Emo-pop-punk. Quanti appartenenti a tale connubio di generi sono riusciti a smarcarsi dal mood adolescenziale degli esordi o quantomeno a evolvere negli anni, reinventarsi, portando sound e testi a uno step successivo? Non in molti, è sufficiente pensare a progetti come Fall Out Boy, All Time Low e Panic! At The Disco, nati all’inizio del Duemila e invecchiati non al meglio possibile. Tale scena, ancora fin troppo sottovalutata, ha segnato un periodo, accompagnando la crescita di un’intera generazione. A rientrare nella cerchia ristretta di coloro che ce l’hanno fatta, oltre ai monumentali My Chemical Romance, sono sicuramente i Paramore.
Il gruppo, fondato originariamente dall’iconica cantante Hayley Williams, dai fratelli Josh e Zac Farro, rispettivamente chitarra e batteria, e dal bassista Jeremy Davis, porta in dote fin dall’inizio numerose influenze. Spiccano quelle di Jimmy Eat World, principali responsabili insieme ai Weezer delle prime commistioni emo-pop, American Football, Death Cab For Cutie, le atmosfere arena-rock degli ultimi Sunny Day Real Estate e dei Foo Fighters, e le commistioni ricercate dai No Doubt guidati da Gwen Stefani.
Numerosi cambi e stravolgimenti nella formazione portano negli anni Hayley, unica componente fissa della band, e soci a sperimentare in direzioni sempre nuove, pur mantenendo un’identità personale. Il gruppo si diletta prima con alt-rock e folk-rock, staccandosi gradualmente dalla matrice emo, per poi incorporare successivamente funk, elettronica e melodie sintetiche tipiche di new wave e dance, da ricercare in figure storiche come i Blondie, Cyndi Lauper, gli eclettici Talking Heads e il loro side-project Tom Tom Club, arrivando a lambire sentieri post-hc, math-rock e post-rock.
Il processo di songwriting si dimostra un vero e proprio viaggio di formazione, attraverso temi focalizzati su rapporti interpersonali, familiari, sentimentali, di amicizia, e tra i componenti della band. Uno dei leit-motiv che si ripropone all’interno delle opere è l’idea di “pressione” che grava costantemente sulle persone, nei lavori d’esordio in maniera più diretta ed esemplificata a misura di teenager, aumentandone la complessità nel tempo, fino a toccare da vicino più volte il delicato tema della salute mentale, caro in particolar modo a Williams.
Rioters: we can feel the pressure…
Il 2004 è l’anno che fissa sulla carta la formazione ufficiale della band, ma le origini reali risalgono a due anni prima, ai tempi della scuola. A tredici anni, Hayley si stabilisce con la madre a Franklin nel Tennessee e incontra Josh e Zac a un corso supplementare, instaurando subito un forte legame con loro, grazie alla passione in comune per la musica. Il suo mentore e primo insegnante di canto è Brett Manning, oggi noto come preparatore, tra le tante, di Taylor Swift, Poppy, Miley Cyrus e Leona Lewis.
Con l’inizio delle lezioni di musica, l’artista entra a far parte di una cover band funk chiamata The Factory, dove conosce Jeremy Davis. L’amicizia dei quattro si consolida al punto da iniziare a scrivere e condividere materiale proprio, e provare insieme, iscrivendosi a concorsi, esibendosi agli spettacoli scolastici e nei locali della zona. A loro si aggrega poco dopo anche la chitarra ritmica di Jason Bynum, e nel giro di un paio di anni il quintetto brucia le tappe accedendo alle venue più importanti del luogo. Vengono contattati dalla Atlantic, inizialmente con l’intento di scritturare la sola Hayley, ma l’etichetta decide di non metterli immediatamente sotto una major, bensì di cercare una sussidiaria più adatta alla loro immagine. A puntare ufficialmente su di loro è la Fueled By Ramen, focalizzata sulla nuova scena emo, di John Janick e Vinnie Fiorello (ex-Less Than Jake), con cui firmano ufficialmente nella primavera del 2005.
