanticismo profondamente artificiale: con Systems Of Romance, gli Ultravox danno in sostanza vita alla romantic-wave stessa, aprendo le strade al tempo stesso all'applicazione melodica dell'elettronica più sperimentale. Considerabile come il manifesto di tale genere, l'album accantona quasi interamente i rimasugli glam e punk dei precedenti capitoli, pur mantenendo intatta la base della propria ricerca, dando vita a vere e proprie distese di synth-rock melodico e pungente al tempo stesso. A svettare sono così la languida "Slow Motion" - in cui la chitarra di Simon si esibisce per la prima volta nelle sue aperture destinate a fare storia -, l'apoteosi chitarristica "Can't Stay Long", la distorta e sincopata "Blue Light" e il capolavoro "Quiet Man", canzone a totale suffragio di Foxx dove un ritornello anthemistico viene circondato e sommerso da un'architettura di orpelli elettronici mai così lineari. Le prime avvisaglie del futuro di quest'ultimo si avvertono anche nella nevrosi robotica di "Someone Else's Clothes" e negli spigoli melodici di "Dislocation", mentre negli appiccicosi e sentimentali riff di "Maximum Acceleration" e "When You Walk Through Me" possono già intravvedersi gli orizzonti che gli Ultravox svilupperanno a partire da "Vienna". E la conclusiva ballata per piano e voce trattata di "Just For A Moment" suona quasi come un canto di congedo di Foxx, con tanto di stretta di mano a Currie.

Systems Of Romance è un crocevia per la storia del rock: quella stessa band che con i primi due lavori aveva partorito due autentici trattati anticipatori di gran parte della musica che seguirà, produce un ennesimo capolavoro e vero e proprio iniziatore di una fra le più gettonate interpretazioni delle sonorità di tale movimento, progenitore dell'opera, su tutti, di quel Gary Numan che con sonorità vicinissime giungerà ad un inaspettato ed enorme successo commerciale grazie ad album come "Replicas" e "The Pleasure Principle".

Siamo nel 1979, il progressive è definitivamente tramontato, il glam è già sceso sotto la linea dell'orizzonte, il punk è esploso, ma durato giusto il tempo che il fumo provocato si diradasse. Il movimento new wave ha iniziato a prendere forma, è ancora agli albori (si può idealmente considerare il '77 come l'anno della sua nascita) ma è destinato a vita ben più lunga, tanto da permanere stabilmente lungo quasi tutti gli Ottanta. È il 1979, quando sulla scena si affacciano già gran parte delle band figlie del Bowie berlinese e degli Ultravox, come dei Sex Pistols e degli Stooges, di Brian Eno e dei Kraftwerk, fra cui Wire e Japan. È il 1979 quando John Foxx lascia la sua band.

Verso una nuova via

Gli Ultravox avevano preso una direzione che non era la mia. Si credevano una rock band. Credimi, ero già sicuro che li avrei abbandonati ancor prima che iniziassero le registrazioni di 'Systems Of Romance'.

Come già anticipato, gli Ultravox non furono "la band di John Foxx". Furono, semmai, la band "soprattutto di John Foxx", ma le volontà di questi dovettero sempre incontrarsi con l'altra anima del gruppo, quel Billy Currie che sarà, assieme a Midge Ure, il fautore della nuova era votata al synth-pop romantico della band, il cui apice si avrà nel meraviglioso "Vienna" del 1980. Questo "scontro", mai veramente consumatosi all'interno della band, raggiunse probabilmente per Foxx il punto di non ritorno proprio in Systems Of Romance, l'album considerato unanimemente più influenzato dal suo stile. Se, infatti, nel sound è ben chiara la matrice elettronica voluta proprio da questi, è altrettanto evidente come anche qui Currie finisca per giocare un ruolo di primo piano, tanto da "sfruttare" le intuizioni di Foxx - accusa questa che il nostro estenderà anche a molti elementi del successivo "Vienna" - neutralizzando le algide ed essenziali costruzioni sintetiche con una vena melodica ricca di ornamenti quasi barocchi. Foxx straborda di idee distanti da quel sentore, voglioso piuttosto di andare a rivedere la formula del rock sintetico scomponendone gli orpelli elettronici ai minimi termini. Questo background, aggiunto alla timidezza e alla poca voglia di essere costretto a vivere "la vita del musicista di successo" lo porta in primis ad abbandonare la band, e poi a "ritirarsi" in solitudine per realizzare quello che sarà il suo debutto da solista, nonché un'opera straordinaria e di enorme importanza sulla scena musicale. "Metamatic", ovvero un gioco di parole che può suonare come "oltre la matematica", forse uno dei pochi album a poter vantare uno stampo in tutto e per tutto di carattere futurista. Tornano alla mente le sue parole, quando diceva che la sua missione è scavare nel presente per recuperare quanto c'è di più nascosto. E il dettame pare applicato al meglio in quest'album, contemporaneo all'esplosione del synth-pop ma così distante e fuori dal coro. Dal romanticismo siamo così giunti al decadentismo. Dall'uomo alla macchina: Metamatic sarà il primo e unico parto del Foxx androide nella prima metà della sua carriera.

Atto III - Metamatic e la saturazione artificiale

Mentre realizzavo 'Metamatic', credo di aver letto un po' troppo di J.G Ballard. Il risultato fu che iniziai a immaginare di essere il Marcel Duchamp dell'elettropop.

Quel che volevo con 'Metamatic' era eliminare tutte le decorazioni dei tre album degli Ultravox e arrivare all'essenziale, a un elettronica di suoni puliti, minimali, quasi gelidi. Ho trasferito il tutto nel pop inglese e... la gente pare aver apprezzato quel sound solo grazie a Gary Numan. Poi è tornata ai prodromi, e lì ci siamo io, Eno e i Kraftwerk.

John FoxxFoxx affida a queste parole il sentimento portatore del suo primo album, e spiega le ragioni della collocazione di questo fuori da qualsiasi scena. È il 1980, è l'anno di Metamatic. Ma è anche l'anno della definitiva esplosione della romantic-wave, con il già citato "Vienna" dei "nuovi" Ultravox e, soprattutto, quell'apice che ne fu "Gentlemen Take Polaroids" dei Japan di David Sylvian. Con "Grotesque" dei Fall il post-punk raggiunge forse la sua meta migliore, mentre il dark-punk si esibisce nella sua versione più esistenzialista con i Joy Division e il loro "Closer", in quella più orrorifica grazie a "In The Flat Field" dei Bauhaus. Un anno, di nuovo, ricchissimo quindi. Ma i riferimenti che si aggregano nel disco vanno ricercati, invece, nel passato recente. Innanzitutto, il sintetizzatore è il nuovo mezzo sfruttato: addio al rock, a chitarra e basso, nonché addio a quell'umanità che, insieme a Currie, aveva indirizzato il sound degli Ultravox. Dentro sintetizzatori e drum machine e fuori, infine, ogni singola forma di romanticismo, ogni rimando barocco, ogni traccia umana. È una sinfonia macchinale, il trionfo della tecnologia, l'esaltazione della macchina sull'uomo. Non particolarmente distante da quel che i Kraftwerk, due anni prima, avevano teorizzato con "The Man Machine": ma se questo era un concept-album su robot e tecnologia, Metamatic si astrae dalla dimensione materiale, tanto da risultare una vera e propria raccolta di psicodrammi sui problemi relazionali del genere umano.
Dal punto di vista musicale, ritroviamo tutti i canoni del synth-pop kraftwerkiano: martellanti e metallici pattern ritmici, fluide distese melodicho-sintetiche, che qui però fanno i conti con un'atmosfera obliqua e sinistra. Foxx si produce in vocals fredde e distaccate, prive di emozioni, artificiali e raggelanti. Le sue "macchine" lo seguono, lo accompagnano lungo tutti i dieci brani, ma non c'è contatto emotivo nemmeno fra di loro: è un dialogo asettico, in cui tutto è programmato e stabilito in partenza. Il tono sinistro che pervade l'album non va quindi interpretato come un'accezione dark, ma solo come un'oscurità trasmessa all'ascoltatore dalla mancanza di ogni elemento emozionale. È un'evoluzione, musicale e concettuale, senza precedenti.
Così "Plaza" dà il via lobotomizzando l'ascoltatore, con un canto sinistro e angoscioso in apparenza, in realtà per niente sentito, circondato da un drappello di suoni sintetici, drum machine e obliqui pattern da iperspazio. "He's A Liquid" ne mantiene la raggelante distanza, è una disamina sulla fluidità (eccessiva?) dei rapporti fra gli esseri umani, analizzata con distacco e obiettività da un osservatore temporaneamente esterno, accompagnato da un incedere melodico dinamico nella sua inquieta staticità. Il capolavoro nel capolavoro, il brano in grado di rappresentare il futurismo in musica al meglio è però "Underpass", una vera e propria pop song distorta e risucchiata in un vortice robotico, quello che negli anni 80 si poteva figurare come il pop del nuovo millennio, quello delle macchine e della tecnologia, nonché vertice formale dell'applicazione in esso dell'elemento sintetico.
Il ritmo preciso e impeccabile di "Metal Beat" va a rappresentare, fra lamenti provenienti direttamente dal futuro e battiti metallici di analoga origine, lo scandire del "nuovo tempo", il tempo della metropoli tecnologica, vicinissimo a quel che era "Metal On Metal" in "Trans-Europe Express". Il pezzo più "umano" del lotto è forse "No-One Driving", un motion picture di evocazioni su un presente ormai deprecato, languida melodia decadente con un cantato critico e rassegnato. Altro episodio fondamentale è "A New Kind Of Man": se "Metal Beat" era l'inno del "nuovo tempo", questi ne rappresenta un corrispondente per l'"uomo nuovo", costretto non più a lasciarsi condizionare dalle emozioni ma votato esclusivamente all'essere parte del meccanismo della modernità, nuovamente dall'interno di un impalcatura robotica a tratti scoperta da una melodia meta-spaziale. Ma voler pensare a Foxx come a un teorizzatore e sostenitore di tutte queste idee sarebbe errato: egli vi si pone esclusivamente come voce narrante, non si sbilancia, esalta l'aspetto musicale e ne fonde le conseguenze di vita, ma, fedele alla stessa linea ed immedesimandosi nell'epopea che descrive, non prende posizione alcuna a riguardo. È interprete e attore di tali idee, non regista né sceneggiatore.
"Blurred Girl", idealmente ambientata nell'iperspazio, supera la dimensione terrena dell'astrazione artificiale, grazie a parti vocali intangibili e lontane e a una distesa di sintetiche e metafisiche synth-line: dall'universo Foxx ricorda il passato umano, e tratta così di amore e sentimenti, tornando, per un attimo, ai tempi degli Ultravox. "030" è una sorta d'inchino, dove il Nostro riprende le linee ritmiche di "Plaza" costruendovi però un'astrale filastrocca interpretata vocalmente à-la-Brian Eno. La marcia elettro-esotica di "Tidal Wave" glissa l'album in una dimensione priva di coordinate spaziali e temporali, prima che la conclusiva "Touch And Go" si esuli, sintetizzando passato (punk e glam), presente (new wave e romanticismo rock) e la vena futuristica del disco e rappresentando contemporaneamente l'unica memoria dei trascorsi ultravoxiani: si tratta, infatti, della metà glaciale di "Mr. X", che apparirà nella tracklist di "Vienna" (il brano fu composto a quattro mani Foxx e Currie e poi si decise che entrambi avrebbero potuto utilizzarlo cambiandone l'arrangiamento) e che la band aveva già portato in tour poco prima dell'uscita del leader (assieme anche a "He's A Liquid").
"Mr. X", appunto, ovvero la prova inconfutabile dell'importanza di Metamatic. Perché se Brian Eno con "Before And After Science" aveva dato luce a un trattato formalmente impeccabile della new wave, a un modello che tutti, Foxx per primo, avrebbero seguito da lì in poi, il debutto di Foxx ricopre lo stesso ruolo nell'ambito del synth-pop: è il suo apice formale, quello dove la saturazione elettronica è totale ma non onniscente, come ad esempio nei Kraftwerk, rispetto a quella della pop song.

