Nine Inch Nails - Trent Reznor

Nine Inch Nails - Trent Reznor

La fabbrica di Mr. Autodistruzione

Ribattezzato "Mister Autodistruzione", Trent Reznor ha creato con i suoi Nine Inch Nails una delle più innovative e violente creature musicali degli ultimi anni, donando all'industrial-rock la sensibilità dei cantautori più introspettivi e le nevrosi dei rocker maledetti

di Mauro Roma + AA. VV.

Trent Reznor è una delle figure-chiave del rock anni Novanta. L'artista che ha saputo unire la poesia dei songwriter più introspettivo, la nevrosi del rocker maledetto, le pulsioni distruttive della musica industriale. Con Reznor la musica industriale è giunta alla sua più compiuta e definitiva ibridazione con il rock, completando il percorso intrapreso dai Ministry: e Reznor stesso incarna il punto di incontro perfetto tra il produttore, manipolatore e costruttore di suoni "artificiali" e il musicista rock, con tutta la sua sensibilità poetica, la sua energia, il suo impatto puramente "fisico" diretto, senza mezzi termini, a esprimere un lancinante "mal di vivere". Più di tutto Reznor possiede la qualità che manca a pressoché tutti i maestri della musica industriale: il talento melodico, una reale capacità di scrivere canzoni memorabili.

Reznor ha affinato le sue armi attraverso una produzione discografica che, nello spazio di quindici anni, ha dato vita a: tre dischi (di cui uno doppio), un Ep, tre album di remix e un live ufficiale. Pochissimo se si pensa alla produzione media della maggior parte delle band industriali: e se si pensa invece al rock, Reznor rappresenta ancora di più una clamorosa eccezione: in un mercato sempre più frenetico chi altri, tra gli artisti di successo, avrebbe il coraggio di far passare cinque anni tra un disco e l'altro? Una anti-rockstar, diventato, quasi suo malgrado, un punto di riferimento imprescindibile di tutto un movimento musicale, tanto per chi lo ha preceduto, quanto per chi lo ha seguito. Una rockstar che fa dell'autolesionismo il suo credo (e non solo nei testi, ma anche nei video e soprattutto nelle spericolate performance dal vivo); un produttore capace di trasformare in fenomeno di massa tanto la sua musica quanto quella di un personaggio come Marilyn Manson; un "fragile" e sensibile cantautore. Ma prima di diventare tutto questo, Trent Reznor è stato quanto di più lontano si può immaginare dall'indemoniato "one-man-band" dei Nine Inch Nails. Nato nel 1965, a Mercer, cittadina della Pennsylvania, a soli cinque anni Reznor si scopre - o meglio viene scoperto - precoce talento al pianoforte. Un enfant prodige la cui infanzia è stata divisa tra la musica di Mozart, gli insegnanti, le prove e i concerti, e segnata dal difficile rapporto con i genitori (a occuparsi seriamente di Trent è praticamente la sola nonna materna), i quali divorziano dopo pochi anni: ma più che dal pianoforte, progressivamente abbandonato, il giovane Reznor è affascinato dall'elettronica, e andatosene dalla sua piccola città, trasferitosi a Cleveland, Ohio, comincia a muovere i primi passi nella scena underground della città, militando come tastierista in diverse band. Con una di queste, gli Innocent, incide nel 1985 il suo primo album, in uno stile wave-synth pop molto canonico. Tra le varie esperienze musicali intraprese a Cleveland il principale evento per Trent è l'incontro con il batterista Chris Vrenna, col quale nasce non solo un'amicizia personale ma anche l'embrione di ciò che saranno i Nine Inch Nails: nel frattempo Reznor si mantiene lavorando negli studi Right Track, dove ha la possibilità di imparare le tecniche di registrazione, produzione, mixaggio e manipolazione sonora.

È così che nel 1988 inizia a registrare canzoni da lui interamente scritte, arrangiate ed eseguite, nascondendosi dietro la sigla Nine Inch Nails: inizialmente è aiutato solo da Vrenna e in misura minore da Richard Patrick (chitarrista, poi fondatore dei Filter); ottenuto un contratto con l'etichetta TVT le canzoni verranno rivedute e corrette insieme a pezzi da novanta come Flood, Keith Leblanc e Adrian Sherwood, oltre a venire remixate a Londra da John Fryer, famoso per il suo lavoro con il progetto This Mortal Coil (citato da Reznor come fonte di ispirazione, insieme anche ad artisti come Jane's Addiction, Prince e Public Enemy). Nel 1989 Nine Inch Nails fa il suo esordio ufficiale sul mercato discografico con il singolo "Down In It", preludio al primo album Pretty Hate Machine. L'album diventa un vero e proprio cult nella scena industrial-rock del periodo. Pur risentendo ancora dell'influenza dei sovrani (allora) incontrastati del genere, Ministry e Skinny Puppy, l'opera prima del ventiquattrenne Reznor presenta un musicista "tuttofare" dalla personalità debordante, capace di mimetizzarsi dietro partiture che rimandano ora all'hip-hop (è il caso del singolo "Down In It"), o di annegare in soffocanti atmosfere "dark" (ed è il caso di pezzi come la minacciosa "Sanctified" - fin troppo memore però della "Cannibal Song" dei Ministry - e la tragica "Terrible Lie"), ma anche di esaltarsi in trascinanti danze che diventano immediatamente il fiore all'occhiello delle discoteche alternative (il secondo singolo "Head Like A Hole" e soprattutto "Sin", il primo vero capolavoro di Reznor, che sarebbe un gioiello di synth-pop melodico se non fosse sfigurato da un umore nevrotico e mostruose accelerazioni sempre più violente e distorte). La qualità superiore di Reznor è ancora nascosta da un convenzionale approccio electro, ma le sue doti innovative sono lì in attesa di esplodere: nel brano più suggestivo, "Something I Can Never Have", inquietante ballata per sola voce, piano e rumori di fondo, Trent mostra anche le sue straordinarie doti di cantautore introspettivo.

