Death

Individual Thought Patterns

1993 (Relativity)
technical & progressive death-metal

Chuck Shuldiner (nato Charles Michael Schuldiner a Glen Cove, Stato di New York, il 13 maggio del 1967) cominciò a fare i conti con la morte che non aveva ancora compiuto dieci anni. Ne aveva per l’esattezza nove quando Frank, il suo fratello sedicenne, quello con cui, nonostante la differenza di età, si divertiva a giocare e a fare progetti per il futuro, se n’andò al Creatore, forse per un tragico incidente stradale, forse per un colpo di pistola partito accidentalmente, il che non fa alcuna differenza, ne converrete. Quello che conta è che, da quel preciso momento, il piccolo Chuck (che da poco si era trasferito, insieme alla famiglia, in Florida e, per la precisione, ad Altamonte Springs, nei pressi di Orlando) ebbe la sensazione che il mondo, il suo mondo, non fosse più un luogo sicuro e privo di pericoli, perché qualcosa, non si sa come, non si sa mai davvero perché, è sempre pronto a metterci lo zampino.
Per cercare di lenire il proprio dolore, Chuck si buttò a capofitto nello studio della chitarra elettrica, facendo praticamente tutto da solo, perché lui era fatto così: non sopportava quando qualcuno gli diceva cosa fare, ma preferiva fare tutto in perfetta solitudine e, se non riusciva a farlo, allora avrebbe cercato un modo tutto suo per farlo, fosse anche un modo tutt’altro che ortodosso, come ad esempio creare scale e diteggiature di sana pianta, così da poter dare voce a quello che gli ribolliva dentro.

 

chuck_schuldinerNel frattempo, diversi dischi si stavano alternando sul suo giradischi, ma la sua prima passione vera furono i Kiss, soprattutto perché nelle loro fila c’era il chitarrista Ace Frehley, quello che suonava una smoking guitar, fumante sei corde a uso e consumo di quanti nella musica cercavano anche un po’ di effetti speciali. A Chuck, però, fregava meno di zero dei fronzoli: per lui, la musica era già una questione di vita e, ça va sans dire, di morte, tanto che anche gli studi potevano andarsene a farsi benedire. Lì per lì, i suoi genitori non furono entusiasti di quello che per loro non era null’altro che un colpo di testa, salvo poi assecondare quella decisione, anche se con riserva: Chuck doveva dimostrare che con quella sua passione smisurata poteva costruirsi un futuro e ciò significava una cosa soltanto: portare a casa, quanto prima possibile, un contatto discografico, altrimenti poteva anche appendere al chiodo la sua amata chitarra.
Il giovanissimo Chuck aveva però le idee già molto chiare. Amava il metal, soprattutto quello più tosto, il che all’epoca (siamo agli inizi degli anni Ottanta) significava andare a parare dalle parti del thrash e del black-metal, con band quali Slayer e Venom a svettare nel suo cuore su tutte le altre, anche se quella passione per il metallo pesante aveva già ricevuto un innesco decisivo grazie all’ascolto di “Heavy Metal Maniac” degli Exciter, la band del chitarrista John Ricci, i cui riff Chuck provò a più riprese a imitare, salvo poi rendersi conto che era tempo perso, tempo che stava sottraendo alla sua libertà di provarci in prima persona. E così, mentre continuava ad ascoltare un po’ di tutto, senza disdegnare la classica e il jazz, ma storcendo il naso dinanzi a country e rap - due generi che non riuscirà mai davvero a digerire - prese a scrivere materiale di proprio pugno. Era ancora giovanissimo quando, nel 1983, unì le forze con il batterista-cantante Kam Lee e il chitarrista Rick Rozz per fondare i Mantas, il cui primo demo, "Death By Metal", registrato alla meno peggio con un registratore Panasonic e messo in circolazione intorno alla prima metà del 1984, mostrava una formazione desiderosa di fare la voce grossa, anche se ancora molto acerba.