A pochi mesi dall'album la Virgin pubblica l'Ep Burning Car, primo crocevia verso la strada che Foxx imboccherà un anno più tardi nel suo secondo lavoro solista. Se, infatti, l'industrial meccanico della title track e i salti in rotazione della bellissima "20th Century" ne rivelano la natura di puri outtake, la struggente "Miles Away" rivela già i primissimi indizi riguardo il futuro prossimo: pur mantenendo un'ossatura ritmico-sonora essenziale e misurata, lo strabordare della melodia e la voce - finalmente quasi "pura" - di Foxx riconducono per un attimo al romanticismo di Systems Of Romance, che sarà una delle caratteristiche più evidenti di The Garden, di cui il brano farà parte.

Atto IV - Ritorno alla dimensione umana

C'è stato un processo di affinamento in me. Con 'The Garden' ho smesso di essere cinico nel senso esteriore del termine: 'Metamatic' era un disco freddo, minimale, la ricerca di una bellezza fredda. Con 'The Garden' mi sono accorto che tutto ciò non mi serviva più, ero alla ricerca di una forma di bellezza più umana.

John FoxxLa disamina sul capolavoro Metamatic manca, probabilmente, di un approfondimento su un dato fondamentale: questo sarà un episodio destinato a restare isolato per molto tempo nella carriera di Foxx. Solo nei progetti degli anni 90 e Duemila, come le collaborazioni con Louis Gordon e Benge (The Maths), questi tornerà a varcare le porte dell'elettronica algida e futurista del suo primo lavoro, senza raggiungere un livello così alto (e pertanto praticamente irripetibile), ma ottenendo ad ogni modo degli ottimi risultati. Così, dopo aver aggiornato la concezione di synth-pop in precursione, Foxx si isola nuovamente per dare vita al secondo capitolo della sua carriera. Ma lo spirito che anima questo nuovo lavoro è completamente diverso da quello che caratterizzava il predecessore: laddove in quell'album Foxx era attore protagonista di un trattato sul futurismo applicato alla musica, in The Garden l'autore si spoglia completamente di ogni intento concettuale, lasciando fuoriuscire il lato più intimo e pastorale della sua vena creativa. Secondo taluni, nel disco vi è un notevole influsso religioso, dovuto a una presunta fede cattolica che lo stesso Foxx smentisce: "Ma non è assolutamente così - spiega - semmai possiamo dire mistico. Ma non m'interessa molto la religione, penso abbia a che fare con il mondo del potere e della politica".

Non per questo si assiste a una rinuncia alle sonorità elettroniche: The Garden non rinnega né abbandona le evoluzioni elettroniche, e tantomeno dimentica il trascorso ultravoxiano (vi sono addirittura alcune outtake di Systems Of Romance), vertendo piuttosto sull'applicazione di questi elementi al lato più intimo e, per certi versi, sommesso dell'artista. Il risultato è una sorta di contraltare al precedente capolavoro: l'artificiale in Metamatic, il naturale in The Garden. Questo è già evidente dalla spiazzante apertura di "Europe After The Rain", ballata per drum machine e chitarra acustica dal tono malinconico: laddove prima lo sguardo era al futuro, qui Foxx si focalizza sul presente in non-evoluzione, non senza un filo di nostalgia e di speranza. "Systems Of Romance" è il primo, vero rimando al sound della ex-band: outtake dell'omonimo album che vive però di luce propria, come se la scelta fosse stata quella di preservarlo dall'apoteosi romantica per riproporlo in una salsa diversa, votata piuttosto alla libera apertura e con un forte influsso delle intuizioni elettroniche. Di stampo più intimista è invece la successiva "When I Was A Man And You Were A Woman", dove il cantato abbandona in via definitiva l'algida formalità artificiale per abbracciare una sentita interpretazione, circondato in maniera contrastante da un clima obliquo e minaccioso.
L'esperienza elettronica ritorna in primo piano nel sintetico incedere di "Dancing Like A Gun", prima che la vetta della ricerca spirituale venga raggiunta con "Pater Noster", una liturgia eseguita con l'ausilio dello human host, strumento inventato da Foxx assemblando uno dei primissimi modelli di vocoder con filtri sonori. Il brano sarà punto di partenza di una ricerca che questi riprenderà nella seconda fase della sua carriera, con l'ideale punto d'arrivo nel progetto Cathedral Oceans.
L'inquieta marcia di "Night Suit" su un'oscura base metallica ripropone i gelidi canoni del recente passato in una veste spiccatamente emotiva: il Foxx-robot si sveste dalla corazza, mostrando il proprio più profondo lato interiore. Sulla stessa scia procede "You Were There", nella quale l'oscurità si fa tragedia, con la voce che acquisisce un'espressione potente e drammatica, lasciando indietro le gelide vocals à-la-Eno e tornando, per un attimo, ai tempi di "I Want To Be A Machine". La tecnologia è di nuovo tema caro a Foxx, che lo affronta in "Fusion/Fission" attraverso una cornice spensierata in superficie a nascondere l'anima mistica, che affiora però quasi impercettibili canti gregoriani del finale. In "Walk Away", anch'esso proveniente dalle sessions di Systems Of Romance, l'artista si concede di nuovo uno sguardo nostalgico verso il passato, prima che la conclusiva title track si esuli nella solitudine di una quiete esoterica e quasi ambientale: il sintetico si riappacifica con l'acustico, l'oscuro con il terreno, il progresso con le radici. Il tutto in sette minuti di distesa estatica per sintetizzatori e voce trattata, dove le due anime, pastorale e futurista, che convivono nel Nostro, raggiungono la simbiosi, dando vita a uno dei brani più suggestivi della sua produzione.

The Garden
è l'altra faccia di John Foxx, quella umana e parzialmente fuoriuscita negli Ultravox, totalmente oscurata in Metamatic. Benché privo della caratura innovativa e delle seminali intuizioni del suo predecessore, si tratta nuovamente di un risultato straordinario, la confessione terrena ed emotiva del suo creatore e, col senno di poi, un caleidoscopio di stili e sentieri che lo stesso approfondirà in vari episodi successivi.

Atto V - Alla ricerca della "normalità"

Posso essere d'accordo sulla definizione di popular, ma Dio, ditemi tutto tranne che suoni da Ultravox. È semmai in 'Quartet', che ancora ci sono le mie intuizioni, le stesse che animarono i primi tre capitoli del gruppo.

John FoxxQuella sul Foxx essere umano è forse una delle ricerche più complesse nel contesto di un'analisi del personaggio. "Siamo umani, non robot" affermava presentando The Golden Section, suo terzo album in studio. Districate e spesso contrastanti sono infatti, nella sua carriera, le sue rincorse a determinati obiettivi. Se la sua attività con gli Ultravox può essere considerata la forma più "genuina" della sua espressione e Metamatic ne rappresenta la via più sperimentale e concettuale, già in The Garden affiora un elemento nuovo, in precedenza mai rivelato: una ricerca volta quantomai ad elementi "umani", quali il successo e la notorietà, conditi anche, come testimoniato dalle dichiarazioni precedenti, da una certa voglia di rivalsa nei confronti degli ex-compagni, rei di avere riscosso successo sfruttando in gran parte le sue intuizioni.
Ci troviamo nell'anno 1983, quello in cui gran parte di quei gruppi protagonisti della new wave di fine '70 raggiungono la massima profondità del loro inchino alla potenza commerciale del synth-pop, che sfocerà presto nella dance: è il caso, per esempio, dei Soft Cell con "The Art Of Falling Apart", ma anche di artisti provenienti da ambiti diversi, come Mike Oldfield con il bellissimo "Crises" (trascinato dal tormentone "Moonlight Shadow") e della nuova incarnazione dei Joy Division, i New Order, che partoriranno uno dei capitoli più fini e ricercati del pop stesso con "Power, Corruption & Lies".

In quest'ambito, quello stesso musicista che, percorrendo controcorrente le tendenze del momento, aveva dato vita a un disco così essenziale da risultare fra i più d'élite del periodo, ci presenta il suo lato più intimo al completo, comprensivo anche di questo nuovo, silenzioso desiderio, che ad ogni modo nel secondo lavoro si poneva ancora come indizio, sussurro destinato ad ampliarsi progressivamente e ad acquisire volume. Ed è proprio da questo desiderio che prenderanno forma - in parte il primo, in toto il secondo - i due lavori successivi, gli unici in cui, progressivamente, la ricerca del successo commerciale diverrà uno degli elementi più importanti negli intenti del musicista. Una buona sintesi di questa sua doppia anima la offre egli stesso: "Per me è assai stupido vivere una vita da rock'n'roll, la trovo una dissipazione di energia. Preferisco proseguire nel fare musica, starmene ogni tanto da solo per un po' e poi, quando ne ho voglia, suonare dal vivo".

Devono trascorrere due anni prima che Foxx - reduce da una presunta (e confermata da lui stesso) partecipazione alla colonna sonora del film "Identificazione di una donna" di Michelangelo Antonioni - dia alle stampe il suo quarto lavoro: The Golden Section è il disco più eclettico, più variegato e ricco di influenze di John Foxx, il suo primo vero album pop e uno dei risultati più sofisticati e variopinti del genere. Il primo rinnovamento cui si assiste riguarda la strumentazione: al confermato connubio di synth, drum machine e strumenti acustici, si aggiungono vocoder e campionatore, con quest'ultimo in particolare in costante espansione nella scena musicale del periodo (basti citare Jean Michel Jarre e il suo "Zoolook", di un anno successivo, vero e proprio "inno al sampler").
Nella materia musicale, però, l'album segna un parziale riavvicinamento all'egemonia robotica, e un sostanziale e deciso distanziamento dalle atmosfere romantiche: il synth-pop ritorna a essere padrone, levigato qua e là da rimandi a quei mondi musicali con cui Foxx crebbe in gioventù, riprendendo i suoni e le innovazioni teorizzate nel primo lavoro e aggiungendole alla miscela. Lo stesso Foxx conferma: "'The Golden Section' fu probabilmente il mio lavoro più variegato: dentro c'è davvero di tutto, è una raccolta delle mie radici: la psichedelia e la musica da chiesa, i Beatles e gli Shadows, i Floyd e i Velvet, Roy Orbison, i Kraftwerk e l'europop". Aggiungendo alla già vasta ricetta la produzione del guru kraut Zeus B. Held, l'album si presenta come una sorta di ponte tra i due predecessori, e contemporaneamente come il primo, vero tentativo di Foxx di dar vita a brani con potenziale commerciale.

Manifesto di questa nuova mutazione è già l'iniziale "My Wild Love", conciliazione tra un ritmo meccanico e una melodia immediata e orecchiabile. I primi, veri, prodotti di stampo pop sono però "Your Dress", "Running Across Thin Ice With Tigers" e "Sitting At The Edge Of The World": la prima cavalca una melodia dolce e, quasi, romantica; la seconda e la terza, entrambe di evidente ispirazione beatlesiana ("Sitting At The Edge Of The World" contiene un campione di "Strawberry Fields Forever"), sono probabilmente i veri due anthem dell'album, dall'incedere sfarzoso e sostenuto, che non rinunciano però a una complessa stratificazione sonora, dove il sostrato elettronico s'intreccia con il patinato incedere delle drum machine, il puro e lancinante sfruttamento della chitarra e una voce costretta a districarsi fra i più svariati trattamenti.
L'episodio più indicativo dell'intero disco e del suo intento di massa è però "Endlessly", vivace e coloratissima pop song dalla notevole sensibilità melodica, non distante dai contemporanei lavori degli ex-compagni Ultravox, la cui versione primordiale era uscita un anno prima come singolo. La vena psichedelica è l'ingrediente principale, invece, di "Someone" e "The Hidden Man", con quest'ultima presentante inoltre un solo di synth chiaramente ispirato allo stile di Billy Currie, mentre episodi più vicini al passato sono "Like A Miracle", una litania dimessa e placida risalente alle sessions di Metamatic, e "Ghosts On Water", distorto caleidoscopio con l'ennesimo riferimento ai Beatles (il pattern di batteria è ripreso da "Tomorrow Never Knows"). La conclusiva "Twilight's Last Gleaming" - l'unica traccia sotto la produzione di Mike Howlett, ex-Gong e in precedenza al lavoro con i Police - è forse invece l'unico episodio in totale distacco dagli altri: un lento e oscuro serpentone dai richiami fortemente psichedelici, dove la vivace vena pop pare spegnersi per lasciar spazio alla desolazione.