Negli anni successivi il passaparola e il supporto di una major come la Island, spingono l'album fino al triplo disco di platino: l'abrasivo rock elettronico di Nine Inch Nails diventa un clamoroso fenomeno mainstream (qualche anno dopo Pretty Hate Machine verrà incluso persino dal Rolling Stone nei "200 dischi fondamentali del rock"), e l'attività live di Reznor si fa intensa. E si svelano qui le due facce di Nine Inch Nails: "one-man-band" su disco, scatenata rock-band sul palco (con Reznor ci sono il chitarrista Richard Patrick, più la sezione ritmica formata da James Woolley e Jeff Ward). L'attività live influenza non poco il sound di Reznor, che slitta verso dinamiche e strutture decisamente più "rock", relegando in secondo piano l'elettronica, sull'Ep Broken, uscito nel 1992. Solo un Ep, causa dissidi con l'etichetta Tvt (Reznor nel frattempo ha anche creato una propria label, la Nothing Records), con sei pezzi, alcuni dei quali destinati a diventari autentici classici citati fino alla nausea (è il caso di "Wish"), ma nonostante la grande classe di Reznor come songwriter, anche nei momenti più violenti ("Gave Up") e lo straordinario lavoro sul suono (il produttore è Flood), l'Ep evidenzia debiti decisamente ingombranti verso i Ministry: solo "Happiness in Slavery", un accumulo di ritmi, breaks, urla e riff violentissimi, tra i quali si fa largo però un orecchiabilissimo ritornello synth-pop, suona davvero personale, e diventa non a caso un nuovo successo, grazie anche a un contestatissimo e censurato videoclip. Broken sarà  accompagnato da un altro Ep, Fixed, con remix a cura, tra gli altri, di Flood, Adrian Sherwood e Butch Vig.

Un album interessante ma ancora poco incisivo, utile come base di partenza, un Ep gradevole ma poco personale: tanto è bastato a Reznor per creare un'attesa spasmodica intorno a ogni sua nuova mossa. Le voci che circolano intorno alla sua attività nel 1994 fanno sensazione: Reznor ha allestito uno studio nella villa di Beverly Hills dove nel 1969 dei seguaci di Charles Manson assassinarono l'attrice Sharon Tate; Reznor si fa talent-scout e imprenditore musicale di successo, producendo e promuovendo (garantendo così il successo e confermando la sua fama di re Mida del rock underground americano) il disco di una sconosciuta band della Florida la cui musica e i cui show all'insegna di un grezzo e truculento cabaret della provocazione, guidata dal carisma satanico e dalla furbizia scenografica di Brian Warner alias "Marilyn Manson", scandalizzano da subito il pubblico.

Ma soprattutto, nel maggio del 1994 (un mese dopo il suicidio di Kurt Cobain), Reznor pubblica il suo secondo album, e stavolta sarà un punto d'arrivo (e ripartenza) del rock. Il concept The Downward Spiral, straordinario monumento che assimila tutta la coscienza "sporca" dell'epoca: Reznor segue il percorso infernale del suo lato più instabile e psicotico, un alter-ego eloquentemente ribattezzato "Mr.Self Destruct" nella spirale della follia, dell'auto-annientamento, della violenza e della rabbia. All'insegna di fantasie di dominazione sessuale ("Piggy", "Closer" e soprattutto la strepitosa "Big Man With a Gun"), di malevoli attacchi al "sistema" ("Heresy", "March Of The Pigs") e di auto-analisi carica di lancinante, disperata frustrazione ogni volta che il personaggio fa i conti con la sua personale realtà ("The Becoming"- forse il capolavoro - la raffinata suite "Ruiner", e l'apice tragico "Eraser"), l'album è un cammino pressoché incessante tra ritmi martellanti, battiti pesantissimi e chitarre distorte all'inverosimile, fino a compiersi nella fantasia suicida della title-track e alla spiazzante mossa finale, la ballata acustica "Hurt", che è vera catarsi, presa di coscienza di sé stessi attraverso la sofferenza, nonché una canzone emozionante come poche altre (verrà coverizzata anni dopo da Johnny Cash in una versione forse ancora più toccante, e ripresa molte volte dal vivo da David Bowie, artista che condivide con Reznor stima e influenza reciproca - ascoltare "Outside" (1995) di Bowie per credere - e con il quale i Nine Inch Nails suoneranno più volte dal vivo). Il capolavoro di Reznor è compiuto: scrollatosi di dosso l'ombra dei "maestri" Ministry (che anzi, proprio a partire da qui, vanno in crisi di idee e di contenuti), guadagnatosi il rispetto del rock tutto (oltre al già citato Bowie, va ricordato doverosamente Adrian Belew, chitarrista e frontman dei King Crimson, che suona molte delle parti di chitarra dell'album), e confermato il successo commerciale (5 milioni di copie vendute), senza aver ceduto anche solo minimamente ai compromessi del music-business, il musicista di Cleveland ha anche realizzato l'opera che più di ogni altra cattura l'immaginario "oscuro" del suo tempo: il sensazionalismo e lo spettacolo della violenza e del sesso (quanto fa presa un disco simile nell'epoca in cui i serial-killer diventano moda!); tutto il cinismo e l'autolesionismo tipico dell'immaginario dei milioni di giovani appena rimasti orfani di Cobain, che con Reznor diventano improvvisamente "adulti"; in più, e cosa che più conta, la "Spirale" è un'opera musicale straordinaria per varietà, fantasia e compattezza sonora, minuziosamente cesellata insieme a maghi del mixer come Flood e Alan Moulder.