Dall'altra parte degli States, intanto, tra il marzo e l’aprile del 1985, in quella San Francisco che una volta era stata la culla della cultura psichedelica e che da qualche anno era invece diventata uno degli epicentri della scena metal a stelle e strisce, i Possessed andavano incidendo le tracce del loro primo disco, che nell’ottobre successivo sarebbe stato pubblicato col titolo di "Seven Churches", presenza fissa durante le discussioni sulle origini del cosiddetto “death-metal”. La band del chitarrista Larry LaLonde (che durante gli anni Novanta avrebbe conosciuto una certa notorietà alla corte dei Primus del genio del basso Les Claypool) fu la prima a intitolare uno dei suoi brani proprio con l’espressione “death-metal” e questo Chuck lo avrebbe sempre ricordato a tutti quelli che lo appellavano con il nomignolo di “padrino” di quel genere che così tanto aveva a che fare con la morte e i suoi scagnozzi.
Di certo, i Possessed un peso nella definizione del death-metal (caratterizzato, oltre che da un sound cupo e pesante, dall’uso di voci gutturali e “marce”: growl è il nome tecnico) lo ebbero, eccome… eppure la loro musica non era ancora così cupa, pesante e brutale come lo sarebbe stata quella dei Death, la nuova incarnazione dei Mantas, che Chuck aveva nel frattempo sciolto, ma senza però perdere di vista Lee e Rozz, che infatti in pieno autunno, dopo aver rimesso sul mercato il demo "Death By Metal" con l’intestazione della nuova ragione sociale, vennero richiamati all’ordine per registrare le cinque tracce di "Reign In Terror", in cui il tema della morte la faceva da padrone.
Chuck era ormai deciso a suonare in modo sempre più veloce e violento, mentre andava cullando il sogno di andare a respirare in prima persona l’aria che tirava in quel di San Francisco. Vi giunse verso la fine del 1985, conobbe un bel po’ di gente, rispolverò la sigla Death grazie all’aiuto di altri musicisti e continuò a lavorare duro con la sua chitarra. Nel 1986 volò dunque a Toronto, in Canada, convocato dagli Slaughter, che lo volevano in formazione per le registrazioni del loro esordio, “Strappado”. Nostalgia di casa e depressione rischiarono quasi di mandarlo fuori di testa, per cui Chuck tornò subito sui propri passi, ancora più convinto che l’unica strada da percorrere era quella che seguiva le tracce del suo istinto.

 

Con l’aiuto del batterista californiano Chris Reifert mise così mano al materiale che sarebbe finito su "Scream Bloody Gore" (1987), Lp su cui Chuck suonò anche le parti di basso, oltre a cantare e a suonare la chitarra. Fu il momento della svolta. Il death-metal aveva partorito il suo primogenito, tutto agghindato di atmosfere orrorifiche, pestaggi sonori al fulmicotone, riff brucianti e growl rapaci e malefici. Certo, ancora grezzo, prodotto in modo tutt’altro che esemplare, eppure assolutamente fondamentale per l’evoluzione di un genere che per molti, da quel momento in poi, più che il “metal della morte”, sarebbe stato "il metal suonato dalla band di Chuck Schuldiner" e, al massimo, da quelle che avevano scelto di percorrere il suo stesso sentiero.
Ma in quel "thrash da macellai", come la critica di settore lo descrisse in mancanza di una definizione migliore, in quelle trame laceranti e spesso violente fino al parossismo, l’allora ventenne Chuck Schuldiner non volle rinchiudersi una volta e per sempre, per cui, da perfezionista qual era, tornò a lavorare sodo, fino a piantare, in quel terreno ancora tutto sommato vergine, la bandiera nerissima di "Leprosy" (1988), un disco che rappresentò un salto di qualità non soltanto a livello compositivo (brani mediamente più articolati; un interplay più curato tra chitarra solista e chitarra ritmica; assoli più rifiniti e ispirati; un tocco melodico a rendere, qua e là, più raffinato un sound che si diffonde dalle casse come un uragano elettrico), ma anche per quanto riguarda la scrittura dei testi, non più banalmente ispirati a quell’estetica gore che all’epoca anche il nascente grindcore stava indagando a fondo (e spesso spingendosi fino a venerare il “fetore della putrefazione”, come fecero i primissimi, mostruosi Carcass), ma piegati a dire della tragica condizione umana, chiusa in un angolo dal mistero della vita e della morte.