Il gruppo si trasferisce in Florida, dove ha sede l’etichetta discografica, per iniziare a lavorare al debut, ma arriva subito una prima batosta: Davis è costretto a lasciare la band per motivi personali. La pausa per il bassista sarà solo momentanea, ma l’esordio All We Know Is Falling (2005) prende le mosse da questo episodio, e suona come una sorta di diario, soprattutto per Hayley. Tale “taccuino personale” presenta svariate pecche, ma è giusto che venga considerato in un’ottica equa, ovvero quella di un disco elaborato da teenager, dove le mancanze sono bilanciate da elementi più che discreti e momenti validi. A incidere maggiormente è la totale inesistenza di passaggi chiave affidati al basso, sebbene il gruppo avesse trovato dei turnisti con cui registrarne le partiture, rendendo le sonorità troppo piatte e ripetitive, vittime dei cliché pop-punk degli anni Zero. Forse un’ulteriore maniera per sottolineare come la presenza di Jeremy facesse la differenza, evidenziata anche dall’ombra presente sulla copertina dell’opera.
Tra pezzi estremamente semplici che puntano su guitar riff veloci e sing-along, il cui esempio più esplicito sono “Whoa” e “Never Let This Go”, a meritare più attenzione è la prima parte dell’album. Il trittico in apertura vede la grintosa “All We Know”, che tratta il divorzio dei genitori di Hayley e al contempo l’uscita di Davis dal gruppo, la più famosa e anthemica “Pressure”, e la relazione tossica dal punto di vista di un’adolescente espressa in “Emergency”. Fanno una buona impressione anche le frustrazioni personali di “Conspiracy”, prima canzone in assoluto a essere stata scritta da Williams, insieme all’amico Taylor York, al tempo saltuario collaboratore esterno al progetto, e la variazione sul tema con lo scream accennato di Josh Farro nella conclusiva “My Heart”, che parla dell’importanza della fede cristiana per i componenti del band.
I riscontri consistenti a livello commerciale, così come una rivalutazione da parte della critica (inizialmente non troppo favorevole), che allo stato attuale annovera l’album come un classico della scena emo-pop dell’epoca, per All We Know Is Falling arriveranno gradualmente, dal 2007 in avanti, grazie al successo planetario del sophomore Riot!, pubblicato lo stesso anno.
Al termine del 2005 Davis torna ufficialmente in formazione, mentre a lasciare è Jason Bynum, sostituito da Hunter Lamb. Per promuovere l’esordio, anziché puntare immediatamente sulla diffusione radiofonica, i Paramore iniziano a supportare in tour Simple Plan, Funeral For A Friend e molti altri, partecipando inoltre alle edizioni 2005 e 2006 del Warped Tour, nota vetrina per progetti punk-rock, emo, alt-rock e post-hardcore. La carismatica Hayley diviene da subito l’icona distintiva del gruppo per i suoi capelli rosso fuoco e il ciuffo piastrato secondo la moda del periodo, che stravolgerà in seguito con mille tagli e colori differenti (tale caratteristica la condurrà anche a fondare la Good Dye Young, brand di tinte per capelli), e una voce notevole e ricca di potenziale.
Conclusa la tournée internazionale, agli albori del 2007, gli artisti tornano in sala di registrazione, senza Lamb, per dedicarsi alla stesura del sophomore.
Tra continui screzi e conflitti interni, Riot! (2007) prende forma e si propone come un incontrollato sfogo liberatorio di emozioni: fanno capolino i primi rimandi velati alla depressione della frontwoman (“Miracle”), tradimenti d’amicizia (“For A Pessimist, I'm Pretty Optimistic”), la difficile gestione della vita da personaggio pubblico (“Fences”) e qualche passaggio motivazionale (“Hallelujah”).