Lo scienziato-androide in grado di musicare la rivoluzione tecnologico-futuristica prima, mutatosi poi in cantore della tradizione e della decadenza europea, diviene artigiano capace di miscelare i suoi trascorsi - sia in ambito di ascolti e passioni giovanili sia di esperienze musicali - e la nascente voglia di riscuotere successo, dando vita con tale formula a un synth-pop raffinato e multiforme. Un risultato, quello della sua terza fatica, ancora una volta di ottima qualità. Benché non in grado di pareggiare i precedenti due capolavori, The Golden Section è lavoro profondamente ricercato: ciò nonostante, le speranze di Foxx di riuscire a riunire qualità e successo commerciale vengono deluse dalla pallida accoglienza che il pubblico riserva all'album, che riesce a raggiungere solo una modesta ventisettesima posizione nelle classifiche britanniche, al pari dei tre singoli estratti, la cui prestazione migliore fu il sessantunesimo posto di "Your Dress". Ed è forse proprio la delusione per l'ennesimo successo di critica privo di riscontro commerciale che spinge Foxx a impegnare tutte le sue energie esclusivamente nel secondo versante, rinunciando all'idea di conquistare il mercato con la qualità e la raffinatezza. Ed è così che il capitolo successivo della sua saga prenderà le forme di un maldestro tentativo di conquistare il mercato rinunciando al lato artistico e a qualsiasi forma di ricerca: non arriverà la sperata conquista, bensì il peggior risultato della sua intera carriera.

Da cyborg del futuro a comune mortale

Seppur ancora vicino ai fasti dei suoi due predecessori e non eccessivamente distante da questi per qualità, The Golden Section non può che suonare come una dichiarazione d'intenti da parte di Foxx, un fragoroso campanello d'allarme per il prosieguo della sua attività. Come può, infatti, un futurista rifugiarsi nel passato delle sue radici? The Garden, in tal senso, poteva già considerarsi un parziale ritorno al passato, ma le origini cui si aggrappava erano quelle culturali e storiche: l'Europa, la decadenza, il misticismo religioso. Nel suo terzo parto, questi decide invece di ripescare dal passato più strettamente musicale, addirittura da quelle che furono le forme musicali con cui crebbe. E tale scelta non può certo essere vista come il tentativo di adattare anche quelle forme alla rivoluzione futurista: l'apporto di tali innovazioni è infatti presente nella formula dell'album in egual quantità alle restanti influenze, e collocato sullo stesso piano anziché come base alla quale adattare il "nuovo corso". E se tali elementi non potevano essere ancora considerati sinonimi di crisi nell'album, lo diverranno a tutti gli effetti nel disco successivo, quell'In Mysterious Ways che sarà l'epitaffio della sua prima metà di carriera. In tutti i sensi, nel Foxx di metà anni 80 è l'animo umano a prevalere, a discapito di quella fredda matrice analitica in grado di identificare un androide nell'autore di Metamatic.

E il "nuovo" Foxx prosegue la sua personale evoluzione decidendo di imbarcarsi, dopo l'uscita di The Golden Section, nel suo primo tour da solista, con anche due date italiane a Roma e Milano, accompagnato, fra gli altri, da Robin Simon, influente chitarrista degli Ultravox di Systems Of Romance. "Semplicemente mi è tornata voglia di suonare dal vivo. Dopo le registrazioni di 'The Golden Section' ho capito che il semplice processo di registrare, suonare e dare la mia voce mi aveva coinvolto al punto tale da suscitarmi la voglia di riproporlo dal vivo". Con queste parole, al termine proprio del concerto romano, spiega la scelta di tornare a esibirsi: una scelta che è però ulteriore indizio del cambiamento interiore che si sta facendo forza sempre più, mosso in particolare dalla delusione e dalla frustrazione per l'assenza di quella fama che qualche anno prima aveva raggiunto e conquistato gran parte di quei contemporanei a lui debitori, dagli Ultravox di Midge Ure a Gary Numan. Cambiamento che porterà a prevalere in lui il desiderio di raggiungere quel successo rispetto a tutti gli altri ambiti, siano essi la ricerca dell'essenza artificiale, delle proprie radici o dell'equilibrio citazionista. E sarà questo il principio fondante del quarto e a lungo ultimo capitolo della sua saga.

Atto VI - Il suicidio dell'uomo-Foxx

John FoxxTrascorrono due anni ancora, durante i quali Foxx, oltre a essere impegnato in tour - grazie al quale riprende un certo contatto con il pubblico - inizia, guardandosi attorno, a maturare la decisione di provare a "lanciarsi" nel mainstream in maniera totale, completando così in definitiva quel processo già avviato parzialmente in The Golden Section. E probabilmente è questa la causa principale della svolta che caratterizza In Mysterious Ways, il suo quarto album in studio. Se c'è un aggettivo che descrive al meglio il sound dell'album, questo è senz'alcun dubbio "spiazzante": non v'è traccia delle spigolosità futuriste né della decadenza romatica o dell'ibrido fra radici e campionamenti. Al loro posto, un interesse mai così forte per le melodie semplici e orecchiabili, l'implementazione di strumenti come la chitarra acustica e il sax e, soprattutto, l'esclusione del campionatore e del vocoder recenti protagonisti; il tutto in esecuzione di composizioni di puro pop, nemmeno troppo sintetico, dal sapore british e infarcito di cori femminili.
Si tratta dell'antitesi più totale, di un ripudio quasi blasfemo verso tutto quel che fu il percorso artistico del Nostro: uno sguardo musicale incapace di volgersi né verso il passato (se non per una certa, ennesima tendenza all'ispirazione melodica beatlesiana) né verso il presente - quasi nulli i riferimenti al contemporaneo synth-pop - e il futuro.
Quel che nasce da un simile background è una raccolta di canzoni pop per la gran parte scontate e spocchiose, ben rappresentate dall'opener "Stars On Fire" (quasi un riciclo del Lou Reed di "Sally Can't Dance"), dal plastico crooning di "Shine On", dal sommesso e mesto inchino della title track e, soprattutto, dal blues "The Side Of Paradise". Ma il risultato più basso arriva con "Stepping Softly", un mieloso e malriuscito tentativo amoroso-emotivo e forse il peggior brano mai scritto da Foxx. Nell'apocalittico scenario, a salvarsi almeno in parte sono solo il nostalgico e pompato inno di "Lose All Sense Of Time" in cui gli Ultravox del presente e del passato si incrociano con i Soft Cell più scontati senza però fondersi con particolare originalità, e le due metà di "Enter The Angel", veri unici due episodi meritevoli, grazie a una commistione tra ritmo e melodia finalmente azzeccata, agli "angelici" cori femminili nella prima e a un ritorno - comunque privo delle stesse suggestioni - al clima nostalgico e pastorale della title track di The Garden nella seconda.

In Mysterious Ways è l'epitaffio suicida dell'uomo-Foxx, ormai totale dominatore a discapito della sua metà robotica. Un album nato senza alcun intento artistico né musicale, se non la ricerca del successo, e morto per giunta senza il raggiungimento del suo unico obiettivo: commercialmente, infatti, l'album ottiene un risultato addirittura inferiore a quello di The Golden Section, fallendo l'ingresso nelle classifiche britanniche, nonostante la (comunque ridotta) popolarità conquistata dal singolo "Stars On Fire". Ed è probabilmente l'ennesimo fallimento a produrre nel musicista la decisione di abbandonare - temporaneamente col senno di poi - la scena musicale, e provare a ricostruire da capo la sua carriera. 
È il 1985 e sulle ceneri di In Mysterious Ways, John Foxx si allontana apparentemente a testa bassa dal mondo della musica. Nessuno ancora immagina quanto tarderà il suo rientro, né tantomeno come riuscirà a riprendere in mano la sua storia esattamente da dove l'aveva lasciata, ripartendo però con tutt'altri obiettivi, ambizioni e un'enorme prolificità.

Dodici anni nell'ombra

Per molto tempo non ho pubblicato niente, è vero, ma stavo sempre scrivendo, per cui avevo già concepito parte del materiale che ho usato per questi album.

John FoxxNon una parola di più usata da Foxx per giustificare una pausa della durata di ben dodici anni, ovvero quelli che intercorrono tra l'uscita di In Mysterious Ways e quella dei due album che segneranno il suo ritorno. Un silenzio il cui significato può essere però interpretato seguendo una logica piuttosto evidente: una pausa di riflessione, nel vero senso della parola. Uno stop auto-imposto, durante il quale, con tutta probabilità, Foxx si è trovato a dover fare i conti con il madornale errore compiuto nel suo ultimo lavoro: aver sacrificato la sua arte senza essere stato capace di trarne la benché minima ricompensa. Difficile, infatti, riuscire a concepire in altra maniera le ragioni che possono aver condotto un musicista fino a quel momento in grado di innovare e rinnovare ad arrotolarsi su se stesso e produrre un lavoro così distante da tali concetti e così difficilmente conciliabile con il suo percorso artistico, sia precedente che successivo. A ciò si aggiunge, a moltiplicare lo smacco, il clamoroso insuccesso del disco, notevolmente inferiore a tutti i suoi predecessori: l'arduo sacrificio di accantonare sperimentazione e ricerca avrebbe dovuto garantirgli, in cambio, un vero e proprio exploit di vendite; ma con l'assenza di quest'ultimo elemento, tale sacrificio è risultato per lo stesso un vero e proprio suicidio, dal quale riuscirà a riprendersi grazie al temporaneo distacco dal mondo della musica. Distacco che lo porterà a dedicarsi ad altre attività da sempre amate - prima fra tutte la fotografia, sua seconda passione che sfogherà lavorando agli artwork di molti suoi album e persino, nel 2001, di "Lightbulb Sun" dei Porcupine Tree - e a riflettere sul da farsi.
Riflessione, dunque. L'uomo-Foxx che s'interroga e risponde, che decide e riprende in mano le sue redini, che s'impossessa del Foxx-androide, lo smonta, lo ri-assembla e ne il prende controllo. Riflessione che porta con sé consiglio, e gli permette di ripartire praticamente da capo, senza dimenticare i gloriosi fasti del passato ma senza nemmeno ancorarvisi. Riflessione che lo traina in ambienti nuovi, mai esplorati in precedenza (salvo sporadiche avvisaglie), ma anche in prosecuzioni delle ricerche già avviate in passato. Riflessione che dividerà la sua vena artistica in particelle, ciascuna capace di brillare di luce propria e di sussistere autonomamente. Riflessione, infine: elemento la cui importanza ci verrà rivelata dallo stesso musicista, in maniera silenziosa e quasi fittizia, grazie al sorprendente sound di uno dei due album che segneranno il suo ritorno sulle scene e al background della sua gestazione: la cattedrale, luogo di riflessione spirituale per eccellenza.

La seconda vita artistica di Foxx sarà caratterizzata da una produzione vastissima che si separerà, come già anticipato, fra più ambiti solcati in parallelo: lo stesso schema verrà seguito nel prosieguo del racconto, che tratterà dunque una "tematica" alla volta.

Il ritorno

Dodici anni sono trascorsi dall'abbandono. Un silenzio interrotto solo da una brevissima parentesi per due singoli pubblicati assieme al dj Tim Simenon con il moniker di Nation 12 nel 1989, composti nel tentativo di cavalcare il trend dell'acid-house - genere nato poco prima negli States e importato in Inghilterra grazie all'opera di Paul Oakenfold e ad alcune ritmiche del sorprendente album d'esordio di Neneh Cherry, futura musa del trip-hop. Ma la mediocre qualità e l'ancora una volta risicato successo dei primi esperimenti portano alla chiusura anticipata del progetto e alla cancellazione del previsto album di esordio, Electrofear, che vedrà la luce solo nel 2008 all'interno del cofanetto Cinemascope (dopo l'uscita sotto forma di bootleg limitato a cinquecento copie tre anni prima).