Nei solchi di "Leprosy", la disperata e straziante voce di Chuck s'impone come il sintomo più evidente di una sofferenza profonda che ha radici nella paura della Nera Mietitrice, paura che egli cercò sempre di tenere a bada attraverso il costante perfezionamento della propria musica, il che lo portò a cambiare line-up praticamente a ogni disco perché, certo, Chuck non aveva un carattere facile, e se aveva qualcosa da dire, te lo diceva in faccia, senza mezzi termini, ma soprattutto perché i Death non potevano essere una band come tutte le altre, essendo in pratica l’estensione sonora della sua psiche, unica e irripetibile. Una psiche che, alle soglie degli anni Novanta, cominciò a scavare nelle sue stesse, labirintiche stratificazioni, per cui nessuna meraviglia se con "Spiritual Healing" (1990) si consolidò, una volta e per tutte, il versante technical della musica dei Death. Con James Murphy alla seconda chitarra, Terry Butler al basso e Bill Andrews alla batteria, "Spiritual Healing" mostrò che il death-metal poteva ambire a farsi espressione sonora anche molto ambiziosa, toccando, se necessario, le radici più profonde di ciò che è umano.
Non fu un caso, dunque, che proprio “Human” divenne il titolo del disco che durante il leggendario 1991 portò i Death ancora più in alto, verso lidi progressive, perché la sua musica, così diceva Chuck, doveva evolversi costantemente, perché solo ciò che è in continua evoluzione, si potrebbe aggiungere, non marcisce, non si decompone. Per Chuck, "Human" fu una vera e propria rivincita. Ne avevano dette di tutti i colori sul suo conto: che era scontroso, irascibile, presuntuoso e chi più ne ha più ne metta. C’era anche molta invidia, in quel giro. Alcuni dei suoi colleghi non ce l’avevano fatta e non trovarono di meglio che lasciarsi guidare dall’istinto feroce di quel sentimento. Eppure, molti di quelli che lo invidiavano se ne stavano ancora a sguazzare nelle acque paludose di un death-metal cavernoso, rozzo e sempre più fissato con immagini raccapriccianti e inondate dal sangue, laddove invece i Death, i suoi Death, erano ormai lontanissimi anni luce da quelle banalità e perciò Chuck ci teneva ora a gridarlo ai quattro venti, accompagnato da una musica che sviscerava la morte per ricavarne preziosa linfa vitale.

steve_digiorgioLasciatosi alle spalle “Human” e salutati il chitarrista Paul Masvidal e il batterista Sean Reinert, con cui non erano mancati gli screzi e le frizioni durante le registrazioni di "Human", Chuck si ritrovò ancora una volta a ridefinire la forma della sua creatura.
Anche il bassista Steve DiGiorgio aveva pensato in un primo momento di tirarsi fuori, perché con Chuck non era facile avere a che fare, a causa del suo perfezionismo e di un caratterino niente male, ma poi tornò sulla sua decisione. Di chiare origini italiane (i nonni paterni, trasferitisi negli Stati Uniti dopo la Seconda guerra mondiale, provenivano dalla zona di Cassino), DiGiorgio era nato a Waukegan, Illinois, il 7 novembre del 1967, e si era avvicinato al rock sin dalla più tenera età, quando cominciò a perdersi tra i solchi di Black Sabbath, Iron Maiden, Rush, Yes e Jethro Tull. Fu proprio quest’ultima band ad avere un influsso decisivo sul suo stile bassistico. Galeotto fu, nel 1980, l’ascolto di “A”, tredicesimo album in studio della formazione inglese capitanata dal cantante e flautista Ian Anderson: DiGiorgio fu così colpito dal suono del fretless di Dave Pegg (ex-Fairport Convention) da rimuovere tutti i tasti del suo basso e iniziare a darci dentro con la nuova versione del suo strumento. L’ascolto di Mick Karn dei Japan, di Gary Willis della compagine fusion progressive dei Tribal Tech e di Jaco Pastorius completò il suo primo, fondamentale pantheon di influenze.
La prima band metal che gli diede una certa visibilità furono i Sadus, all’esordio nel 1988 con “Illusions”, un disco molto importante per le sorti del thrash-metal più tecnico e vagamente influenzato dalle primissime avvisaglie del death-metal. A quell’epoca, DiGiorgio aveva già avuto modo di conoscere Chuck in quel di San Francisco, quando “Scream Bloody Gore” non aveva ancora raggiunto i negozi di dischi e i Death erano, quindi, ancora un nome caldo solo per i metalheads che praticavano il tape-trading. Quell’incontro sarà decisivo per entrambi, perché le loro strade si sarebbero incrociate nuovamente ai tempi di “Human” e, quindi, di “Individual Thought Patterns”. Ma perché quest’ultimo vedesse la luce, c’era bisogno di reclutare un altro batterista e un altro chitarrista.