Non compie ancora una decisa virata verso power-pop e alt-rock come Paramore (2013), ma si appresta a spingere in direzione pop-rock il proprio operato, guardandosi intorno in cerca di qualcosa di nuovo e al contempo sulla cresta dell’onda. Ne fa fede l’artwork del disco che strizza l’occhio a quello di “Rock Steady” dei No Doubt. A vincere tutto è il pezzo cardine “Misery Business”, video tra i più kitsch ambientato nella classica high school incluso, attirando l’attenzione di Mtv, che lo piazza in alta rotazione, facendo conoscere la band anche in Europa. Revenge song tra le più bastarde e schiette, mostra il punto di vista di una ragazza che si rivale su un’altra: la materia del contendere tra Williams e l’antagonista, a distanza di tempo, si scoprirà essere proprio Josh. Hayley negli anni subirà molte critiche che la porteranno a rifiutarsi di cantare la hit, tra le più conosciute del repertorio, dal 2018 in poi, a causa del testo reputato (alquanto forzatamente) “sessista”. E a tal proposito è bene ringraziare il contributo di Billie Eilish e suo fratello Finneas per averla convinta con un tranello a riproporla dal vivo insieme a loro, finendo così per inserirla di nuovo in scaletta alla fine del 2022.
Il merito principale di Riot! è di essere riuscito a diventare un cult grazie a brani esplosivi come quello sopracitato, anthem leggermente più articolati rispetto a quelli presenti nel disco di debutto e dai ritornelli contagiosi, come la ruffiana e armonica “That's What You Get”, i bei riff e i refrain killer di “Let The Flames Begin” e “Crushcrushcrush”, e il ringraziamento ai fan “Born For This”, in mezzo alle cui rullate, macinate da Zac, spicca (finalmente) il basso di Davis.
Inevitabile la nomea di “paraculi”, per esser riusciti quasi colpevolmente a raggiungere i numeri di una pop-rock band da stadio in un battito di ciglia. Ulteriori piccole novità riguardano l’uso di nuovi registri vocali da parte di Hayley, e primi approcci alla ballad, ancorati tuttavia a uno stile impersonale, come “When It Rains” e la preghiera “We Are Broken”, che per certi versi si affiancano all’operato di Avril Lavigne in “Under My Skin”.
Inguaribili paraculi o no, dopo quasi due anni di tour promozionale, il primo per loro a livello mondiale, i Paramore consolidano un successo che non accenna a scemare, grazie all’ulteriore dose di visibilità ottenuta con la composizione di due brani per la colonna sonora di “Twilight” (altro tassello dell’adolescenza che molti di noi rinnegano per vergogna, ma che in realtà abbiamo visto tutti almeno una volta nella vita), la brillante e tesa “Decode” e “I Caught Myself”. Il primo, in particolare, pubblicato come singolo, si aggiudica il disco di platino a mani basse in Australia e Usa, superando i risultati già da record degli estratti di Riot!.
Occhi (e orecchie) nuovi di zecca
Passata la pioggia torrenziale di nomine a premi e svariate vittorie ai Teen Choice Awards, la band si dedica al terzo capitolo Brand New Eyes (2009), che vede alla produzione Rob Cavallo (My Chemical Romance, Green Day, Alanis Morissette) e rappresenta l’unica (e ultima) occasione di vedere in studio una formazione completa a quintetto. Taylor York, rimasto ai margini fino a quel momento e già autore accreditato di alcune tracce appartenenti ai dischi precedenti, entra a pieno titolo nel gruppo in qualità di chitarra ritmica nel giugno del 2009. I nostri iniziano a differenziarsi dai compagni di etichetta emo-pop, anteponendo una matrice alternative-rock, mostrando i primi segni di crescita in materia di stesura dei testi (dal forte carattere introspettivo), nello studio degli arrangiamenti, e nella cura della parte visuale, oltre a una maggior coralità a livello di sound, non più piatto come agli esordi. Il tema del cambiamento, insieme a riflessioni sulla fede e sul passato, la fanno da padroni, simboleggiati anche dalla farfalla sulla copertina.