Strepitosa è anche l'opera di "approfondimento", l'album di remix Further Down The Spiral (1995): maghi della manipolazione sonora come i Coil, l'amico Charlie Clouser (che è il tastierista live di Reznor) e il maestro J. G. Thirlwell (alias Foetus) accentuano il versante elettronico dell'opera maggiore senza perdere nulla del suo impatto e della sua suggestione: memorabili in particolare un'accorata versione live di "Hurt" e la sinfonia industriale "At The Heart Of It All", creata per l'occasione da Aphex Twin. Gli anni che seguono sono però difficili sia dal punto di vista personale che professionale: un tour mondiale che impegna per quasi due anni Reznor e la sua band (Robin Finck, chitarra - Danny Lohner, basso - Charlie Clouser, tastiere - Chris Vrenna, batteria), e soprattutto la pressione soffocante dei mass-media (dura prova, per lui, essere uno dei personaggi più chiacchierati - anzi "spettegolati" - d'America) portano Reznor sull'orlo del collasso nervoso. Nel 1997, dopo il successo del disco "Antichrist Superstar", si interrompe il suo felice rapporto di collaborazione e amicizia con Marilyn Manson, ormai diventato una superstar che con la sua pochezza fatta apposta per Mtv eclissa in un batter d'occhio la fama del suo pigmalione; l'anno successivo anche l'amico Chris Vrenna abbandona il progetto (e nel 2000 farà lo stesso il tastierista Charlie Clouser). Incapace di dar seguito al suo capolavoro (l'unica testimonianza sonora dei Nine Inch Nails nel frattempo è, nel 1997, il mediocre singolo "The Perfect Drug", per la soundtrack - da lui stesso curata - del film "Lost Highway" di David Lynch), Reznor reagisce chiudendosi negli studi ultra-tecnologici allestiti a casa sua, nella nuova residenza di New Orleans. Lavorando per mesi, raccogliendo i pezzi della sua crisi personale, chiamando a raccolta tutti i suoi rancori, le sue paranoie e i suoi fantasmi, Reznor compone decine di brani, lasciandosi andare a un vero tour de force. L'idea, dato il blocco creativo, era di pubblicare un disco di 8-10 brani, gran parte dei quali strumentali: "e ho fallito, fallito completamente" dice Reznor.

Già perché quello che esce alla fine è The Fragile (1999), doppio album colossale eppure incredibilmente intimo e personale: Reznor si mette in gioco senza remore, non ha paura di lasciare andare la sua musica alla deriva attraverso gli stili più disparati (e come per ogni doppio album che si rispetti anche il principale, anzi unico, difetto di The Fragile è quello di mettere troppa carne al fuoco), tantomeno di andare contro le aspettative di chi "si aspettava un Downward Spiral 2" o di chi gli chiedeva di "salvare il rock". Reznor si abbandona totalmente alla sua ispirazione e aiutato in studio nuovamente dal grande Alan Moulder, riparte dalla violenza bestiale della "Spirale" con brani come la minacciosa "The Wretched" e l'eccezionale opening-track "Somewhat Damaged", che esorcizza la crisi appena trascorsa in un crescendo memorabile, approda a canzoni grandiose e atmosferiche come "The Day the World Went Away" (che richiama la melodia di "Hey Jude" con tanto di coro finale, immergendola però in una assordante "orchestra" di chitarre distorte), il singolo "We're In This Together" (splendida rock-song sulla "dipendenza. dipendenza da tutto, dipendenza dalle cose e dalle persone") e la straordinaria title-track, semplicemente una ballata tra le più belle che il rock abbia regalato negli ultimi anni, impreziosita da un assolo da brividi. Reznor si dimostra anche grande "direttore d'orchestra", nella folgorante mini-suite strumentale "Just Like You Imagined", un vero studio su un rock al tempo stesso "artificiale" e "sinfonico": brano incredibile, di straordinario respiro, un tripudio di fantasia e libertà creativa, resa ancor più indimenticabile dai contorsionismi chitarristici di Adrian Belew.
Ma in tutti questi brani così eterogenei, Reznor riesce a mantenere intatta l'impronta di fondo, il suo "industrial-rock" è sempre lì, in primissimo piano, nelle manipolazioni del suono, nei ritmi elettronici, nella violenza liberatoria. Gradualmente il disco si fa sempre più intimo e raccolto fino a sfociare nella tenue e visionaria meraviglia che è "La Mer" e nella drammatica aria quasi new age di "The Great Below". Inizia così il secondo disco che, coerentemente, è tutto imploso, dove tutta la "fragilità" che Reznor ha esploso, urlato e messo a nudo nella prima parte, entra in collisione con l'instabilità della sua personalità. Ma non c'è più bisogno delle fantasie omicide del passato: bastano i suoni, soffocanti e contraffatti, e bastano le atmosfere, sempre più criptiche, oscure, malate. "Decay", disfacimento, è parola che ricorre spessissimo nei testi: è di questo che parla Reznor: di raccogliere i pezzi della propria vita e incollarli per vedere che al di là c'è solo disfacimento, invecchiamento, altra sofferenza: ma ora la depressione è, se non superata, almeno interiorizzata: l'artista tormentato, si scopre uomo maturo, ha trovato un equilibrio che nemmeno sognava di poter trovare solo qualche anno prima. "Mr.Self Destruct" non esiste più: il nuovo brano- manifesto si chiama "The Way Out Is Through": affrontata la crisi, la depressione, la solitudine, si trova la via d'uscita, che non è la guarigione ma l'accettazione e la consapevolezza di sé: "Ripe (With Decay)" è l'ultimo brano, bizzarro collage strumentale che termina la gigantesca opera su note di sommessa inquietudine. Così Reznor commenta il disco: "Invece di cercare di analizzare ciò che creavo, l'ho semplicemente lasciato fluire per vedere che cosa saltava fuori. Si trattava semplicemente di non avere mai timori e alla fine mi sono sentito veramente liberato".