gene_hoglanIl primo fu individuato da Chuck in Gene Hoglan, originario di Dallas, Texas, dove era nato il 31 agosto del 1967 da una famiglia di origini messicane e nativo-americane. Dopo essersi avvicinato, influenzato dal padre, alla musica mariachi, a tredici anni si sedette per la prima volta dietro una batteria, facendosi le ossa cercando di riprodurre quanto ascoltava suonare sui dischi dei Rush e dei Kiss, rispettivamente da Peter Criss e Neil Peart.
Lasciatosi alle spalle un’intensa esperienza come roadie di alcune band glam della zona di Los Angeles (W.A.S.P. e Mötley Crüe, tra le altre), Hoglan trovò dunque posto nello staff degli Slayer, dove si confrontò con il grande Dave Lombardo, al quale diede anche preziosi consigli circa l’utilizzo della doppia cassa. Nel 1985 poté finalmente mettere a frutto la sua tecnica batteristica entrando a far parte dei thrasher Dark Angel, con cui si farà subito apprezzare per la sua estrema precisione, cosa che gli varrà il soprannome di “The Atomic Clock".
Quando i Dark Angel si sciolsero, circa un anno e mezzo dopo aver pubblicato “Time Does Not Heal” (1991), Hoglan si dedicò alla carriera di turnista, prima di ricevere la chiamata di Borivoj Krgin, che conosceva Chuck e pensò che Hoglan avrebbe sicuramente fatto al caso suo. Grazie all’interessamento del giornalista di origini serbe, i due, dopo aver chiarito alcuni vecchi screzi, nati all’epoca dell’Ultimate Revenge 2 Tour, durante il quale Death e Dark Angel avevano condiviso diversi palchi insieme a Forbidden, Faith Or Fear e Raven, ebbero modo di sperimentare un’intesa quasi telepatica. “Lavorare con lui è stato semplicemente un gioco da ragazzi, perché siamo sempre andati d'accordo”, avrebbe ricordato Hoglan.

andy_larocque_01Teoricamente, Chuck avrebbe potuto anche evitare di assoldare un altro chitarrista e fare come aveva fatto ai tempi di “Scream Bloody Gore”, quando aveva suonato da solo tutte le parti di chitarra. Quei tempi erano però lontani dal suo nuovo orizzonte musicale e, del resto, fatta salva l’eccezione di quel primo disco, non aveva mai rinunciato a un secondo chitarrista, perché, come avrebbe poi rivelato a Jeff Kitts di Guitar School, era cresciuto ascoltando numerose band che facevano leva su di “un attacco a doppia chitarra”, il che gli aveva fatto capire che, “se vuoi essere davvero pesante”, “se vuoi aggiungere varietà alla musica”, allora non puoi limitarti ad avere nella tua band una sola chitarra.
Fu così che entrò in scena Andy LaRocque (29 novembre 1962), chitarrista svedese originario di Göteborg, dove tra i dodici e i tredici anni aveva preso per la prima volta in mano una sei corde, spinto dalla passione per la musica di Black Sabbath, Thin Lizzy e Blue Öyster Cult, ma anche di alcuni eroi del glam quali Sweet, Slade, Marc Bolan e Alice Cooper. La sua carriera decollò nel 1985, anno in cui entrò a far parte dei King Diamond, capitanati dall’omonimo cantante che gli appassionati avevano già avuto modo di apprezzare e osannare quando era alla guida dei Mercyful Fate. Alla corte di King Diamond, LaRocque si fece notare per il suo stile influenzato da sonorità neoclassiche, che egli aveva apprezzato per la prima volta grazie ai lavori di Yngwie Malmsteen e Michael Schenker. "Quando Chuck mi contattò", ricorderà LaRocque, "con King Diamond non stavamo facendo granché. In realtà, eravamo alla ricerca di un contratto discografico e inoltre i Mercyful Fate stavano per riunirsi. Quindi, pensai fosse una grande opportunità poter provare qualcosa di diverso".