Il vero rientro avviene così ben otto anni dopo. È il 24 marzo 1997, e John Foxx si ripresenta sulle scene. Lo fa con un'operazione che porta con sé contemporaneamente un ritorno alle origini e un'inattesa, nuova svolta: due album usciti in contemporanea, nello stesso giorno; uno solista e uno in collaborazione con Louis Gordon, che verrà approfondito successivamente. Due album usciti per una nuova casa discografica, fondata e appartenente allo stesso Foxx e denominata Metamatic Records - con ovvio riferimento al suo primo, grande lavoro - che diverrà rampa di lancio di quasi tutti i suoi progetti.
Riflessione, si diceva: il termine che più si addice alla pura ambient music di Cathedral Oceans. Ricalco, definizione invece quanto mai più corretta per il contraltare Shifting City, dove egli riprende in mano i panni dell'androide essenzialista aggiornando al sound odierno le innovazioni di Metamatic. E proprio queste saranno due delle incarnazioni del nuovo Foxx, due delle pelli che vestirà, alternandole a un ulteriore percorso votato all'approfondimento del lato "mistico" della sua musica.
 
Atto VII - Dal giardino alla cattedrale

Il progetto di 'Cathedral Oceans' prosegue da molti anni, tanto che avevo registrato parecchio materiale, per circa sei album, direi. Originariamente è tutto cominciato a Milano, nel Duomo di Milano. La prima volta che entrai nella cattedrale mi resi conto di non esserci mai stato prima di allora, ma l'acustica e l'architettura erano così suggestive che diedero l'ispirazione per realizzare molte idee alle quali pensavo fin da quando ero ragazzino.

John FoxxCon queste parole Foxx spiega la nascita e la gestazione di Cathedral Oceans, il suo primo parto ambientale, nonché iniziale capitolo di una saga che proseguirà con due sequel negli anni a venire. Nelle undici, sublimi "cattedrali oceaniche" non troviamo quasi nulla del sound dei trascorsi (solo "Enter The Angel II" - chiusura di In Mysterious Ways e suo miglior brano - e la title track di The Garden potevano dirsi vicine ad atmosfere ambient, mentre per risalire a tematiche "religiose" bisogna tornare a "Pater Noster", dello stesso album) né vi sono rimandi alle forme musicali attraversate in precedenza. Si tratta piuttosto di soffici ed eterei notturni, legati assieme da un flusso stabile e costante e da parecchi rimandi alla musica da chiesa, vera fonte d'ispirazione per l'intero lavoro.
La voce di Foxx è per la prima volta utilizzata come puro strumento musicale, eco lontana che si aggiunge a uno strato sonoro di riverberi, tassello di un puzzle uniforme e conciso. I riferimenti primi sono senza dubbio la scena californiana di Steve Roach e Michael Stearns - debitori della musica cosmica e dell'ambient di Brian Eno - e il minimalismo mistico di Forrest Fang, Robert Rich e, soprattutto, Alio Die, nonché del "maestro" Harold Budd.
Nei sussurri spiritati e ombrosi della title track e di "Through Summer Rooms" si nascondono sprazzi luminosi e solari, che si esprimono fuoriuscendo dapprima con discrezione nelle fessure di "Geometry And Coincidence" e "Invisible Architechture", e poi con forza e vigore, specie quando la voce si unisce al coro. "If Only..." funge da ponte tra malinconia e misticismo, con quest'ultimo che si appropria della materia musicale nei cori gregoriani di "Shifting Perspective", nello scorrere limpido di "Floating Islands", nei confini dilatati di "Infinite In All Directions" per poi esplodere nel crescendo corale di "Sunset Rising". E se "Avenham Collonade" si districa tra saliscendi dronici meccanizzando le suggestioni, "City As Memory" si pone come sorta di trait d'union con il passato concettuale, mantenendo comunque la medesima distanza musicale: quella città che in Metamatic era all'avanguardia, fra nuove tipologie di uomini e suoni dal futuro, pare ora allontanarsi sempre più, soccombere all'evoluzione del tempo. E il saluto che Foxx le riserva è languido ma non dimesso, malinconico ma mai triste: è un arrivederci, non un addio.
Cathedral Oceans è un ritorno inaspettato ma quantomai logico, dove Foxx si spoglia nuovamente, come già aveva fatto con The Garden; ma se l'intimità da lui mostrata in quel lavoro era riassumibile nell'allegoria del titolo, come un viaggio nel giardino delle sue radici, delle sue passioni e dei suoi sogni, quella proposta in questo nuovo album regala invece fotografie legate al pensiero puro tanto quanto all'immaginazione e alla riflessione, elementi caratteristici degli anni di silenzio. E di questi ultimi si pone come descrizione, quella stessa descrizione che continuerà a rifiutare di esporre verbalmente.
Primo tassello di un percorso, è album introverso e sincero: essenziale come l'elettronica del contemporaneo Shifting City, ma suggestivo e visionario al punto tale da avere poco da invidiare ai parti migliori dei magnati di cui è discepolo.

Dopo la spiazzante "combo" del suo ritorno, Foxx lascia passare altri sei anni prima di pubblicare un nuovo lavoro. È il 2003 ed arriva Cathedral Oceans II: da quel momento in poi, il musicista inizierà a saturare il mercato, arrivando a sfornare, fra progetti solisti, collaborazioni e album al fianco di Louis Gordon un numero elevatissimo di lavori. Rispetto al suo predecessore, il disco si caratterizza per una maggior sobrietà negli arrangiamenti: le pulsioni si riducono così come gli strati sonori, le visioni paradisiache si trasformano in squarci sommessi e ombrosi e i cori angelici ed eterei in preghiere solitarie. Ancor più che nel primo capitolo, la church-music è elemento centrale del progetto: l'arcano rosario di "Ad Infinitum", la liturgia esasperata di "Golden Green" e le invocazioni malinconiche di "Shimmer Symmetry" e "Return To A Place Of Remember Beauty" ne sono dirette testimonianze, tanto da far risaltare l'unione tra la Constance Demby di "Sanctum Sanctuorum" e il Vidna Obmana più isolazionista. Quest'ultimo procede invece in solitaria nei desertici silenzi di "Far And Wide 2" e "Visible And Invisible", mentre il ciclo dronico di "Stillness And Wonder" vira verso le astrazioni minimali del Paul Sauvanet di "Eleusis".

Puntando la lente d'ingrandimento su un processo di scarnificazione del flusso sonoro e sulla ricerca "mistica", Cathedral Oceans II è lavoro decisamente più dimesso e meno immediato del precedente, che soffre rispetto a questi di una minor carica emotiva, finendo spesso per eccedere nell'anteporre la ricerca acustica alla naturalezza delle composizioni. Ciò nonostante, l'album conferma la grande abilità di Foxx nell'evocare tramite il mezzo ambientale le suggestioni mistiche della musica da chiesa.

Ma la punta di diamante del suo percorso ambientale arriva quasi contemporaneamente in collaborazione con Harold Budd nell'uno-due di Translucence/Drift Music, due album pubblicati assieme come diverse facce di una stessa medaglia.

Delle due metà, Translucence è di sicuro la più affine al linguaggio del "maestro", che attraversa lidi paradisiaci nei dodici gioielli che la compongono. Gran parte dei brani è figlia del primo Budd, il pianista languido e aggraziato delle collaborazioni con Brian Eno: la soffice "Spoken Roses", la limpida "Adult" e la levigata e malinconica "Here And Now" riportano direttamente alle accademiche tele di "The Plateaux Of Mirror", mentre la mimetica "Long Light", la sinistra "A Change In The Weather" e la silenziosa sinfonia di "Implicit" si rifanno maggiormente a "The Pearl" e alle sue trame emotive.
Sebbene in questo primo capitolo la supremazia di Budd sia marcata, l'apporto di Foxx fuoriesce silenziosamente nel sottobosco minimale delle composizioni, per poi farsi ben più evidente nel limbo astratto di "Almost Overlooked", nei languidi sussurri della lunga "Raindust" e nel lacrimante congedo di "You Again".

In Drift Music i ruoli paiono invece invertirsi con la prevalenza dell'anima musicale di Foxx, e il contributo di Budd a farsi sentire soprattutto nella potenza espressiva delle melodie, composte in gran parte da droni lenti e sussurrati. La rarefazione desertica che avvolge la gran parte dei brani segna un collegamento diretto con il Michael Stearns di "Encounter" o con lo Steve Roach di "On This Planet": le varie "Stepping Sideways", "Curtains Blowing", "Someone Almost There" e "Avenue Of Trees" abbandonano le cattedrali per spiccare il volo verso territori aridi e disabitati. Ed è proprio la purezza incontaminata la forza principale del disco: abbandonando il cosmo e l'Eden, il viaggio conduce verso un limbo privo di coordinate nell'iniziale "Sunlit Silouhette" e in "Coming Into Focus", per poi gettarsi nel vuoto di "Linger", "Curtains Blowing" e "Resonant Frequency", prima di concludersi in "Underwater Flowers", forse l'episodio migliore dell'intera raccolta, dove le anime dei due musicisti si fondono finalmente compensandosi, e sfumare nei sospiri nascosti di "Arriving".

Sia nel lato romantico di Translucence che in quello desolante di Drift Music, i due riescono a partorire uno dei migliori lavori di musica ambient dell'intero decennio, interpretando con maestria ed eleganza due facce di una stessa medaglia. E se nella prima Foxx pare inchinarsi a Budd, seguendo le trame dettate dal maestro, nella seconda è quest'ultimo ad assecondare maggiormente gli intenti del primo, mai così a metà tra sensibilità umana e freddezza tecnologica: alla fine è la prima a prevalere, dimostrando definitivamente - come già in realtà più volte dichiarato da egli stesso - come pure l'androide che partorì Metamatic fosse in realtà molto probabilmente un essere umano travestito da tale. Punto d'arrivo e apice mai superato della sua produzione ambient, Translucence/Drift Music è una delle vette della seconda fase della sua carriera, nonché del lungo e lastricato percorso di Budd.

Nel 2011 l'album sarà rimasterizzato e ripubblicato con l'aggiunta di Nighthawks, raccolta di frammenti provenienti dalle stesse session cui partecipò anche il pianista Ruben Garcia, già collaboratore di Budd per numerosi dei suoi progetti. Le dieci gemme cristalline del disco si muovono fra larghe aperture e squarci astratti, accompagnate dal pianoforte di Garcia, limpido e aggraziato. Riprendendo il mood di Translucence e i roteanti droni di Drift Music, Nighthawks è l'ideale ponte fra i due lavori, nonché un altro parto di caratura elevatissima.

La conseguenza prima del dispendio di energie e creatività per questi primi lavori sembra però essere un inaridimento nell'ispirazione di Foxx, che non riuscirà più a raggiungere tali vette nelle successive produzioni. La prima di queste, Cathedral Oceans III, arriva nel 2005 e segna una decisa virata verso la pura church-music: se le costellazioni orchestrali di "Oceanic" e le celestiali aperture di "Eternity Sunrise" riescono a distinguersi nuovamente per la loro capacità di suggestionare, il resto dell'album si muove fra liturgie arcane e preghiere isolate non sempre capaci di emozionare altrettanto. Così, i canti corali per vocoder di "Harmonica Mundi" e "Through Garden Overgrown" riescono a bissare gli effetti già prodotti nei primi due capitoli, mentre altrove la formula pare iniziare a mostrare segni di cedimento: è il caso della plastica e asettica messa elettronica di "Spiral Overture", del sinistro ma scontato incedere di "Serene Velocity", dello squarcio visionario di "Eternity Sunrise" e della desolante invocazione di "In Rising Light". A salvare le redini dell'album, però, arrivano due fra le composizioni più toccanti della saga: si tratta della conclusiva "Metanym", ideale congedo dall'intero progetto, e della meccanica "City Of Endless Stairways", dove per la prima volta Foxx strizza l'occhio a un sound quasi gotico e non distante dagli Arcana più eterei, per omaggiare ancora una volta il tema della città, sua grande musa ispiratrice dai tempi dell'esordio.