Altro segno dell’effettivo desiderio di svincolarsi dalle precedenti etichette affibbiate, si evince dal rifiuto del gruppo di collaborare nell’estate dello stesso anno alla colonna sonora del seguito di “Twilight”, “New Moon”, per evitare di essere bollati come “la band dei vampiri”. A fungere da ponte con la produzione precedente è la ricerca di senso esplicitata nell’apertura “Careful”, caratterizzata da un drumming serrato e da un bridge melodico, e la rabbia vomitata tra le note dell’aggressiva “Ignorance”.
I coretti pop di “Playing God” strizzano l’occhio ai Jimmy Eat World e trattano il tema del peso del giudizio, in continuità con la traccia precedente, ma da un’angolazione differente, che chiama in causa l’ipocrisia della religione (argomento centrale anche di “Turn It Off”), mentre l’anthem “Brick By Boring Brick” offre a più riprese focus su bassline e dettagli di tastiere e organo.
Punti focali dell’album sono anche le due tracce acustiche “The Only Exception”, ballatona nella quale traspare l’anima del gruppo, trattandosi di fatto della prima canzone d’amore scritta da Hayley, e la scarna e sottilissima “Misguided Ghosts”. L’ultima vetta è segnata dalla chiusura con la splendida breakup song “All I Wanted”, dall’incedere più lento e drammatico, dedicata all’allora fidanzato di Williams, Chad Gilbert (New Found Glory).
L’album scala in breve tempo le classifiche in tutto il mondo, attestandosi a maggior successo ottenuto dai Paramore fino a quel momento, ed è di nuovo un trionfo di premi. Ma tra un tira e molla continuo e rumors sempre più pressanti sulla reale stabilità della formazione e su dissapori interni, qualcosa si rompe definitivamente e nel dicembre del 2010 i fratelli Farro si sganciano dalla band. Tenteranno inizialmente una brevissima avventura insieme fondando i Novel American, e poi divisi, Josh in solitaria con la piccola parentesi Farro, e Zac con il progetto HalfNoise.
Start again: we grow up, never grow old
L’abbandono di Zac e Josh porta scompiglio e ulteriori piccole schermaglie sul web, dove quest’ultimo accusa i componenti rimasti, e in particolare Hayley, di essere ormai un prodotto fabbricato dalla casa discografica. Williams, York e Davis non si danno per vinti, e dopo essersi riorganizzati per portare a termine il tour, nel gennaio del 2011 annunciano di essere pronti a lavorare a nuovo materiale e a esplorare territori sonori inediti, durante un’intervista per Mtv.
Nel corso dello stesso anno contribuiscono alla colonna sonora di “Transformers 3” con il brano “Monster” e pubblicano in serie “Renegade”, “Hello Cold World” e “In The Mourning”, raccogliendo le quattro tracce nell’Ep Singles.
Nel corso del 2012 il gruppo si divide gli oneri in studio per lavorare alla quarta fatica: Hayley e Davis, oltre ai rispettivi voce e basso, si occupano di synth e tastiere, a York spettano chitarre, parte inerente alla programmazione e alle percussioni, mentre la batteria viene affidata al polistrumentista Ilan Rubin.
Paramore (2013) è un’imponente opera autobiografica di diciassette brani, per la durata totale di poco più di un’ora, tutta improntata al futuro, alle sensazioni d’incertezza e frustrazione ad esso correlate, e alla crescita interiore, nel tentativo di guardare avanti e canalizzare la rabbia e le emozioni negative per ricavarne degli insegnamenti e anche qualcosa di buono. Le sonorità prendono le mosse da una base tra pop-rock e power-pop, a cui si mescolano elettronica, new wave e post-rock, con l’aggiunta all’occorrenza di dettagli funk, gospel e swingbeat. A sostenere il terzetto al timone della produzione, e in alcuni casi anche in veste di tastierista e autore, è Justin Meldal-Johnsen (Nine Inch Nails), persona tra le più adatte a far emergere il lato eclettico e sperimentale della band (e la sua impronta, insieme all’influenza dei NIN, si percepisce in diversi momenti).