Con un terzetto di musicisti assolutamente stellare, Chuck ebbe modo di sviluppare al meglio le sue nuove idee, che andavano nella direzione di un lavoro per certi versi ancora più pesante di “Human”, caratterizzato da trame più articolate e da decise aperture melodiche, perché, così Chuck, “non voglio che la musica dei Death diventi ordinaria, quindi cerco sempre un buon equilibrio tra melodia e pesantezza”. Per preparare al meglio i nuovi brani, il quartetto provò instancabilmente in un vecchio garage alla periferia di Altamonte Springs, “tra una lavatrice e un’asciugatrice, un tosaerba e degli attrezzi da giardino”. Era lo stesso garage in cui tra il 1983 e il 1984 Chuck si era fatto le ossa con i Mantas e ciò servì, avrebbe detto, a “tenerlo con i piedi per terra”, mentre andava tracciando, giorno dopo giorno, nuovi sentieri nella valle oscura del death-metal.
Nel gennaio del 1993, la nuova formazione dei Death varcò finalmente i cancelli dei Morrisound Recording, i famosi studi di registrazione di Tampa, Florida, dove, anche grazie al lavoro del produttore Scott Burns, era stato in pratica scritto uno dei capitoli più importanti, se non il più importante in assoluto, della prima fase del death-metal. Fatta salva qualche incomprensione iniziale, soprattutto tra Chuck e LaRocque, con il primo abituato ad avere già tutto pronto prima delle registrazioni, e il secondo decisamente più rilassato e legato all’estro del momento, le incisioni di “Individual Thought Patterns”, questo il titolo scelto per il nuovo disco, procedettero per cinque settimane in un clima relativamente disteso e il 22 giugno di quello stesso anno il successore di “Human” arrivò fresco di stampa nei negozi di dischi, accompagnato da una copertina che riproduce l’immagine ai raggi X di una testa umana posta, insieme al logo della band, a sovrastare uno scorcio del pianeta Terra. L’impatto era ed è magnifico e testimonia della volontà di Chuck di proseguire nell’indagine della condizione umana che era già stata di “Human”, ma che qui scala ben altre vette artistiche.

 

Le dieci tracce del disco vanno a costituire un’unica, monolitica operazione catartica: negli anni precedenti, Chuck aveva dovuto assorbire tanta di quella merda che un disco come “Individual Thought Patterns” rappresentò per lui uno snodo fondamentale, sia a livello umano che musicale. “Voglio mostrare al mondo il mio reale valore”, disse a ridosso della pubblicazione dell’album. E ancora: “Senza accordare le chitarre molto basse, è possibile suonare una musica allo stesso tempo pesante e melodica”, una musica che, tra le altre cose, non si tira indietro quando c’è da “rischiare”. E poi aggiunse, senza timore di apparire presuntuoso: “Si può dire io stia cercando di salvare il death-metal dal fallimento”. Solo che Chuck non amava chiamare la sua musica con quel nome, “death-metal”, perché troppi miscredenti lo avevano trasformato in un rozzo affare di urla gutturali e architetture sonore fatiscenti (qualcuno provò a scucirgli il nome dei Cannibal Corpse, ma non ci fu verso), e allora, quando gli chiedevano come bisognava definirla, quella sua musica così potente e satura di pathos esistenziale, lui si limitava a pronunciare solo due parole: “loud metal” (“metal rumoroso”).

Scrivere e registrare le dieci tracce di “Individual Thought Patterns” gli aveva dato grandi soddisfazioni. Riascoltandole, si rese conto che si era davvero superato: “Sono molto soddisfatto del suono equilibrato, versatile e stabile che abbiamo creato”, rivelò a Wim Baelus della rivista olandese Aardschok. “La grande differenza rispetto alle precedenti uscite risiede principalmente nell'approccio specifico di ogni singolo brano, un approccio che rende "Individual Thought Patterns" più vario e flessibile.
"Human", in effetti, era piuttosto diretto, molto aggressivo e brutale (in un’altra intervista dell'epoca lo definirà anche “unidimensionale”, ndr). Anche in alcuni dei nuovi brani, come "Overactive Imagination", "In Human Form" o "Mentally Blind", c'è abbastanza spazio per la pura energia e l’aggressività, ma rispetto al passato ci sono molte più sottigliezze. Ci siamo messi a sperimentare tutti i tipi di tecniche insolite per quanto riguarda i riff, le linee melodiche e le parti soliste: nonostante le loro costruzioni bizzarre, abbiamo ottenuto grandi risultati. In definitiva, direi che il nuovo album è caratterizzato da atmosfere e da emozioni più contrastanti, il che rende il tutto rinfrescante e avvincente”.