Pur risultando a conti fatti un lavoro compatto e direzionato, Cathedral Oceans III non riesce a bissare la forza del fratello maggiore e l'uniformità concettuale del suo predecessore, concludendo comunque in maniera più che degna una saga inattesa e di qualità eccelsa.

Negli anni successivi, Foxx pare però iniziare a perdere in maniera ben più cospicua le coordinate ambientali con le quali aveva prodotto i lavori migliori: impegnatissimo fra la carriera parallela con Louis Gordon e svariate altre collaborazioni, egli pubblica nel 2007 - anticipato dalla raccolta Metal Beat - lo svogliato e scontato Tiny Colour Movies. Si tratta di una raccolta di frammenti composti a commento di altrettanti cortometraggi, a cavallo tra melodie elettroniche e sognanti passaggi d'atmosfera, caratterizzati da una freddezza compositiva mai udita in precedenza.
Equamente diviso fra tentativi di adattamento ambient-techno ("Stray Sinatra Neurone", "Skyskraper", "Points Of Departure", "Thought Experiment"), scipiti ricicli delle atmosfere che furono ("Lost New York", "X-Ray Vision", "Smokescreen", "Underwater Automobilies"), immersioni in una scialba avanguardia elettronica ("Looped Los Angeles", "Hand-Held Skies") e glaciali bozzetti vintage-pop ("Kurfurstendamm", "A Peripheral Character"), l'album è senza dubbio uno degli episodi peggiori partoriti dal musicista dopo il suo ritorno.

Nel 2009, dopo un nuovo tour al fianco di Louis Gordon, testimoniato dall'ottimo A New Kind Of Man edito un anno prima, Foxx fa uscire due album provenienti dal suo "archivio": My Lost City, di cui si tratterà poi, e A Secret Life. Quest'ultimo, in collaborazione con Steve Jansen - ex-batterista dei Japan e fratello di David Sylvian, da anni attivo fra eleganti memorie dei tempi che furono (le collaborazioni con l'altro ex-compagno Richard Barbieri) e sguardi in avanti nell'avanguardia più accessibile (il bellissimo "Slope" del 2007) - raccoglie alcune sessions improvvisate risalenti al 2001, ripescate e remixate dal sound engineer Steve D'Agostino e poi pubblicate da Foxx stesso tramite la sua Metamatic Records. Nelle sei "parti" che compongono il disco, il contributo dei singoli musicisti è difficilmente distinguibile: trattasi, infatti, di escursioni in un'ambient acustica e asettica, mischiati a inchini pianistici al Budd minimale, lontani però anni luce dal metafisico equilibrio di Translucence. L'album ha il pregio di essere senz'alcun dubbio migliore del suo predecessore - per via dell'assenza degli episodi meno a fuoco di quest'ultimo - ma il difetto di non avere nulla di nuovo da comunicare rispetto a quanto già sentito in precedenza.

Succeduto solo dalla raccolta video D.N.A. nel 2010 - ambizioso progetto contenente il frutto della collaborazione con alcuni registi di videoclip e qualche scialbo inedito - A Secret Life è, ad oggi, l'ultimo parto ambient di Foxx, che chiude, benché in maniera tutto fuorché eccelsa, una "branca" della sua carriera poco nota ai più ma in grado di regalare almeno un capolavoro e una saga di grande rilievo.

Atto VIII - Liturgie profane

Col tempo ho capito che quando canti in quegli spazi (chiese e cattedrali, ndr) si verifica un ritardo, una rifrazione che puoi armonizzare con la tua voce. Insomma, quando la nota torna indietro, è possibile creare un'armonia e svilupparla. La mia teoria è che tutta la 'church music' si sia evoluta in questo modo, ossia partendo dai suoi edifici. Una sorta di 'musica architettonica'...
Ciò mi ha illuminato su quanto avevo cercato di comprendere in tutti quegli anni. Così sono tornato a casa e ho scoperto che era possibile ottenere una cattedrale in un digital box: puoi avere un riverbero digitale, che è come una cattedrale in uno spazio molto, molto più piccolo!

John FoxxQuella tra ambient e church-music è stata la commistione principale nella formula applicata da Foxx per Cathedral Oceans. Due mondi al tempo stesso vicinissimi - nella potenza evocativa e nelle capacità di suggestionare - e ben distanti - nei richiami al fantascientifico di molta ambient tarda, contrapposti al "divino" potere della preghiera. E la fusione di questi due elementi è culminata in un ibrido capace di rimescolare i lati comuni dei due mondi, eliminando in gran parte i diretti riferimenti alle caratteristiche più distanti (la "dipendenza" religiosa della church-music come la centralità dell'elemento spaziale nell'ambient).
E così i lavori successivi del Foxx solista discendono direttamente proprio dal percorso ambient, puntando però la lente d'ingrandimento su quel lato mistico e al tempo stesso profano già parte integrante della ricetta di Cathedral Oceans, divenuto addirittura centro stilistico nel terzo capitolo della saga. Eppure, il primogenito di questo nuovo percorso non può certo considerarsi figlio della trilogia: ne è, semmai, il silenzioso padre fondatore, datoché i brani in esso contenuti risalgono quasi tutti, per composizione e registrazione, ai primi anni Novanta.

Siamo sempre nel 2009, uno degli anni più prolifici per Foxx: pochi mesi prima dell'arrivo del già citato A Secret Life, a sua volta anticipato da Metatronic - un'ottima antologia audio-video che ripercorre le tappe migliori della carriera del musicista - esce in sordina My Lost City, ignorato da gran parte dei fan e della critica. Si tratta, appunto, di una raccolta di esperimenti risalenti al periodo di vuoto discografico, quello in cui tutt'oggi Foxx afferma di aver suonato e composto con una costanza superiore addirittura al passato. Negli undici, sensazionali saliscendi emotivi dell'album troviamo, espressa allo stato puro, quella radice mistica e arcana che caratterizzerà quasi tutti i lavori ambientali. La città ancora una volta è il tema preponderante: una città lontana anni luce dai sogni tecnologici, che si rivela invece nel pieno della decadenza, persa e difficilmente recuperabile, non più da vivere ma dalla quale rifugiarsi, con l'unico mezzo della contemplazione e del ricordo: "City Of Disappearing", ovvero appunto una città troppo grande e imperfetta che finisce con lo scomparire in se stessa. Ogni brano ha una storia da raccontare, un sigillo nascosto, sia esso uno sfogo visionario, una celebrazione o un lamento.
L'apertura di "Imperfect Hymn" presenta lo stesso suono analogico del passato più lontano, che va ora però a comporre una marcia al tempo stesso sognante e sinistra, prima di abbandonarsi alle onde minimali del pianoforte di "Magnetic Fields" o al drone solitario e oscuro di "Just Passing Through". La malinconica nostalgia di "Piranesi Motorcade" è l'embrione di "City As A Memory", toccante litania che segna il distacco dal sogno verso la realtà, prima che "Umbra Sumus" tenti di prolungare il saluto, quando però il ricordo si è già allontanato troppo. Ma a svettare in un disco già di per sé ottimo sono altri tre episodi: l'inebriante messa elettronica di "Barbican Brakhage" - cantata in più lingue tra cui il latino e altri idiomi antichi, punto d'arrivo della ricerca sulla sacralità non religiosa - la solenne avventura di "Hawksmoor Orbital", forse unico vero disegno di speranza, e la conclusiva "Scene 27 - Into The Voice Behind The Wallpaper, Trellick Tower 3am", un canto liturgico in latino che pare più un'eco distante, un sussurro in grado di rimbombare.

Uscito postumo di ben vent'anni, come un ricordo tenuto al caldo nel cassetto fino al momento di liberarlo, My Lost City è uno degli album più ricchi, personali e originali di John Foxx, ma al tempo stesso uno dei più sottovalutati. È il canto del cigno del primo Foxx, ma anche il manifesto dell'anima mistico-ambientale del secondo, nonché probabilmente il suo lavoro più "umano" e sentito, pregno in ogni suo brano della capacità di emozionare.

Dopo My Lost City e A Secret Life, Foxx conclude il 2009 con un ulteriore, nuovo lavoro, di nuovo in collaborazione con un grande nome: si tratta di Robin Guthrie, co-leader dei Cocteau Twins e chitarrista dall'enorme personalità, capace di influenzare la stragrande maggioranza delle band dream-pop sorte negli anni 90. E, ancora una volta - come già accaduto con Budd - la simbiosi fra le due anime partorisce un altro lavoro eccelso: Mirrorball, ovvero un autentico trattato in grado di miscelare il dream-pop del chitarrista e l'animo sacro di Foxx. Per questi è la definitiva "ascensione" spirituale, il distacco definitivo dal concreto già consumatosi nello strappo di My Lost City. È un canto etereo e avvolgente ad accoglierci, contornato da droni paradisiaci e dalla chitarra di Guthrie: la title track è già astrazione pura, lontana da stili e paragoni, da tematiche e ragione. Il sogno si consuma poi fra rimandi al più classico sound dei Cocteau Twins, come nel daydreaming di "My Life As An Echo", nelle sublimi apparizioni di "Estrellita" e nella cavalcata luccicante di "Sunshower".
Altrove, invece, a prendere il sopravvento è un landscape sognante, dove il suono pare ritirarsi per lasciar spazio alla dimensione descrittiva della voce di Foxx: è il caso di duetti di "The Perfect Line" e "Ultramarine", in cui Guthrie avvolge i vocalizzi con languidi ed estesi arpeggi, dei canti gregoriani di "Luminous" e "Spectroscope" e del sentito congedo di "Empire Skyline", dipinto della nuova dimensione raggiunta dal Nostro.

Con Mirrorball, Foxx chiude il cerchio aperto con My Lost City e comprendente la trilogia di Cathedral Oceans, dando luce ad oggi all'ultimo parto dalle atmosfere sacro-ambientali. L'incredibile equilibrio tra sacralità e paganesimo fa dell'album l'ennesimo prodotto di caratura sopraffina, tassello fondamentale e coerente anche nel percorso di Guthrie, impegnato in una carriera solista all'insegna di un languido e visionario essenzialismo strumentale.
Il 2009, completato discograficamente con il live In The Glow - contenente le registrazioni di due performance provenienti dal tour di The Golden Section - è quindi anno fondamentale per il musicista, in cui molti dei percorsi iniziati volgono a un temporaneo termine.

A distanza di due anni, un'ennesima collaborazione vede Foxx interfacciarsi a Theo Travis, fiatista onniscente (si alterna tra flauto, clarinetto, sassofono e corno) e storico collaboratore di King Crimson, Gong e, più recentemente, Porcupine Tree. Il prodotto partorito dai due è il breve ma intensissimo Torn Sunset, disco di sette acquarelli di ambient elettro-acustica equamente diviso fra momenti più ottimisti - come i riverberi di "Night Jewels", le distese pacate di "Lost Marylin Molecule" e la levigata e serena conclusione di "All The Tides On All The Streets" - e altri più cupi e dimesi - la riflessiva e sinistra "From A Brighter Place", l'oscura "Skyscraper Sunlight", la sommessa title track e la malinconica "Before You Disappear".
Lasciandosi alle spalle tensione mistica e ricerca acustica, Foxx confeziona in Torn Sunset le composizioni più pure e incontaminate della sua carriera, in quello che sarà però destinato a restare un episodio isolato e unico, ma ricco di un fascino personalissimo. Sarà anche l'ultimo album a distanziarsi dall'elettronica: poco dopo la sua pubblicazione Foxx fonderà infatti un nuovo progetto, che diverrà la sua nuova fonte sonora dal 2011 in poi, nella quale tornerà ad approfondire tali canoni stilistici, affiancandosi il Re Mida dei sintetizzatori analogici Ben Edwards, in arte Benge, e selezionando una schiera di collaboratori di prestigio. Nasceranno così John Foxx And The Maths.