Spiazzano fin dal primo ascolto i ritmi e le trame sintetiche della scanzonata “Fast In My Car”, a cui segue l’ancor più elettrizzante “Now”, arricchita da una sezione ritmica incalzante, che prende la rincorsa verso un ritornello esplosivo, dove la frontwoman trae ispirazione dalla produzione e dai registri di Gwen Stefani. “Grow Up” imbriglia arie new wave, così come l’epica “Daydreaming”, che sfodera inoltre pomposi arrangiamenti orchestrali. La sfaccettata “Ain't It Fun”, tra cori gospel e sussulti funk-pop, regala un Grammy al trio nel 2015, facendo di Hayley la prima donna dal 1999 a trionfare nella categoria per la Miglior canzone rock dell’anno.
Fanno ottima mostra di sé i passaggi strumentali spaventosi del crescendo claustrofobico di “Part II”, che lega elettronica, derive math-rock e post-grunge, e si propone come seguito di “Let The Flames Begin”, riprendendone chiaramente alcuni versi. Si spazia ancora con la melodica “Last Hope”, l’upbeat teen-pop, solare e zuccherino di “Still Into You”, il quieto pop-folk di “Hate To See Your Heart Break” e la sorprendente lunga coda della tetra chiusura post-rock di “Future”, nata per un incidente fortuito che ha unito due tracce diverse.
L’album si protrae più del dovuto cadendo in qualche lungaggine evitabile, tra interludi acustici di ukulele e qualche momento calante nella seconda parte, come le motivanti “Anklebiters” e “Be Alone”, “Proof”, e gli archi e il passo doo-wop uniti ai riff di chitarra di “(One Of Those) Crazy Girls”. Brani perfettamente in linea con l’opera, che tuttavia finiscono per appesantirla troppo. Tuttavia, ciò non ferma nemmeno stavolta il trio dal superarsi e scavalcare gli ottimi risultati ottenuti in precedenza, facendogli abbracciare l’ennesimo tour mondiale.
Al termine del 2015 arriva una nuova doccia fredda, con la rottura definitiva tra il gruppo e Jeremy Davis, in seguito alla quale, una volta lasciata la formazione, intenta una causa contro gli ex-compagni Williams e York, per questioni legate ai futuri guadagni del gruppo e a crediti che non gli sarebbero stati riconosciuti. La strada verso il quinto lavoro in studio appare in salita, la tentazione di mollare tutto e sciogliere il progetto è forte, e mette a dura prova i nervi di Hayley. A metà del 2016 lei e Taylor tornano nel Tennessee, a Nashville, per andare in sala di registrazione. A seguirli, oltre a Justin Meldal-Johnsen, sarà Zac Farro, il cui ritorno ufficiale verrà confermato solo all’inizio dell’anno successivo.
After Laughter (2017) è il capitolo più buio dell’era Paramore, dove le atmosfere apparentemente più allegre di sempre, inscenate dalle trame synth-pop e alt-dance d’ispirazione eighties miscelate alla nu-disco, si scontrano acremente con liriche scure e abbastanza creepy (non c’è un modo migliore per rendere il concetto in italiano), influenzate dalla grave depressione di Hayley e dall’ultima frattura del gruppo.
I ritmi esotici conferiti dal suono di una marimba di “Hard Times” si combinano a un ritornello che sembra rievocare la disco di fine Seventies della “Good Times” del gruppo funk Chic, a cui fa seguito l’ottimismo cieco e insostenibile di “Rose-Colored Boy”, dove la new wave degli Altered Images incontra Cyndi Lauper e il pop sintetico degli Scritti Politti. A quest’ultimo tema si accodano i sing-along di “Fake Happy” e “Idle Worship”, mentre nu-disco, new wave e un basso funky si rincorrono nella vivace “Told You So”.