L'abituale disco di remix, Things Falling Apart (2000), è trascurabile.
Con la sua agguerrita band al suo fianco (Vrenna è stato rimpiazzato con il fenomenale Jerome Dillon) questo nuovo, "maturo" Reznor si imbarca nel nuovo tour mondiale, il "Fragility Tour", dal quale viene tratto il disco + Dvd live And All That Could Have Been (2002) al quale è associato Still , un album di inediti e versioni alternative: tra gli inediti, bellissime in particolare proprio "And All That Could Have Been" e le strumentali "Leaving Hope" (quasi ambient) e "The Persistance of Loss" (un raffinatissimo adagio da camera); tra le alternate-version, spicca una dilatatissima e straniante esecuzione di "The Day The World Went Away". Artista complesso e geniale, coraggioso e disturbante, di importanza capitale per il rock contemporaneo, Reznor incarna l'antieroe per eccellenza, il simbolo dell'anti-rockstar anni Novanta, dell'artista di "rottura", contro tutto e contro tutti, specie contro sé stesso: la sua è la battaglia di una vita, una battaglia vinta con la sola forza del suo talento. "Mi sono seduto. Mi sono guardato allo specchio. Ho cercato di ricordare che la musica è l'unica cosa che mi ha salvato in passato. Probabilmente se non fosse per la mia carriera con i Nine Inch Nails oggi non sarei più a questo mondo. La mia musica mi ha fatto sentire indispensabile, unico". Esatto! Unico, sotto tutti i punti di vista.

Nel 2005, a sei anni da The Fragile, esce un nuovo album, intitolato With Teeth. Delle innumerevoli strade esplorate in Fragile, Reznor sceglie di approfondire quelle che già in quel disco diedero risultati memorabili in brani come "We're In This Together", "The Day The World Went Away" o "The Fragile". Sceglie di tuffarsi in strutture dirette e meno complesse, che diano risalto a voce, parole, melodie, ritornelli come forse mai aveva osato fare finora. Senza rinunciare ad alcuno dei marchi di fabbrica del Nine Inch Nails sound, Reznor confeziona finalmente ciò verso cui tendeva da sempre la sua arte: confeziona una raccolta di canzoni. E basta.
Perché se qualcosa di With Teeth colpisce, è proprio il suo essere un disco fatto prima di tutto di melodie, di quelle melodie oblique eppure accattivanti di cui Reznor è sempre stato maestro. Ed è un disco sconsolato e intimista: Reznor sembra guardarsi attorno e vedere solo vuoto, distanza, solitudine: non serve più fare ricorso alla violenza, se non in episodi isolati come "You Know What You Are" e, in misura minore, "Getting Smaller"; non servono più catartici flussi di coscienza. Quello che si agita tra le righe del disco è un Reznor forse finalmente in pace con sé stesso, ma per nulla pacificato con il mondo che lo circonda. Ma non c'è più nemmeno rabbia: sembrano esserci solo un sottile e distaccato sconforto, ci sono rimpianti e riflessioni dolorose (su tutte la struggente "Right Where It Belongs").
È un Reznor che si guarda indietro, che guarda a un passato anche lontano ("Only" arriva dritta dagli anni Ottanta senza il minimo tentativo di "modernizzazione", ma è pure uno degli episodi meno convincenti del disco insieme al debole singolo "The Hand That Feeds", mentre l'operazione-nostalgia riesce meglio in "Sunspots"), alla ricerca di un rifugio sicuro. E Reznor è sempre stato prima di tutto un cantautore nel senso più classico del termine: questa sua anima esce finalmente allo scoperto ed ecco allora che l'iniziale "All The Love In The World", che parte in sordina con voce e melodia trincerate dietro un guardingo drum 'n bass, prende via via coraggio e si trasforma in un coro cadenzato che più pop non si può. Ed ecco soprattutto autentici gioielli come la trascinante "The Collector" e come, soprattutto, "Every Day Is Exactly The Same", che col suo immediatissimo ritornello e un crescendo emotivo come solo Reznor sa fare, rappresenta meglio di ogni altro pezzo il tono dell'album.
Se nella parte centrale Reznor tradisce qua e là dei vuoti di ispirazione, gli episodi conclusivi dell'album si collocano su livelli degni dei vecchi capolavori: "The Line Begins To Blur", strofa acida e pesante che si distende in un ritornello epico e sconsolato: da manuale; "Beside You In Time", un incantesimo: Reznor sussurra una ninna nanna, e il mixer la annega in un oceano di feedback deformati, reiterati, sfibranti, fino all'esplosione finale, ancora più ovattata e onirica. E dalle sue ceneri prende vita la già citata "Right Where It Belongs", intensa, disperata confessione degna erede della mitica "Hurt", con uno dei testi più belli mai scritti da Reznor.
Alla fine, con Reznor tornato a chiudersi nella sua "Home", eccoci qui storditi da sensazioni contrastanti: c'è, inutile negarlo, una punta di delusione, ma perché dopo tanti anni ormai troppo alte erano le aspettative, e perché in ogni caso l'ispirazione e la fantasia del nostro non sono più al 100 per cento. With Teeth è nulla più che l'opera minore di un artista superiore.