L'incontro

Riavvolgiamo ora il nastro, e torniamo indietro fino al 1997, l'anno del rientro di Foxx sulla scena musicale. Al fianco del sorprendente Cathedral Oceans, infatti, riscuotendo un attenzione forse anche maggiore arriva un album composto a quattro mani, dall'eloquente titolo nostalgico: Shifting City. Colui che accompagna Foxx in quest'avventura è Louis Gordon, produttore attivo nella scena techno underground di Manchester. L'incontro fra i due avvenne nel 1995, a una festa-concerto per il compleanno di Gordon: questi tentò, senza grosse speranze, di far pervenire a Foxx, fra le maggiori fonti d'ispirazione della sua musica, un invito per partecipare e permettergli di ascoltare la performance. A sorpresa, quest'ultimo accettò e lo ricontattò poche settimane dopo con l'invito per registrare un lavoro insieme. La casuale nascita del sodalizio porterà alla pubblicazione di ben cinque album, primo dei quali sarà proprio Shifting City.

Atto IX - Il ritorno dell'androide

Credo che riguardi (la città, ndr) qualunque cosa: penso che tutto nella mia vita sia vissuto dal punto di vista dell'uomo nella città; è quanto descrivo, ed è ciò che conosco meglio. Ho vissuto anche a contatto con la natura, quindi posso dire di conoscerla ma, come gran parte delle persone, vivo in una città.

John FoxxUn nuovo, non casuale, riferimento alla città: è così che ci accoglie Foxx, con di nuovo addosso la "corazza" del robot, presentandoci il secondo dei due album del suo ritorno, anch'esso datato 1997. E Shifting City altro non è che una rincorsa verso il passato, trasposto al sound del presente di fine anni 90: la techno. Già, perché è proprio lì che andrà a collocarsi gran parte della produzione del Foxx nostalgico: nella naturale evoluzione di quel che fu il suono sperimentale dell'epoca. E la città di Shifting City si allinea in contemporanea a quella di Cathedral Oceans: se nel secondo il musicista sentiva il bisogno di manifestare un nuovo universo emotivo - distaccato da quella città moderna e tecnologica dove uomo e macchina convivevano al meglio - nel primo il tentativo è invece quello di riportare il modello dell'epoca e ristrutturarlo, non tanto per renderlo attuabile nel presente, ma nella speranza di una chance donata dal futuro. Ancora non sapremo se questa arriverà, ma l'impegno del musicista proseguirà.
E per questa complessa operazione, Foxx riscontra la necessità di trovare un compagno d'avventura: qualcuno che lo aiuti, che gli dia una speranza e che lo assista nel complicato processo, che creda quanto lui nella possibilità di una nuova techno-city. E questa figura rispecchia in toto il ruolo di Louis Gordon, il fido compagno-assistente, il suo Watson, che porta con sé la sua esperienza nel mondo della techno.

Shifting City dà dunque il fatidico "la" alle operazioni, frullando in maniera ancora acerba e piuttosto superficiale le velleità dei due. Possiamo così incontrare episodi in cui i risultati arrivano appieno, come la spettrale "The Noise" - la "Plaza" del nuovo millennio - le lunghe odissee techno di "Here We Go" e "Shadow Man" e il furente e catartico inno della title track, in cui i due paiono spronare gli ascoltatori a unirsi alla loro ricerca.
In altri brani, però, il congegno sembra ancora necessitare di parecchio olio: è il caso dell'acida "Crash", che pare abbracciare con troppa foga le tendenze moderne, ma anche degli scontati reflussi metallici di "Through My Sleeping" e delle taglienti fenditure acid-house di "Concrete, Bulletproof, Invisible" - entrambi non a caso outtake delle pessime session a nome Nation 12.
Shifting City è il primo passo di un percorso, incapace di stupire e di colpire al pari del contemporaneo Cathedral Oceans ma prodotto di un primo rodaggio necessario ad affinare un marchingegno complesso e ancora in evoluzione.

La prima variazione sul tema tarda ben sei anni ad arrivare, e si materializza nel 2003 (di nuovo contemporanea al secondo capitolo di Cathedral Oceans) in The Pleasure Of Electricity. La formula è confermata, ma il rimedio architettato da Foxx e Gordon per sopperire ai passi falsi del predecessore è quello di ridurre al minimo la materia trattata, limitando le ambizioni in attesa di un completo sviluppo: il disco mette così temporaneamente da parte la techno iniziando l'opera di restauro dell'analog sound che fu.
Non dissimile nei risultati e nelle velleità dal contemporaneo "Tour De France Soundtracks" dei Kraftwerk, l'album oscilla tra un synth-pop spinto e ritmato - nelle punture danzerecce di "Nightlife" e "Automobile" - e un omaggio profondo alle sonorità dei primi 80, sia nelle marcette sostenute di "The Falling Room" e "Camera" che nel decadentismo sviscerato in "Uptown/Downtown" e "When It Rains". In "Invisible Woman", altro outtake del progetto Nation 12, si giunge addirittura all'auto-citazionismo, con una linea melodica ripresa nelle note e nel suono da quella di "Underpass".
A mostrare una prima, vera forma di maturazione sono l'ouverture-conclusione di "A Funny Thing" e il macabro dipinto di "Quiet City", dove i due paiono prendere coscienza anche concettualmente del punto a cui si trovi il loro percorso, che pare di nuovo stentare a decollare.

La scelta apparentemente attuata da Foxx e Gordon di ridurre la materia musicale per focalizzarsi su uno sviluppo più "sobrio" delle tematiche del loro progetto non paga come previsto, regalando un album senz'alcun dubbio più conciso e a fuoco del precedente, ma ancora incapace di lasciare il segno e progredire: la macchina del tempo necessita ancora di qualche accorgimento.

Ma l'attesa crescita tarda ben poco a presentarsi: non trascorre nemmeno un anno e i due ritornano con prepotenza dando alle stampe Crash And Burn, di gran lunga il loro miglior risultato. L'album si riassesta sulla strada intrapresa da Shifting City, riuscendo però finalmente a donare freschezza e vitalità alla macchina del tempo dei due. Giungono così, quasi inaspettate, perle di modernariato come la title track, "Sidewalking" e "We Robot", dove architetture sofisticate e, appunto, "moderne", vengono eseguite nell'ottica sonora in cui nacque Metamatic. "Broken Furniture" e "Dust And Light" sono invece mosse da scariche techno e nuovi, marcati rimandi al futurismo tanto caro al Nostro.
Non mancano nemmeno il canto terreno dell'umanoide, nella lunga filastrocca di "Smoke", e concessioni a escursioni dirette nel mondo della tecnologia (lo spoken computerizzato di "Sex Video"). A completare il caleidoscopio facendo storia a sé stante ci pensa il fumoso vintage-pop dell'iniziale "Drive", distante dalle alienazioni robotiche del resto del disco.

Crash And Burn è il primo acuto di due alchimisti travestiti da robot, che sembrano, dopo i primi passi incerti, aver trovato finalmente la strada da percorrere nell'inseguire il loro scopo - nel frattempo spostatosi dalla riproposizione del progetto tecnologico mai realizzato in passato a una più sobria opera di restauro del sound che caratterizzò quell'epoca. E l'ingrediente responsabile del salto di qualità pare proprio essere questo: l'aver temporaneamente accantonato la ricerca concettuale in favore di un pieno sviluppo del lato musicale.

John Foxx - Louis GordonUna volta riusciti a far decollare il progetto, Foxx e Gordon decidono di ritornare quindi ad arricchirlo, prendendosi tre anni di pausa - interrotti solo nella collaborazione nell'album d'esordio del promettente producer finlandese Jori Hukkonen un anno prima - per prepararsi a sfornare il loro quarto parto. From Trash arriva infatti solo nel 2006 ed è l'ideale punto d'arrivo del loro percorso.
Rinunciando in gran parte agli ammiccamenti techno dei predecessori, l'album sperimenta in pieno la formula del restauro della branca più spigolosa del synth-pop degli anni 80: le costruzioni provengono così direttamente da quei tempi, così come i suoni di matrice interamente analogica, mentre le composizioni ridondano di riverberi e rumorismi. Tornano d'attualità anche i temi della macchina e della città: l'exploit di Crash And Burn pare quindi aver dato i suoi frutti, permettendo ai due di riprendere in maniera meno ambiziosa e più meticolosa il discorso intrapreso con Shifting City e progressivamente abbandonato nei parti seguenti. Dal pop tecnopolita della title track, di "Another You" e di "Friendly Fire" emergono così gli scenari di quella metropoli in avanguardia narrata e descritta vent'anni prima; ma ancor più eloquenti in tal senso sono il traffico pulsante di "A Million Cars", la fragorosa costruzione di "Freeze Frame" e l'umana disamina di "The One Who Walks Through You", vere fotografie scattate in quel futuro in cui i due paiono tornare a credere. Già in questi episodi il collegamento tra dimensioni temporali pare essere finalmente funzionante, e a rivelare in toto i retroscena della missione ci pensano le due vette del lavoro: nella marcia scientifica di "A Room As Big As A City" sembra quasi di vedere con i propri occhi le fasi dell'opera, con la stanza dapprima vuota e silenziosa che piano piano inizia a riempirsi di elementi, fino a divenire addirittura grande quanto la città che cerca di riprodurre. La missione è compiuta, il progetto ricostruito ed aggiornato: ma "Impossible" ci conferma, tra chitarre distorte e battiti martellanti, che quel modello è destinato a restare tale, almeno per il momento.

Al quarto tentativo Foxx e Gordon completano la loro missione, aggiornando le intuizioni e le innovazioni proposte dal primo nella fase iniziale della sua carriera rendendole contemporaneamente attuali e nostalgiche. Pur non riuscendo - proprio per via della sua natura di opera volta totalmente al restauro - a tenere testa per freschezza sonora al precedente Crash And Burn, From Trash è l'album che i due cercavano fin dall'inizio del loro sodalizio, e che chiude idealmente la loro ricerca.

Ciononostante, nello stesso anno c'è spazio pure per un quinto, ulteriore capitolo della saga: trattasi di Sideways, una raccolta di brani provenienti dalle session di From Trash ma considerabile più semplicemente come il suo gemello, capace di distanziarsi dalle caratteristiche di quest'ultimo per via di una maggiore spontaneità melodica a parziale discapito della ricerca. A svettare fra i brani sono l'artificiosa e robotica "Neuro Video", il respiro meccanico di "Underwater", l'estensivo melodismo di "In A Silent Way" e il flusso futurista di "X-Ray Vision".
Non mancano alcuni veri e propri "esclusi di lusso" - come l'algida "Car Crash Feedback V2" e la saltellante "Use My Voice", totalmente in linea con le sonorità di From Trash - né tantomeno prese di distanza da quello stesso stile, come nei due brani che aprono e chiudono l'album: da un lato, il sublime e lieve incedere di "And The World Sides Sideways", dall'altro l'intangibile susseguirsi di droni distorti di "Phone Tap".

Vera e propria metà spontanea di From Trash, Sideways - pur non aggiungendo granché a quanto fatto in precedenza dai due - è in conclusione album dall'eleganza non comune, che rivela la purezza compositiva di Foxx e Gordon, altrove messa in secondo piano in favore di una maggior attenzione alla ricerca sonora. Si tratta anche dell'album che, ad oggi, conclude idealmente il loro sodalizio in studio: ad esso seguiranno infatti tre album dal vivo (l'ottimo Live From A Room (As Big As A City), Retro Future e Neuro Video - i cui nomi provengono da altrettanti brani - editi rispettivamente nel 2006, 2007 e 2008) e Impossible, raccolta di scialbi remix in chiave techno-trance.

Nei cinque album assieme, Foxx e Gordon hanno saputo ripescare nelle branche fossilizzate delle innovazioni elettroniche degli Ottanta e, come due archeologi, ridare loro vita nel panorama musicale del nuovo millennio, tirandole a lucido e iniettando nelle loro vene un surrogato di sonorità e tendenze moderne. Ma il cammino di Foxx non si ferma qui: l'ultimo e più recente step della sua carriera, infatti, lo vede impegnato - assieme a un nuovo compagno d'avventura - in un ulteriore evoluzione della sua formula: dal cyborg di Metamatic all'umanoide di From Trash, egli si muterà nel cantautore robotico a capo della propria band.