Hayley si guarda allo specchio e fa i conti con gli anni che passano, con i suoi sogni, le sue aspirazioni e le difficoltà che deve affrontare, compiendo un balzo negli anni Novanta con “Caught In The Middle”, grazie ai rimandi ska appartenenti ai primi No Doubt, mentre nell’acustica “26” gioca solo sulle note di due violini, un violoncello e una viola.
Non mancano le riflessioni sui rapporti d’amore e di amicizia. La cristallina “Pool” tratta il lato oscuro di una relazione sentimentale, “Grudges” invece il rimpianto per il tempo sprecato a non rivolgersi la parola dopo aver ritrovato un amico; mentre i battimani della leggera “Forgiveness” sono incentrati sull’incapacità di perdonare alcune azioni, e il fulcro dell’ovattata e riflessiva “Tell Me How”, dove marimba e tastiere sono nuovamente protagoniste, è la perdita di una persona a causa di una crepa profonda e insanabile. L’unica cartuccia sparata a salve nel lotto è l’ipnotica “No Friend”, dove a prestare la voce per il serrato spoken word appena udibile è Aaron Weiss dei mewithoutYou.
Ottenuto un consenso praticamente unanime da parte della critica, al termine dell’After Laughter Tour nell’estate del 2018, la band decide di prendersi una pausa indefinita.
Hayley indossa un’armatura di fiori e balla da sola
Della carriera solista di Hayley si era sempre parlato molto poco, eppure la cantante aveva partecipato alla realizzazione di colonne sonore e portato avanti alcune collaborazioni. Tra le migliori da recuperare figurano “Bury It”, featuring incluso in “Every Open Eye” (2016) dei Chvrches, e “Uncomfortably Numb” degli American Football di Mike Kinsella, gruppo simbolo nella storia della musica emo e math-rock, contenuto in “LP3” (2019).
L’inizio del 2020 segna la svolta ufficiale con la pubblicazione del singolo “Simmer”, ottimo anticipatore del debutto solista Petals For Armor, che vede la luce in pieno lockdown nel maggio dello stesso anno.
Le liriche raccontano il percorso di una donna in lotta con i propri demoni per ritrovare un equilibrio, e sono accompagnate da sonorità minimali, orientate all’elettronica, sostenute dai differenti stili di canto adottati dall’artista. L’arte visuale, per quanto concerne videoclip dei singoli, annessi make-up e coreografie, e artwork, ha un ruolo centrale nell’opera, tanto che, data la cura ossessiva dei dettagli, viene naturale associare la cantante a personalità legate a varie declinazioni dell’art-pop come Björk, Grimes, Billie Eilish e colleghe.
All’interno del disco sono presenti anche i compagni di avventura dell’artista: Taylor York ha il ruolo di produttore, arrangiatore e autore, mentre Zac Farro si occupa di dirigere il videoclip di “Dead Horse”.
Suddiviso in tre Ep prima della sua pubblicazione completa, Petals For Armor può andare a genio o alla lunga risultare un po’ ridondante. Nella prima parte risaltano l’opener dark e ossessiva “Simmer”, i cui versi fanno riferimento al tentare di gestire gli impulsi di rabbia e l’ansia, i toni di “Sudden Desire”, l’aspra e triste “Leave It Alone”, dove la collera lascia il posto al dolore e a una presa di coscienza, raffigurata metaforicamente nel video della traccia dalla rinascita di Hayley attraverso un bozzolo. Lo stesso concetto è sottolineato dai ritmi incalzanti di “Cinnamon”, nella quale l’artista riconosce di essere libera e non più sola. Il secondo blocco comprende pezzi di carattere ancor più intimo, come il brano dance-pop nineties “Dead Horse” che parla del rapporto burrascoso con l’ex-Chad Gilbert, i toni dance-punk della motivazionale “Over Yet”, indirizzata a coloro che combattono la depressione, e la riflessiva ballad “Why We Ever”, che fa ancora riferimento a rapporti complicati e al difficile distacco dal passato.