death_band_1993Chiaro, anzi chiarissimo. Per dargli ragione, basterebbe il primo minuto di “Overactive Imagination”, che parte con una scarica secca di batteria e si lancia in un assalto all’arma bianca, con Hoglan a martellare senza posa, DiGiorgio a smanettare come una piovra sul suo fretless e le chitarre a intrecciarsi indiavolate: la ritmica di LaRocque, dal taglio melodico e vagamente neoclassico, e la solista di Chuck (una B.C. Rich Custom) a squarciare il muro del suono con rasoiate affilatissime che fanno letteralmente tremare il suo Marshall ValveState.
La voce schiuma rabbia senza posa, facendo leva non sul classico growl tipico del death-metal, ma su un grido sofferto e dai tratti claustrofobici. Chuck non fu mai veramente contento della sua voce, ma sapeva che era "sua" fino in fondo: "Penso che la mia voce sia il più grande limite della nostra musica. Questa è la realtà dei fatti. È troppo scioccante e brutale per fare breccia in un pubblico mainstream, e non c'è modo di aggirare questa situazione. So che molte persone non prendono sul serio questo stile di canto. Cerco solo di fare del mio meglio con quello che ho. Mi sento davvero impacciato con la mia voce e lavoro molto duramente per fare del mio meglio. Mi piace comunque pensare che la mia voce abbia un po' di personalità in più rispetto a quella del cantante medio di death-metal. La maggior parte dei cantanti non si impegna molto quando canta, oppure si aiuta con molti effetti. Non io. Non ci sono stronzate quando si tratta della mia voce: quello che si sente sono io e io soltanto!".
In “Overactive Imagination”, Chuck si scaglia contro la menzogna che domina la maggior parte degli esseri umani, così intenti e attenti a recitare un copione che ormai la loro performance si è trasformata in una vera e propria droga. Le persone di cui fidarsi sono davvero molto poche, soprattutto negli ambienti dell’industria discografica, come Chuck ebbe modo di sperimentare durante la sua carriera, convincendosi sempre più del fatto che il mondo non è altro che uno smisurato teatro, quasi a riecheggiare il drammaturgo spagnolo Calderón de la Barca (1600-1681).

Your existence is a script,
Life for you is a perfomance,
Play out the leading role.

Nello specifico, alcuni dei primi versi di “Overactive Imagination” prendono di mira la stampa musicale, in cui operano diverse persone la cui percezione delle cose è offuscata da un’“immaginazione iperattiva”.

Directing and premeditating every move
That creates the act of manipulation
Mastering the art of deception.
That increases your sick addiction
It’s an overactive imagination
That enslaves your empty shell

“Mi sono imbattuto in persone della stampa che mi chiedevano se ero un alcolizzato, un tossicodipendente, se ero stato in un reparto psichiatrico o se addirittura fossi in procinto di fondare una band glam. Me l'hanno chiesto seriamente e niente di tutto ciò era vero", lamenterà Chuck durante un'intervista concessa a Joab Jackson di Rox Magazine.
Sul roccioso e frastagliato midtempo di “In Human Form”, uno dei brani più melodici e progressivi del disco, ma anche uno dei più massicci nel suo fuoriuscire dalle casse come una colata lavica in cui ritmo, riff e parole vanno a comporre una poderosa fusione, Chuck e LaRocque duellano alla grande con assoli sopraffini, mentre il testo delinea l’uomo come una creatura “fuori controllo” da cui è meglio stare alla larga.

People of the earth beware,
It is here in human form
An atrocity laced with greed.
Filled with evil intentions
Ready to attack

Dopo una prima parte discendente, caratterizzata dai colpi stentorei della batteria e dalle “gommose” divagazioni del basso, accentuate dall’ottima produzione di Scott Burns, “Jealousy” si lancia in un continuum di accelerazioni brucianti, scansioni marziali e fughe vertiginose, che richiamano alla mente anche il thrash della prima ora. Affrontando il tema della gelosia, Chuck continua a rimestare nella sua memoria, scagliandosi ferocemente contro quanti lo avevano preso di mira semplicemente perché, a suo dire, era riuscito lì dove altri avevano fallito. Eppure, la gelosia non vuole altro che qualcosa che non può avere, perché “dietro gli occhi c’è un posto/ che nessuno sarà mai capace di toccare/ e dove si trovano pensieri/ che non possono essere portati via o rimpiazzati”, a dire che ogni uomo nasconde dentro di sé qualcosa che nemmeno la gelosia può scalfire, qualcosa che per Chuck rappresentò sempre il rifugio più intimo in cui rinchiudersi per meditare e creare.
“Trapped In A Corner” costruisce con certosina sapienza la sua impalcatura d’acciaio, tra riff brutali e tecnici, stacchi drammatici, scomposizioni circolari e assoli vibranti che, intorno al terzo minuto, convergono in un indimenticabile climax, perfetto per sintetizzare la furia che Chuck lascia divampare contro gli ipocriti, quelli che, prima o poi, saranno “intrappolati in un angolo”.