Trent Reznor fa mostra di rinnovate ambizioni e ispirazioni in Year Zero (2007), il suo album in assoluto più diretto e "politico", acri invettive e adrenalina pura senza troppi giri di parole. Resta tuttavia la sua speciale capacità di rendere altamente sofisticata la materia più rozza e brutale grazie a soluzioni sonore e melodiche sempre all'avanguardia, specie in un brano come "The Beginning Of The End". Ad aprire il sipario c'è la folgorante "Hyperpower" al cui interno troviamo già ben espressi i temi portanti della nuova fatica di Trent: caos, disgusto, guerra, catastrofi attuali e future.
Opera ampia e ben più compiuta rispetto all'altalenante predecessore, Year Zero svaria lungo un raggio di contrastanti coordinante sonore: i fan dell'industrial "duro e puro" possono gioire sguazzando in quella pozza di rifiuti tossici che è la micidiale "Vessel"; splendida e classica "The Good Soldier" soddisferà invece chi vuole un Trent più "synthetico" e accessibile.
A mettere d'accordo tutti magari ci pensa "In This Twilight", perfetta via di mezzo. Certo anche in tutti questi ottimi episodi, una cosa è da mettere in chiaro: non ci troviamo più davanti il Reznor capace di rendere epocale ogni suo gesto e pensiero: quel Reznor non sarebbe mai inciampato in un pastrocchio come "Capital G", ad esempio. E non avrebbe nemmeno avuto bisogno di plagiare senza troppa fantasia il suo stesso passato, come fa nel pur godibilissimo singolo "Survivalism", riciclando senza troppo pudore i brani più accesi del vecchio Broken (1992). Molto meglio semmai quando in quel gioiello di atmosfera che è "The Greater Good" il nostro rispolvera i fantasmi della sua maturità, quelli che popolavano i capolavori di Fragile.
Sorvolando sul solito, scontato, straordinario lavoro sui suoni, segno distintivo della premiata ditta Reznor & Moulder, "My Violent Heart", "The Warning", la clamorosa "Meet Your Master" sono tutti brani perfetti, che Trent sembra ormai in grado di sfornare col pilota automatico. Non parliamo di "God Given" un ritornello e un impianto sonoro di quelli che solo i Nine Inch Nails sanno sfornare.
Con Year Zero, Reznor si dimostra ancora capace di sorprendere, tanto nei momenti più riflessivi che in quelli più violenti.

Con Ghosts I-IV (2008), Reznor realizza un suo antico progetto: una raccolta strumentale, introspettiva e concisa. Registrato e composto nel giro di dieci settimane con gli abituali compari di studio Atticus Ross e Alan Moulder, e l'attiva partecipazione di preziosi collaboratori, vecchi (Adrian Belew) e nuovi (Alessandro Cortini, Brian Viglione dei Dresden Dolls), l'album è anzitutto un'operazione di marketing. Superando quanto fatto dai Radiohead nel 2007 con "In Rainbows", Reznor offre ai suoi fan un lavoro subito disponibile in formato digitale (e scaricabile dall'apposito sito al prezzo di 5 dollari), e al contempo lo impacchetta in due versioni cd, una "normale" e una "deluxe" limitata a 2500 copie alla modica cifra di 300 dollari, già data per esaurita. E c'è pure un quadruplo vinile. Il tutto al grido di "best package ever".
Ma Ghosts I-IV è anche un'operazione di illuminante restyling artistico e creativo. Reznor torna a chiudersi in sé stesso, rivestendo di attualità sensazioni, suoni e spigoli che sembravano essersi consumati. Non è un caso il ritorno di Adrian Belew, il cui apporto è fondamentale.
Frammenti volatili e sfuggenti, grumi di rock deragliato, elettronica acida e industriale, minimalismi pianistici: componenti che si annullano e alimentano a vicenda. Un lungo percorso, quasi due ore; 36 brevi, densi brani strumentali, ognuno dei quali è un universo in miniatura, autonomo e indipendente.
Il progetto "Ghosts" nasce non come album, ma come contenitore potenzialmente infinito. Non c'è la voce, e trattandosi di Reznor la cosa non è di poco conto. Ma il marchio Nin si sente forte e chiaro, dai soffi di sintetizzatore ad agitare calme e buie onde di piano sino alle accelerazioni più deviate e psicotiche.

Colto da una irrefrenabile smania di pubblicare tutto ciò che gli passa per la mente in formato digitale, a poco più di un mese da Ghosts, Reznor rilascia sul sito nin.com un altro nuovo album da scaricare gratuitamente, stavolta un lavoro tradizionale, un album di "canzoni", eseguito da Reznor con i fidi Cortini, Freese e Robin Finck (bentornato!).
The Slip, tuttavia, presenta una manciata di canzoni poco riuscite, diciamolo subito. Una buona metà dell'album scivola via senza lasciare altra traccia che non sia un fastidioso senso di tempo sprecato. A partire dalla pompata e trasandata "1,000,000" e passando per "Head Down", Reznor dà la sensazione di aver passato durante la lavorazione più tempo in palestra che seduto nel suo studio a inventare melodie e arrangiamenti presentabili. "Letting Go" è cattiveria plastificata che esagera all'inverosimile i passaggi meno convincenti di album quali With_Teeth e Year Zero. Non c'è una particolare motivazione che tenga insieme queste canzoni. E' tutto dire che le migliori del lotto siano le simpatiche "Echoplex" e "Discipline", che rispolverano il mai sopito amore di Trent per il sintetico anni 80.
Tutto ciò almeno nella prima metà del lavoro. Nella seconda parte invece Trent risveglia almeno una minima parte del suo talento, prima con l'intimismo pianistico di "Lights In The Sky", poi con le brume ambientali della lunga e fascinosa "Corona Radiata", episodio che con la successiva "The Four Of Us Are Dying" conferma quanto interessanti potrebbero essere gli sviluppi del progetto "Ghosts".