La trasognata “Roses/Lotus/Violet/Iris” utilizza metafore floreali per raccontare una storia di crescita e ricerca interiore, e vede la partecipazione del supergruppo indie boygenius, formato da Phoebe Bridgers, Julien Baker e Lucy Dacus.
L’ultima parte ha come punto focale “Pure Love”, traccia collegata idealmente a “Sudden Desire” e “Dead Horse”, poiché descrive ciò che può comportare innamorarsi di nuovo. “Sugar On The Rim” è uno dei brani più sperimentali dell’album e riesce a tratteggiare l’equilibrio raggiunto dalla cantante grazie all’esperienza, sia dal punto di vista delle sonorità sia da quello testuale.
“Watch Me While I Bloom” e “Crystal Clear”, in chiusura, sono rispettivamente un’ulteriore metafora floreale, riferita alla nuova vita dell’artista, e una canzone d’amore.
Petals For Armor è un debutto fatto di luci e ombre, per i temi illustrati e per la lievissima ripetitività che lo affligge, ma grazie a tale esordio in solitaria, viene riconosciuto ufficialmente (in grande ritardo) a Hayley lo status di fonte ispiratrice per le cantautrici della nuova generazione, come la stessa Phoebe Bridgers, che la cita sempre apertamente tra le proprie influenze personali.
A sorpresa, dopo una serie di indizi disseminati sui social, a inizio 2021 la cantante pubblica Flowers For Vases/Descansos, una specie di prequel da collocare tra le prime due parti di Petals For Armor. Registrato nella sua casa di Nashville, e interamente composto ed eseguito dall’artista, si divide tra indie-folk e ambient-pop, senza usare trucchi di sorta: focalizzato sulla voce di Hayley e su liriche introspettive, l’album intavola un dialogo intimo e diretto tra lei e l’ascoltatore, al pari di un’opera come “Folklore” per Taylor Swift, rappresentando un’ulteriore tappa del percorso formativo di Williams.
Il disco è inaugurato dai tormenti e i ricordi di “First Thing To Go”, che si aggancia ai temi trattati in “Why We Ever”, mentre la successiva e ipnotica “My Limb” fa riferimento a “Simmer” e descrive la perdita di qualcuno di talmente importante da poter essere considerato una parte di sé. In “Asystole” l’arresto cardiaco è metafora del fallimento di un rapporto, mentre la cadenzata “Trigger” racconta vecchie relazioni tossiche e il bisogno di essere amata, e “Over Those Hills” è un cocktail di medicinali e pensieri rivolti a un ex-partner.
“Inordinary” è uno dei brani più importanti dell’album e ripercorre l’infanzia e l’adolescenza di Hayley ricordando il suo esordio con i Paramore, e rivalutando la semplicità delle piccole cose quotidiane. Altri passaggi importanti da segnalare sono l’ironica intro di “HYD”, la breve e dolce “Find Me Here” e la chiusura affidata al lento crescendo di “Just A Lover”, in cui Williams fa trasparire l’idea di abbandonare il gruppo (e la musica in generale) per poter dedicare più tempo a se stessa. La strumentale “Descansos” deve il suo titolo al termine spagnolo che indica i memoriali lasciati nei luoghi in cui qualcuno ha perso la vita o ha radicalmente cambiato la propria, qui metafora del desiderio di rivoluzionare la propria persona, superando i traumi, i dolori e le insicurezze che l’artista si trascina dai tempi dell’adolescenza.
Seppur tra alti e bassi, Hayley attraverso il suo sophomore è riuscita a dimostrare in maniera simbolica a tutti, e in particolar modo a se stessa, di poter essere completa in tutto e per tutto anche da sola.