You will fall short of the dreams to destroy
In time you will find yourself trapped in a corner
These four words my friend,
I promise you will not forget

“Nothing Is Everything” alterna fraseggi geometrici, progressioni martellate e un refrain melodico dai toni malinconici. “Le emozioni prendono il controllo della vita di tutti i giorni/ Variazioni di comportamento imprevedibili”, canta Chuck nel passaggio più drammatico del brano, che è anche quello che ne condensa il significato: la nostra vita è in balìa delle emozioni, eppure, se riusciamo a rintracciare “la chiave” della “porta mentale”, allora potremo raggiungere “un altro mondo molto lontano/ un'esistenza diversa, ma praticamente la stessa”, lì “dove niente è tutto, e tutto è niente”.
Il passo solenne e battagliero della prima parte di “Mentally Blind” prepara il terreno per un frenetico allungo thrash-death, preludio all'esplosione di un memorabile ritornello, che cala su di noi come un’apoteosi abbacinante, con tanto di synth a rinsaldarne la forza d'urto: “From the mentally blind come ideas/ that are poison/ take away the power/ a shallow person you will find” (Dal cieco mentalmente/ giungono idee velenose/ Togli il potere/ troverai una persona poco profonda"). Gli esseri umani “mentalmente chiusi”, fa notare Chuck, non sono in grado di accettare e rispettare le idee altrui. Ciò rende le loro opinioni autodistruttive e tutto quello che ottengono è solo disperazione: “Your opinions are self-destructive/ Despair is your gain”.

death_band_roadrunnerLa densità della title track è assolutamente spaventosa. Hoglan e DiGiorgio tessono una trama ritmica tanto monolitica quanto dinamica (il doppio pedale del primo viaggia a velocità indiavolata; le corde del basso del secondo risuonano con elastica frenesia, in un vibrante connubio di potenza e ricami fusion), mentre le due chitarre fanno scintille quasi fossero due treni in corsa. I “modelli di pensiero individuali” sono quei modelli di libera interpretazione del mondo e del proprio rapporto con esso che ogni uomo deve perseguire se vuole davvero uscire dall’ipnosi di massa (che è “a drug it feeds the imagination”, “una droga che nutre l’immaginazione”) causata dal dominio della televisione e dei mass-media in generale.
Un atmosferico arpeggio di chitarre acustiche fa da preludio a “Destiny”, la cui prima parte procede lungo la traiettoria di un drammatico midtempo, prima che il brano s’inalberi irrimediabilmente, passando attraverso torride triangolazioni e momenti più ariosi. Incastonato qua e là, un refrain d’acciaio, perfetto per alludere alla forza inscalfibile del destino: “Destiny is what we all seek/ Destiny was waiting for you and me” ("Il destino è ciò che tutti noi cerchiamo/ Il destino ci sta aspettando”). Il tema del destino affascinò per tutta la sua vita Chuck, intimorito, come ogni essere umano che si rispetti fin dall’origine della nostra avventura su questa terra, dalle “cose inaspettate” (“The unexpected I sometimes fear”), che lo scorrere del tempo, “una cosa che dobbiamo accettare” ("A thing we must accept”), ci riserva a ogni piè sospinto. L’unico modo per far andare le cose al loro posto è comprendere che l’uomo non può dominare il destino e il riconoscimento della sua inscalfibile potenza rende accettabile, perché necessario, anche il dolore: solo passando attraverso di esso è possibile raggiungere le profondità più nascoste della nostra psiche, lì dove s’annida “l’altra metà, quella vera”.