Dopo la chiusura dell'esperienza Nine Inch Nails, Reznor ha iniziato a ragionare su qualche idea con il regista David Fincher e con il fidato compare Atticus Ross. Il risultato del lavoro del duo Reznor-Ross il questo maestoso ritratto industrial-ambientale della colonna sonora di The Social Network, molto vicino come suoni alla precedente collaborazione tra i due, lo strumentale Ghost I-IV, dal quale sono peraltro tratte due delle diciannove tracce di questo lavoro ("Magnetic", riarrangiamento di "14 Ghost II", e "A Familiar Taste", remix di "35 Ghost IV").
Le sonorità, quindi, sono quelle degli ultimi Nine Inch Nails, dal piglio meno hard-rock, ma più rivolto verso lidi ambientali solfurei e dark. Distruzione, atassia, sofferenza, leggiadria e un pizzico di rabbia si alternano nel corso dei 66 minuti del disco, che dipingono lo scenario di un'ammirazione compiaciuta della vita brulicante che, nonostante tutto, ancora vibra sotto le macerie. Le melodie sono raggelate, serpeggiano in uno scenario apocalittico, ma offrono un certo confortante abbraccio, come battiti di forme vitali che scrutano nascoste nell'oscurità. Reznor e Ross riescono a ottenere l'effetto tanto quando realizzano composizioni più scarne (su tutte "In Motion", tutta beat dance e synth anni 80, eppure ben ancorata nell'immaginario dark del disco, o la conclusiva "Soft Trees Break The Fall"), quanto quando si spingono verso composizioni con orchestrazioni più ariose, come nella straordinaria rilettura in chiave apocalittica di "In The Hall Of The Mountain King" del compositore norvegese Edvard Grieg.

Deve aver trovato nuovi stimoli nella musica per il cinema, il buon Reznor, incoraggiato dal successo colonna sonora di The Social Network, premiata addirittura con l'Oscar. Come spiegare altrimenti la capacità di realizzare in meno di un anno addirittura 39 tracce per complessive 3 ore di musica a sostegno di una pellicola della durata di oltre 2 ore e mezza?
The Girl With The Dragon Tattoo (2011) offre tre ore di melodie serpeggianti tra tensioni vibranti, contemplazioni pianistiche mortifere e sempre più rare esplosioni rabbiose. A fare da alfa e omega dell'opera sono le uniche due canzoni nel senso tradizionale del termine, entrambe cover con voce al femminile. "Immigrant Song", cantata da Karen O, è quanto resta del passato reznoriano. Un drumming possente a sostegno della voce graffiante di miss Yeah Yeah Yeahs delinea un scenario apocalittico che allontana ogni reminiscenza zeppeliniana, evitando quella che sarebbe potuta essere una facile scivolata nel trash. In coda troviamo invece miss Reznor Mariqueen Maandig a prestare la sua dolce voce a una "Is Your Love Strong Enough?" di Bryan Ferry dal sapore dark-electro, tratta dal progetto firmato dai coniugi Reznor How To Destroy Angels.
In mezzo a quelle che per forza di cose saranno i due singoli da esportazione dell'album, un insolito senso di calma sembra calare sopra l'oscurità del mondo dell'ex (?) Nine Inch Nails. Una calma increspata da onde nero pece che però non sembrano mai poter avere veramente il sopravvento. Vibrante quando il passo si fa solfureo, ai limiti del ligetiano ("Perhelion", "A Pair Of Doves"), il talento compositivo del duo esplode nei brani più duri: irresistibili, in tal senso, il marasma incalzante di "A Thousand Details", l'acidità roteante di "An Itch" e il sorprendente meccanicismo tribale di "Oraculum".
Un'opera che, nel complesso, mal si addice all'ascolto tradizionale vista la durata spropositata e la sua "informità" quasi onirica, ma che nella sua maestosità incute un timore che è quello di chi si trovi davanti al Giudizio Universale di Michelangelo: disorientato e ammaliato.

A cinque anni da The Slip, Trent Reznor annuncia per l'autunno 2013 il ritorno discografico del suo marchio principale e l'uscita, nella primavera dello stesso anno, del primo parto sulla lunga durata del suo side projetc How To Destroy Angels, nel quale lo affiancano la moglie Mariquen Manding e Atticus Ross. Quest'ultimo si materializza in Welcome Oblivion, raccolta di tredici gemme nere composte da un'oscura e insana forma di trip-hop dalle venature nervose, vicinissima per affinità al sound degli ultimi Portishead.