One step beyond your door/ It might as well have been a free fall
In una realtà basata sulla musica “usa e getta”, dove a farla da padroni sono i numeri su Spotify, in termini di ascolti e pubblicazioni costanti e repentine per restare sotto i riflettori, si discute sempre di più dell’importanza di mettere un progetto in pausa in attesa della giusta ispirazione. Tale ragionamento assume ancor più rilievo quando le parti in causa sono band, e non singoli artisti. L’idea di hiatus indefinito da parte di un gruppo è la bestia nera di ogni fan, e coloro che seguivano la vicenda dei Paramore ci avevano ormai fatto il callo. La formazione americana, composta dalla cantante Hayley Williams, dal chitarrista Taylor York e dal batterista Zac Farro, era stata data per spacciata infinite volte, e l’inizio della carriera solista dell’eclettica frontwoman con Petals For Armor lasciava presagire che la porta verso un eventuale ritorno sarebbe rimasta chiusa. La svolta con This Is Why (2023), insieme a un ritorno dei nostri verso territori punk non ancora esplorati, arriva a sei anni da After Laughter, nel quale i Paramore avevano abbracciato inedite atmosfere alt-dance e synth-pop.
L’eccellente title track entra subito nel vivo mettendo in luce le nuove influenze sviluppate dal terzetto: una base scarna per le strofe, sostenuta da una bassline ipnotica e funky in secondo piano, energia dance-punk nel ritornello, testi schietti e personali (i collegamenti con il debut solista di Williams non si contano, né qui né nelle tracce a seguire) scritti a sei mani, il tutto accompagnato da un videoclip diretto da Brendan Yates dei Turnstile.
Le strofe asciutte di “The News” cavalcano la nuova ondata post-punk in direzione The Lounge Society, includendo rimandi ai primi Bloc Party, grazie alle sonorità meccaniche intavolate dal drumming di Farro e dai riff taglienti di York, e conservando nel ritornello quell’impronta pop-punk tipica della band, in grado di far sussultare i rioters più devoti. Sfodera un lato new wave associato a dettagli funk la ballerina “Running Out Of Time”, dove Hayley ride della sua scarsa capacità di gestione del tempo, argomento a cui si aggancia anche “C'est Comme Ça”. Quest’ultima rappresenta il punto meno riuscito: caratterizzata da strofe con sprechgesang à-la Dry Cleaning, in linea con le atmosfere generali dell’opera, sciorina un refrain tra i più orecchiabili, studiato meramente per appiccicarsi addosso.
Trovato l'unico neo, il disco non sgarra più una nota fino alla fine. La leggera “Big Man, Little Dignity” segue una direzione dream-pop e cela una stilettata nei confronti degli uomini che si smarcano da ogni responsabilità; mentre “You First” e la successiva “Figure 8”, che prende in prestito dei sample di “Arcarsenal” degli At The Drive-In, puntano su post-hc e math-rock. La dolce ballad “Liar” torna verso sonorità dreamy, a cui fa eco la nostalgia imbrigliata nell’armonica “Crave”, chiudendo con la riflessiva e atmosferica “Thick Skull”.
Ultimo atto simbolico dell’attuale “era Paramore”, il disco si smarca dalla precedente produzione aggregando alla matrice post-hc toni sommessi slowcore in stile American Music Club, sfiorando una deriva post-rock. Bilanciato e attraente come una calamita fin dal primo brano, This Is Why regala un sospiro di sollievo a chi dava la formazione del Tennessee per spacciata, ma non solo: l’album è l’ennesimo tassello riuscito di un’articolata evoluzione stilistica, iniziata nel 2009 con Brand New Eyes. Tale processo ha consentito a Hayley e soci di crescere, ampliare nel tempo la propria platea di pubblico e uscire dalla nicchia emo-pop-punk adolescenziale, ma allo stesso tempo ne ha conservato intatta la forte identità. Segno che sotto le ceneri covano ancora le fiamme dei rioters di un tempo, ormai liberi da ogni vincolo.