I know there is no way to avoid the pain
That we must go through
To find the other half that is true

Prima di esplodere nell’ennesimo massacro prog-tech-death, “Out Of Touch” indugia in un preludio atmosferico, con le tastiere a dare man forte. Tra i brani meno celebrati del disco, “Out Of Touch” ha dalla sua una fascinosa commistione di trame rocciose, divagazioni old-school in odor di NWOBHM e fughe dai toni trionfali. Il testo è, invece, una denuncia del vicolo cieco che la scena death-metal, alla ricerca di un suono sempre più estremo e, non di rado, meno originale, aveva imboccato dopo una prima, avvincente fase: “To be extreme/ so it seems is a mental crutch/ To cover up for those/ that are completely out of touch”. Il desiderio di spingersi costantemente oltre i propri limiti e verso un sound tanto tecnico quanto potente avevano allontanato Chuck da coloro che erano rimasti “intrappolati in un mondo sperduto/ fatto di brutalità”.

 

Per sigillare il suo capolavoro, Chuck scrisse “The Philosopher”, altro brano dall’architettura progressiva e dal sound roccioso, con il solito DiGiorgio a sfaccettare il tutto con il suo tocco jazz e Hoglan a imbastire l’ennesima performance chirurgica dietro le pelli. In uno dei suoi testi più sofferti, Chuck si scaglia contro la figura del “filosofo”, qui intesa come quel tipo di persona che, chiuso nella metaforica stanza delle sue astratte teorie, non riesce ad avere una vera conoscenza del mondo e degli altri. Molto probabilmente, il vero bersaglio di Chuck è l'ex-compagno di band Paul Masvidal, che spesso lo infastidiva con le sue tirate pseudo-filosofiche sull'essere e l'apparire.  

Do you feel what I feel,
See what I see,
Hear what I hear
There is a line you must draw
Between your dream world and reality


chuck_schuldiner_deathRaggiunto il picco della sua arte con un disco destinato a lasciare un segno indelebile nella storia del metal estremo, soprattutto quello più tecnico, progressivo ed “esistenziale”, Schuldiner non dormì sugli allori. Fedele al suo motto (“let the metal flow”, insomma: “lasciate che il metal fluisca”) cercò invece di spingersi ancora più oltre, pubblicando, due anni dopo, "Symbolic" (ancora con Hoglan alla batteria, mentre al basso e alla chitarra furono chiamati rispettivamente i semisconosciuti Kelly Conlon e Bobby Koelble), un disco che suona meno claustrofobico e complesso di "Individual Thought Patterns", ma anche leggermente più melodico.
Da un punto di vista tematico, Chuck proseguì invece in direzione di un’analisi introspettiva che in questi solchi si tinge di cupa malinconia. La ricerca della luce, come canta in “Perennial Quest”, passa necessariamente attraverso l’oscurità, ma alla fine si comprende che le risposte si possono trovare solo in una “ricerca perenne”, a dire che l’inquietudine è un fattore essenziale della dimensione umana.

 

Dopo "Symbolic", Chuck farà calare il sipario sull’avventura dei Death, desideroso di darsi a una musica ancora più tecnica e articolata, che non disdegnasse, però, di guardare all’occorrenza anche alle sorgenti più “classiche” del metal. Nacquero così i Control Denied, che nel 1999 pubblicheranno un poco convincente “The Fragile Art Of Existence”, un disco il cui titolo, col senno di poi, fa pensare quanto profondamente Chuck avvertisse la fragilità della propria esistenza. Del resto, un anno prima, dovendo riesumare la sigla Death per questioni contrattuali, se ne era uscito con un "The Sound Of Perseverance" che, nell’unire la matrice prog-death-metal al thrash più tecnico, urlava al mondo tutta la tenacia e la perseveranza di un musicista follemente innamorato della musica e della vita in tutte le sue manifestazioni.
Nel giro di un anno, la sua vita sarebbe stata sconvolta dalla diagnosi di un tumore al cervello, cui seguì un calvario fatto di cure debilitanti, problemi con l'assicurazione sanitaria e appassionati tentativi di restare attaccati alla speranza che s'infransero contro il muro dell'irreparabile quando, il 13 dicembre del 2001, la morte, quella con cui aveva cominciato a fare i conti che non aveva ancora compiuto dieci anni, gli si rivelò in carne e ossa per consegnarlo alla leggenda. 

Se fosse possibile, mi piacerebbe vivere per sempre
(Chuck Schuldiner)

04/12/2022

Tracklist

  1. Overactive Imagination
  2. In Human Form
  3. Jealousy
  4. Trapped in a Corner
  5. Nothing is Everything
  6. Mentally Blind
  7. Individual Thought Patterns
  8. Destiny
  9. Out of Touch
  10. The Philosopher

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