A nemmeno cinque mesi di distanza vede la luce anche l'atteso nuovo lavoro dei Nine Inch Nails:
Hesitation Marks (2013) conferma innanzitutto la natura dispotica del marchio, oggi più che mai un vero e proprio team al comando di un Reznor mai così deciso a portare avanti il suo percorso personale. Un'elettronica graffiante e granulosa domina la scena, alla rabbia si sostituisce un complesso incastro di umori camaleontici sotto forma di melodie e progressioni e di industriale, questa volta, c'è davvero poco. I NIN del presente partono in quarta con una “Copy Of A” che è una testuale e rassegnata constatazione dell'incapacità di emergere in un mondo sempre più malauguratamente uniforme, incarnato da un incedere mai così macchinale e irrefrenabile, a precedere l'altrettanto splendida agonia lancinante di “Come Back Haunted”, forse unico brano a tenere intatti i ponti col passato.
Reznor scolpisce poi dettagliate sculture di caustica apocalisse, come il fremente crescendo di “Disappointed”, l'urlo di alienazione di “All Time Low” e la gabbia squadrata di “I Would For You”, senza per questo resistere alla tentazione di cercare occasionalmente un rifugio speranzoso. A rappresentare quest'ultimo sono la parentesi melodica e riflessiva di “Find My Way”, l'estasi quasi prog di “Everything” e la vorace e insaziabile ricerca di “Various Methods Of Escape”. Lo sforzo positivista si trasforma in claustrofobia quando Trent si rinchiude analizzando i fantasmi più bui e avvinghianti nella sfrigolante autoanalisi di “Satellite”, idealmente conclusa dalla fuga a velocità folle di “Running”. E se “In Two” è l'illusoria soluzione nonché forse pure il pezzo meno riuscito del lotto, a tornare all realismo dell'unica vera consapevolezza, quella di esistere nonostante tutto, è l'ammiccante minimalismo elettronico di "While I'm Still Here", che affronta il tema con distacco, sicurezza e un pizzico di velata ironia. E questo è anche il significato ultimo dell'album: i Nine Inch Nails sono ancora qua, benché figli, com'è d'altronde giusto che sia, di un uomo che da anni non è più il “Mr. Self Destruct” con cui taluni vorrebbero continuare ad identificarlo. Inutile e sbagliato sarebbe pretendere ancora l'energia e il rancore che hanno reso gloriosi i loro capolavori (ma anche indebolito, quando convogliati a forza, gli episodi più recenti della loro discografia), elementi anacronistici rispetto alla direzione odierna del loro sound.

In virtù della collaborazione esclusiva col regista David Fincher, Reznor e Atticus Ross si sono imposti come nuovo duo di punta dell'arte della soundtrack, genere che dagli inizi del terzo millennio è andato sempre più emancipandosi dalla sua mera funzione di commento musicale alle immagini. Come spiegano bene gli stessi Reznor e Ross, nel processo di composizione per Fincher la musica entra a far parte del Dna del film, quasi come una sceneggiatura alternativa, influenzandone l'atmosfera ancor prima che le singole scene vengano girate. Ne dava una misura il mastodontico esito della colonna sonora per “Millennium: Uomini che odiano le donne”, oltre tre ore di score dalla coerenza e qualità sbalorditive. Un Oscar per l'esordio con The Social Network e una nomination ai Golden Globe per The Girl With The Dragon Tattoo sono i giusti riconoscimenti al mirabile lavoro di questi due musicisti, giunti qui alla loro terza opera.
Le ultime pellicole di Fincher seguitano ad allargare i confini del genere thriller, dalle zone d'ombra del privato e delle vicende legali di Mark Zuckerberg all'adattamento del raggelante best-seller svedese di Stieg Larsson. Limitandoci al solo ascolto, l'adattamento del romanzo di Gillian Flynn Gone Girl (da noi “L'amore bugiardo”, in uscita il 18 dicembre) sembra procedere a un'introspezione più emotiva che psicologica, mimando la struttura della trama con sviluppi subdoli e procedendo per addizioni minime nell'impalcatura sonora. L'incipit si apre su una tonalità space-ambient dai tratti quieti e piuttosto rassicuranti, mentre “Sugar Storm” è dalle parti di “Mysterious Skin”, per restare nel campo delle colonne sonore. Il regista aveva infatti suggerito al duo di rielaborare l'atmosfera delle moderne spa, dove tutto sembra accoglierti a braccia aperte ma tra le righe aleggia un senso di inquietudine sulle sorti di un'umanità ormai alla deriva.
Va così configurandosi una sorta di concept sulla calma apparente, dove tra le pulsazioni sottocutanee di synth si insinuano nervature post-industrial e distorsioni in sordina (“With Suspicion”), aggiungendo una nota di tensione quasi costante e preludendo agli sviluppi successivi dello score. Un plot musicale che da una relativa stabilità, con inediti scorci cameristici (“Clue Two”) e delicati arpeggi di pianoforte (“Just Like You”, “Background Noise”), acquisisce ombre e increspature che fanno riaffiorare echi di “Millennium” (“Clue One”, “Something Disposable”, “Still Gone”) e dell'angoscia digitale facebookiana (“Secrets”, “Perpetual”); l'ipotetica punta del climax è situata nei pressi di “Technically, Missing”, caratterizzata da un'insistente carica di chitarre elettriche in sottofondo ai sintetizzatori.
Poche ma significative le aggiunte allo spettro espressivo del duo, dalla freddezza minimal-techno con ascendenze Raime di “The Way he Looks At Me” alla melodia badalamentiana “Like Home”, percorsa da sinistri feedback in tono contrario; per la prima volta i Nostri si confrontano anche con un'orchestra in carne e ossa, forgiando frammenti di grande potenza come “Consummation”, dove gravissimi fiati si mescolano allo static noise di Reznor (sarebbe stato un perfetto gran finale).
Nonostante per oltre 80 minuti non si verifichino cali significativi di qualità e mordente, questa soundtrack potrebbe rivelarsi meno autonoma delle precedenti, o forse soltanto (poco) meno ispirata di quanto è lecito aspettarsi da questa nuova premiata ditta.