Atto X - Dalla "metamatica" alla matematica

John Foxx And The MathsE giungiamo così all'ultima evoluzione, la più recente incarnazione di un musicista ancora capace di stupire e cambiare pelle ad ormai più di trent'anni dall'uscita del suo rivoluzionario capolavoro. Se Metamatic giocava con le vocali sull'oltrepassare i confini dell'empirismo, questa nuova pelle pare piuttosto volercisi relazionare e cercare, come mai in precedenza, il contatto tra uomo e macchina, laddove in precedenza Foxx si era sempre impegnato a tenere ben distanti fra di loro questi due lati della sua anima. Per fare ciò, si affida in primis a un personaggio in grado di far da ponte tra presente e passato: si tratta di Ben Edwards, in arte Benge, musicista attivo da metà anni Novanta e più noto per l'incredibile e vastissima collezione di sintetizzatori analogici, sua grande passione. Un nome quindi relativamente recente e caratterizzato dalla capacità di coadiuvare un approccio moderno a un'ancorata matrice analogica.
Il primo incontro, avvenuto già nel 2009 con l'invito di Foxx a Edwards a prendere parte a un suo concerto, è succeduto da una serie di session in studio e dalla nascita ufficiale, un anno più tardi, del nuovo progetto congiunto: "John Foxx And The Maths", il cui nome suggerisce già il legame in precedenza descritto. Il Foxx protagonista del progetto sarà quindi, in definitiva, ancora una volta un umanoide: umano nell'anima ma androide in corpo. Le tematiche della tecnologia e della città paiono abbandonate in definitiva: quello che si presenta i nostri occhi è un cantautore che esamina, con il gelido occhio di un cyborg, sensazioni ed emozioni dell'animo umano.

E, dopo aver curato un sognante remix per il singolo "Changeling" dell'esordiente Gazelle Twin, anche i "Maths", seguendo quella che ormai pare essere divenuta una tradizione, debuttano con una doppietta a breve distanza: due album simili ma l'uno in evoluzione dell'altro, esattamente come avvenne per Ultravox! e Ha!-Ha!-Ha!.

Il primo dei due lavori vede la luce a marzo 2011, intitolato Interplay, e si caratterizza per la sua natura di disco di transizione: da un lato ancora profondamente legato agli stilemi sonori dei lavori con Gordon, dall'altro pronto a spiccare il volo verso una nuova via. Ancorati al passato recente sono episodi come l'iniziale furia robotica di "Shatterproof", l'anthem nostalgico di "Catwalk" e il sinistro synth-pop di "Destination": si tratta di veri e propri anelli di congiunzione, funzionanti come tunnel fra i trascorsi e la nuova ispirazione. Quest'ultima fuoriesce in quelle tracce dove inizia ad affiorare una tendenza nuova: un approccio "umano" alla composizione, più diretto e sincero. Nella pop song tecnologica "Evergreen" sembra quasi di sentire echi di The Golden Section, per via della spiccata propensione a una melodia semplice ma efficace, mentre nella ninna-nanna sintetica di "A Falling Star" e nell'omaggio ai Kraftwerk della conclusiva "The Good Shadow" la serenità prende il posto della rassegnazione.
A rivelarci in pieno la nuova natura di Foxx ci pensano però i due migliori brani dell'album, la title track e "Summerland": la malinconia e la gioia, in uno scenario dove le macchine si fanno da parte, si limitano ad osservare, convivendo pacificamente con gli uomini. Il futurismo torna invece d'attualità in "The Running Man", ma quella propostaci è una sua interpretazione totalmente inedita, che mette le sensazioni davanti ai concetti. Questa nuova priorità trova conferma nel gelido racconto di "Watching A Building On Fire", dove partecipa con la sua voce anche Mira Aroyo dei Ladytron: l'emozione è il soggetto, ad essere macchinale è la sua trattazione.
Interplay è il luminoso e brillante portale che collega l'androide alchimista al cantautore travestito da robot: non ancora volto a perfezionare e saldare i canoni del nuovo progetto ma forte di una coesione assoluta, funge piuttosto da collaudo stilistico-temporale, impareggiabile trattato di sintesi tra le personalità più ispirate del vecchio e del nuovo Foxx.

Ma è con il secondo parto dei Maths, distante poco più di sei mesi dal debutto, che i due assestano e consolidano le loro velleità. The Shape Of Things mantiene invariata la formula, all'insegna di sintetizzatori e drum machine, con Foxx protagonista in fase di scrittura e a prestare la voce, e Benge impegnato perlopiù nel manovrare i suoi gioielli. Ma l'evoluzione di questo nuovo lavoro risiede nella capacità di scendere ancor più nelle profondità del suo lato umano, quasi a voler interfacciare ricerca e tradizione, tecnologia e musica.
I brani, senza rinunciare alla loro intima essenza analogica, vengono così scoperti da quel sostrato di suoni che ne nascondeva in passato parte dei tratti somatici: ecco sbucare ora, dinnanzi a chiunque azzardi l'ascolto anche solo di un pezzo, quell'intimità che permette di definire in maniera chiara e sicura la natura sonora di questo nuovo progetto: techno-writer. Foxx ha completato la sua trasmutazione ed è ora autore di liriche e melodie schiette e profonde, incapaci di nascondere la loro anima umana nonostante la permanenza di un ossatura elettronica diretta parente delle esperienze passate.
Quelle che nascono sono dunque vere e proprie canzoni, come "September Town", marcetta ipnotica sostenuta da una drum machine in grande spolvero, l'alienante "Rear-View Mirror", synth-pop genuino e decadente in grado di riportare alla mente i tempi di The Golden Section, ma anche "Tides", un pop-rock non troppo distante da "Pater Noster", e ancora "Vapour Trails", in cui tornano invece da vicinissimo addirittura gli Ultravox più kraftwerkiani.
Altri episodi proseguono su uno stilema simile, isolandosi però maggiormente e sconfinando oltre la forma-canzone, come l'oscuro incedere minimale di "Unrecognized", uno degli episodi migliori del disco, la malsana glitch di "Falling Away", l'ambientale "Invisible Ray" per voce filtrata e larghe aperture sintetiche e la lenta e ipnotica "The Shadow Of His Former Self".
A completare l'opera, una serie di brevi strumentali affidati all'egemonia di Benge, fra i quali spiccano le simmetrie oblique dell'iniziale "Spirus", la quiete indissolubile della curiosa "Modereno" e la messa elettronica per organo Hammond di "Buddwing”.
The Shape Of Things consacra il genio di Foxx a più di trentacinque anni dai suoi primi passi nel mondo della musica, avvicinandosi incredibilmente alla proposizione di un sound nuovo, che vede il suo fulcro nella simbiosi tra canzone d'autore e scheletro elettronico.

Quasi a sorpresa, in conclusione di un tour superlativo, centrato sulle tracklist di Metamatic e Interplay, che li ha visti protagonisti in serate memorabili - fra cui quelle al Cargo di Londra e alla Roundhouse, quest'ultima testimoniata dal cofanetto Analogue Circuit - John Foxx e i suoi Maths arrivano a fine 2012 a produrre il loro terzo album. Nato inizialmente come mini-cd contenente remix e alcune collaborazioni, Evidence si è evoluto fino a prendere la forma dell'album completo, ricevendo così una missione assai ardua da compiere: non far rimpiangere i suoi due strepitosi predecessori. Al nuovo disco non riesce solo l'impresa di pareggiare tali livelli, bensì anche quella di superarli ulteriormente, ponendosi come l'ennesima prova ispiratissima di una band sempre più affiatata e coesa. Il disco ripropone la struttura canzoni+intermezzi strumentali di The Shape Of Things, alterandone però il contenuto sonoro, trasportato ancor più distante dal mondo delle macchine di quanto già fatto nel suo predecessore. Per incredibile che possa sembrare, siamo di fronte all'ennesimo cambio di pelle del camaleontico musicista, che ormai quasi settantenne sembra vivere il momento di gran lunga migliore della sua intera carriera.

Addio synth-pop, niente più pulsioni techno: a sostituirli un'elettronica sontuosa e oscura, frutto anche del contributo di numerosi ospiti di lusso. E' la naturale conclusione di un processo sorprendente: dalla freschezza ritmica all'alienazione atmosferica, passando per l'intimismo elettronico. Emblematica è in tal senso la meravigliosa title track, claustrofobia marziale espressa sotto forma di strati sintetici e di un canto liberatorio, ornata dal tocco apocalittico dei Soft Moon: si tratta dell'apice espressivo dei Maths, nonché di un concorrente più che accreditato al ruolo di loro capolavoro. A spingersi ancor più in la' sono i duetti con Gazelle Twin: l'auto-cover di "A Falling Star" mischia ambient e psichedelia, mentre "Changelings" convoglia uno dei migliori episodi dell'istrionica musicista in un trip astrale fra stelle e meteore. La medesima tipologia di viaggio è riproposta con più verve anche in "That Sudden Switch", questa volta al fianco di Xeno & Oaklander, perfetti nella recita del loro mantra glaciale. A completare la squadra degli ospiti sono Matthew Dear e Tara Busch, entrambi impegnati su nuove versioni dell'inquietante marcetta robotica "Talk", già edita nel lavoro precedente: il primo la traslittera in un soave universo trip-hop, mentre la seconda ne accresce la carica horrorifica gonfiando il gelo con ululati e loop spettrali. Quando lasciati soli, i Maths confermano il loro valore, ripescando dal passato recente nella marcia tecnopolitana di "Walk" e addirittura da quello mistico-ambientale di "My Lost City" nella meravigliosa "Only Lovers Left Alive". Anche gli strumentali di Benge si evolvono verso mondi più complessi e ricercati, come l'esoterismo spaziale di "Neon Vertigo", le esplorazioni sublunari di "Cloud Coreography" e la desolazione sintetica di "Shadow Memory" e dell'iniziale "Personal Magnetism". In un lavoro che rasenta la perfezione, trova spazio anche un solo episodio minore: la cover in chiave elettro-freak di "Have A Cigar" dei Pink Floyd, lungimirante nelle intenzioni ma inconcludente nel risultato finale.
Non è certo una nota semi-stonata a poter intaccare il valore di un disco sopraffino, che porta a compimento una ricerca intensissima. Evidence segna, per il Foxx del nuovo millenno, il raggiungimento di una dimensione personale e moderna, ormai affine al passato solo nei suoni dei sintetizzatori analogici, ma in grado di dialogare ad armi pari con alcuni fra i migliori musicisti della scena contemporanea. E' il disco più coraggioso e ardito della trilogia dei Maths, decisamente il più frammentario e imperfetto, ma il più emblematico della loro voglia di continuare a procedere nella direzione del puro gusto artistico.

Atto XI - Splendore europeo

Nei mesi a venire, Foxx e Benge continuano in un percorso di progressivo allargamento dei loro orizzonti sonori, ben intenti a mantenere la propria miscela a stretto contatto con le tendenze contemporanee. Così, mentre il mago dei synth porta avanti in parallelo anche la sua carriera solista con una serie tematica di lavori volta a sviscerare i suoni di vecchi synth analogici, il marchio Maths inizia a venire impresso anche nel novero dei remixer. Ad affidare al duo i revamp di propri prodotti vi sono, fra gli altri, due fra i massimi rappresentanti di generazioni sonore che molto devono a Metamatic: gli Orchestral Manoeuvres In The Dark e gli Adult. Per i primi, Foxx e compagni apriranno anche alcune date del tour europeo successivo al loro ritorno sulle scene, di nuovo accompagnati dalle fide Hannah Peel e Serafina Steer. Pochi mesi prima aveva visto la luce anche Rhapsody, testimonianza di un buon live in studio risalente al 2011 pubblicata al fianco di Exponentialism, extended play con i remix di Tara Busch e Gazelle Twin di quattro classici del repertorio del musicista ("My Sex", "I Want To Be A Machine", "He's A Liquid" e "Never Let Me Go").

Mentre Benge prosegue a sfornare a ritmo indiavolato lavori solisti, Foxx si ripresenta verso la fine del 2013 con un Ep realizzato a quattro mani con Jori Hulkkonen, che già lo aveva ospitato nella sua "Dislocated" otto anni prima, e che vede la partecipazione in veste di remixer anche di David Lynch. European Splendour può sembrare solo in apparenza un omaggio spassionato all'Europa già celebrata nella sua decadenza in The Garden e musicalmente riparte laddove Evidence aveva lasciato l'anno precedente, ovvero da un ibrido fra electro-writer e nebulose languido-ambientali, questa volta affidate alle calde venature house del producer finlandese. “Evangeline”, brano di punta proposto in ben quattro versioni differenti, è uno splendido notturno su un continente ormai al tramonto, dove gli ormai classici suoni analogici incrociano per direttissima flussi dimessi, con i raggi di un sole sempre più fioco e stanco a dissolversi lentamente dalle punte dei grattacieli. Il maestro del surrealismo cinematografico trova in una musica pittoresca ed evocativa terreno fertile per ambientare le immagini in un possibile futuro, teso e sofferente nel “Remix”, deserto e ormai abbandonato al trionfo dell'artificio nell' “Instrumental”. L'elogio alla solitudine della più oscura “Strictly” ammortizza la tensione sperimentata al fianco di Matthew Dear, prima che “Something Is Coming Down The Avenues” tocchi il vertice psicodrammatico dell'opera, in una catarsi emotiva che si posiziona in linea retta con i Soft Moon. Il complesso congedo di “Can't See You Anymore” segna un'escursione dall'usuale soundworld dei due, con il pianoforte elettrico a guidare una scia di nostalgia lunga ben sette minuti che trascina per una volta lontano da città e tecnologia, abbandonandosi al sentimento puro.
European Splendour è il gustosissimo assaggio di una probabile, futura opera sulla lunga durata condivisa dal "maestro" con quello che si candida con forza al ruolo di suo discepolo prediletto, il giorno in cui il fu Dennis Leigh dovesse smettere di partorire meraviglie con cadenza pluriannuale. Ma, “purtroppo” per Hulkkonen e per la fortuna della musica, quel momento si preannuncia molto, molto lontano.

Instancabile e insaziabile, il genio di Chorley prosegue l'esplorazione esterna al suo mondo mettendo la firma a distanza di nemmeno un mese su un altro Ep. Empty Avenues nasce e si sviluppa come primo parto di Belburry Circle, un duo improvvisato formato dall'unione di Jim Jupp (in arte Belbury Poly) e Jon Brooks (alias The Advisory Circle), rispettivamente il fondatore e una delle colonne portanti della Ghost Box Records, etichetta attiva nell'ambito della library music. Il riferimento sonoro che pervade il lavoro in realtà si allontana parecchio dall'usuale estetica della label per avvicinarsi alle collaborazioni di Foxx con Louis Gordon: si torna così ad una forma amorfa e lussureggiante di synth-pop, sebbene la componente electro-writer dei Maths torni a fare capolino nella title track, potenziale outtake di The Shape Of Things, nonché unico prodotto da attribuire senza ombra di dubbio alla mente unica di Foxx (sebbene co-firmato con Jupp). La medesima coppia sigla anche la conclusiva marcetta policroma di “Time Of Your Life”, la cui anima pop è condivisa con la brulicante e deliziosa “Almost There”. Un clima rilassato, l'approccio organico e l'amore per ritmi dolci e drum machine si dimostrano i tratti distintivi del suono Belburry Circle e vanno a sostituire gli psicodrammi tecnopoliti del Foxx elettro-cantautore, che in “The Right Path” resta fuori dai crediti limitandosi ad una liturgia sognante in grado di riportare per la prima volta in anni alle isolate visioni di Mirrorball. Chiude il conto “Suit”, un altro acquerello delicato e dolcissimo costruito su effusioni di synth, forte di un retrogusto romantico condito d'elettronica che da tempo mancava all'appello.
E sebbene a Empty Avenues manchi forse quel guizzo in più, quell'atmosfera con cui ormai è inevitabile identificare la figura di Dennis Leigh, quella varietà di soluzioni sonore accomunate da uno stile ormai inconfondibile, si tratta comunque di un gradevole, nostalgico e peculiarissimo episodio, a cui la breve durata probabilmente giova non poco.

Ci sono mai stati dubbi che, prima o poi, John Foxx avrebbe finito per guardarsi indietro? Sì. E infatti anche quando arriva il momento della nostalgia, Foxx la affronta alla sua maniera. Sparigliando le carte. Eppure l’idea di base di Howl (2020) non deve essere stata troppo distante da quella di tornare a guardare a quella stagione d’oro dove il nostro John è stato un pioniere. Recuperare la “forma canzone”, riprendere a bordo Robin Simon alle chitarre, per quella che è la cosa più vicina a una reunion degli Ultravox che sia mai stata fatta all’interno del progetto The Maths. Il desiderio di risentire di nuovo quel brivido, quella tensione verso qualcosa di distante, di lontano, questa volta persino congelato nel proprio passato. Forse erano anche maturi i tempi, perché The Maths portasse a concretizzazione un percorso. Rimane il fatto che Foxx questo disco lo vuole e da tempo gli girava intorno. E allora, via con otto pezzi che vibrano di quell’epoca futurista e romantica ad ogni passaggio.

Ma, appunto, Foxx non è tipo da revival fine a se stesso e ricopre l’intero sound di una coltre meccanica basculante. Un suono lontano, processato. Un'eco dispersa nello spazio profondo, la ricezione di una navetta spaziale che comunica nei pressi di un Buco Nero. E dallo spazio profondo sembra salutare anche il Maggiore Tom, che si unisce al party: le chitarre di "Howl" sembrano uscite da "Scary Monsters". Lo stesso Foxx interpreta spesso in posizioni molto vicine a quelle di David Bowie. Clamorosa , in particolare, l’interpretazione di "Strange Beauty", a chiudere il disco, quasi come a voler, finalmente, gettare la maschera.
Ci sono le ballate sintetiche: l’eroica "Everything Is Happening At The Same Time", e la crepuscolare "The Dance". C’è persino il momento in cui si sfiorano intenzioni gotiche con "Tarzan And Jane Regained", sostenuta per tutto il pezzo dalla chitarra “malata” di Robin Simon, vorticosa e quasi debitrice dei Sisters Of Mercy. Foxx qui si avvicina addirittura a un indimenticabile interprete del goth americano come Rozz Williams.
Il futurismo disturbato di "My Ghost" e l’incedere ombroso di "New York Times", completano un disco sorprendente.
I contributi dei fidati Benge e Hannah Peel, non mancano nemmeno questa volta, e, probabilmente, il primo è il principale responsabile del sound caratterizzante dell’album, che, finirà per portare gli ascoltatori a una posizione radicale in un senso o nell’altro. Ma è altrettanto importante far notare che, oltre a Benge, i pezzi sono firmati dallo stesso Foxx e da Simon, totalmente coinvolto anche in fase di scrittura.

Questo è il modo di Mister Foxx di guardarsi indietro, il suo modo di fare i conti con la nostalgia. Recuperare quello spirito futurista e non tradirlo, proiettandolo in un disco che pare arrivare davvero dal passato, ma ripresentatosi nel 2020, come un “ululato” filtrato attraverso qualche strano portale temporale che si affaccia da qualche parte, lassù, nello spazio profondo.

Outro - L'avventura continua...

Nel corso della sua lunga carriera, il genio di Chorley è stato in grado di anticipare la tendenza new wave e lanciarne il lato romantico, ispirando tantissimi gruppi e artisti, contemporanei e successivi alla sua opera. Ha saputo lasciarsi corrodere dal desiderio di ottenere fama, gloria e successo, ma anche fermarsi, riflettere e ripartire. E poi ancora solcare con personalità tratti musicali così lontani da quelli affrontati in passato, ricalcare con perizia tendenze superate e riportarle in auge, quasi senza sentire gli anni che le separavano. Quegli anni, ormai sessantatré, di cui pare non sentire minimamente il peso, tanto da poter produrre ancora oggi lavori che guardano in avanti, che ambiscono e ricercano, sperimentano e teorizzano. Ma, soprattutto, Foxx in questi trentacinque anni è stato capace di conquistare ed emozionare. Ed è questo forse il maggior merito di un'avventura che promette di stupire ancora: mischiando il crudo punk e il glam, travestendosi da robot, spogliandosi di colpo o vestendo i panni del sacerdote pagano, il suo obiettivo è sempre stato quello di colpire il cuore anziché la mente, di far partire dall'emozione ogni singola nota di un suo brano, anziché dal concetto. Una formula con pochi precedenti, riuscita quasi sempre al meglio. La formula di un umanoide dal cuore nobile.

Supervisione dei contenuti a cura di Marco Bercella.

Un ringraziamento
a Marco per il lavoro svolto e l'aiuto datomi; a Federica Martini, Massimo Ferraroni, Luca Borioni, Massimiliano Stazi, Mark Davis, Roger Marchi e tutti gli amici della fanpage italiana per le informazioni, i suggerimenti e i materiali "d'epoca".

John Foxx

Discografia

ULTRAVOX!
Ultravox! (Island, 1977)
Ha!-Ha!-Ha! (Island, 1977)
Systems Of Romance (Island, 1978)
JOHN FOXX
Metamatic (Virgin, 1980)
Burning Car (Ep, Virgin, 1981)
The Garden (Virgin, 1981)
The Golden Section (Virgin, 1983)
In Mysterious Ways (Virgin, 1985)
Assembly (antologia, Virgin, 1992)
Cathedral Oceans (Metamatic, 1997)
Cathedral Oceans II (Metamatic, 2003)
Cathedral Oceans III (Metamatic, 2005)
Tiny Colour Movies (Metamatic, 2007)
Metal Beat (antologia, Metamatic, 2007)
A New Kind Of Man (live, Metamatic, 2008)
Glimmer (antologia, Townsend, 2008)
In The Glow (live, Edsel, 2009)
My Lost City (Metamatic, 2009)
The Quiet Man (antologia, Metamatic, 2009)
Metatronic (antologia, Edsel, 2010)
D.N.A. (colonna sonora-video, Metamatic, 2010)
Metadelic (antologia, Demon/Edsel, 2013)
JOHN FOXX & LOUIS GORDON
Shifting City (Metamatic, 1997)
The Pleasures Of Electricity (Metamatic, 2001)
Crash And Burn (Metamatic, 2003)
From Trash (Metamatic, 2006)
Sideways (Metamatic, 2006)
Live From A Room (As Big As A City) (live, Metamatic, 2006)
Retro Future (live, Metamatic, 2007)
Impossible (remix, Metamatic, 2008)
Neuro Video (live, Metamatic, 2008)
JOHN FOXX & HAROLD BUDD
Translucence/Drift Music (Metamatic, 2003)
Nighthawks (featuring Ruben Garcia, Metamatic, 2011)
ALTRE COLLABORAZIONI
A Secret Life (with Steve Jansen & Steve D'Agostino, Metamatic, 2009)
Mirrorball (with Robin Guthrie, Metamatic, 2009)
Torn Sunset (with Theo Travis, Edsel, 2011)
European Splendour (Ep, with Jori Hulkkonen, Sugarcane, 2013)
Empty Avenues (Ep, with The Belbury Circle, Ghost Box, 2013)
JOHN FOXX AND THE MATHS
Interplay (Metamatic, 2011)
The Shape Of Things (Metamatic, 2011)
Evidence (Metamatic, 2012)
Analogue Circuit: Live At The Roundhouse (live, Metamatic, 2012)
Rhapsody (studio-live, Metamatic, 2013)
Howl (Metamatic Records, 2020)
NATION 12 (with Tim Simenon)
Electrofear (Tape Modern, 2005)
Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

He's A Liquid
(videoclip da Metamatic, 1980)

Underpass
(videoclip da Metamatic, 1980)

Underwater Automobiles
(videoclip, da Tiny Colour Movies, 2006)

Smokescreen
(videoclip, da Tiny Colour Movies, 2006)

Estrellita
(videoclip, John Foxx & Robin Guthire, da Mirrorball, 2008)

Underpass
(videoclip restyled, da Metatronic, 2010)

A New Kind Of Man
(live, John Foxx & Louis Gordon at ICA, London, 2007; da Metamatic, 1980)

He's A Liquid
(live, John Foxx And The Maths at the Roundhouse, London, 2010; da Metamatic, 1980)

John Foxx su OndaRock