Il nuovo Reznor è ormai un compositore che continua a dimostrare, lavoro dopo lavoro, la grandezza del suo genio in continua evoluzione. Ma quando la sua vena violenta sembrava essere man mano scivolata via con il passare degli anni, forse anche per un ritrovato equilibrio interiore, ecco che con Not The Actual Events tutto torna in discussione, inaugurando sempre insieme al suo fido collaboratore Atticus Ross il primo atto di una trilogia di EP con il disco più violento e brutale che si ricordi dai tempi del binomio Broken e The Downward Spiral.
Uscito nel dicembre inoltrato del 2016, in un periodo decisamente poco favorevole a comparire in classifiche e resoconti di fine anno, il lavoro è straordinariamente convincente riproponendo quella furia esecutiva dei tempi migliori. Da segnalare la funerea marcia di "She's Gone", comparsa mesi dopo in veste live anche in uno degli episodi più memorabili della nuova stagione-evento di "Twin Peaks" (a confermare il legame che c'è tra Reznor e il regista David Lynch). 
Tra le folli velocità di "Branches / Bones", le mitragliate chitarristiche di "The Idea Of You" e il pachidermico pestaggio finale di "Burning Bright (Field On Fire)" le voci maligne di un EP nato solo per promuovere le coeve ristampe deluxe della discografia della band vengono letteralmente fatte a pezzi, lasciando un'attesa spasmodica per il seguito di un essenzialissimo (poco più di 20 minuti) quanto apprezzabile lavoro.

L'attesa termina nel luglio 2017 con Add Violence che, a dispetto del titolo, non resta coerente all'approccio brutale del suo predecessore, spostandosi più su melodie accattivanti dal sapore eighties ("Less Than") e sinuosi ammiccamenti ai brani atmosferici di The Downward Spiral e The Fragile ("The Lovers" e "This Isn't The Place"). Seppur non ai livelli entusiasmanti del primo atto della trilogia, causa un forse eccessivo autocitazionismo, il lavoro resta convincente e offre gemme di alto livello come la chiusura trip-hop di "The Background World". Un disco generalmente fruibile che in ogni caso conferma come questi nuovi Nine Inch Nails stiano enormemente giovando del nuovo format adottato, evitando platter strabordanti dove le non poche ottime idee rischiavano di vedersi diluite tra qualche filler di troppo.

La trilogia si chiude infine nel giugno del 2018, ben oltre le previsioni date per fine 2017. Il motivo, a detta di Reznor, sta nell'aver virato verso un vero e proprio full-lenght battezzato Bad Witch. A dispetto del suo rinnovato status, il minutaggio resta decisamente contenuto in soli 31 minuti. Tuttavia, stilisticamente la virata è netta, proponendo un album coraggioso e molto meno autocompiaciuto dei pur ottimi due precedenti episodi.
"Bad Witch" è un lavoro il cui valore va apprezzato nell'insieme, andando oltre la somma delle sue parti. Un viaggio tra industrial e nu-jazz che sembra una lunga improvvisazione dalle atmosfere cupe e tossiche, con un neanche tanto velato tributo al David Bowie dell'ultimo atto di "Blackstar".
Trent Reznor, insieme al sempre più fido compare Atticus Ross, sembra aver ormai trovato la formula definitiva per riportare e mantenere il nome dei NIN a un livello consono per la sua storia, abbandonando alcune logorree del passato e sposando quindi un approccio più conciso e asciutto. Senza mai perdere di vista il tormento e la violenza insita nella loro opera.

Nato come “tentativo di non impazzire” in un mondo schiacciato dalla pandemia Covid, dalla quarantena e dall'isolamento forzato, Ghosts V-VI è il regalo di Trent Reznor & Atticus Ross ai fan in un momento storico tanto tragico. Un lunghissimo viaggio di due ore e mezza di musica strumentale, divisi in due parti, “Ghosts V - Together” e “Ghosts VI - Locusts”. “Together” si volge deciso in territori ambient di sicuro stampo eniano, con invito sin dai titoli a tenere duro ("Letting Go While Holding On"). Se il primo capitolo sembra percorrere il tentativo di approccio ottimistico al lockdown, tentativo di apprezzare la propria solitudine alla riscoperta del proprio Io profondo, del silenzio perduto nella frenesia quotidiana, il secondo capitolo abbandona ogni ottimismo per subentrare nella psicosi pulsante, nella paranoia dell'isolamento forzato, nell'improvvisa apparizione di una gabbia non percepibile poco giorni prima. “Locust” parte con la nota di piano ribattuta di “The Cursed Clock”, escursione paranoica nel pianismo del 900, tanto affascinante quanto inquietante. Segue “Around Every Corner”, ancor più claustrofobica e angosciante, un loop di piano che si ripete, simile alle atmosfere dei Goblin, con un lungo bordone di synth a sovrastare, trasportandoci dal minimalismo al jazz fumoso e nero del Dale Cooper Quartet, fino a un muro di suono quasi branchiano che cresce inesorabilmente, sino a dissolversi in un finale ambient. 

Contributi di Marco Pagliariccio ("The Social Newtork", "The Girl With The Dragon Tattoo"), Matteo Meda ("Hesitation Marks"), Michele Palozzo ("Gone Girl") e Michele Bordi ("Not The Actual Events", "Add Violence", "Bad Witch"), Valerio D'Onofrio ("Ghosts V-VI")

Nine Inch Nails - Trent Reznor

Discografia

NINE INCH NAILS
Pretty Hate Machine (TVT, 1989)

7

Broken (Nothing, 1992)

6,5

The Downward Spiral (Nothing, 1994)

9

Further Down The Spiral (Nothing, 1995)

8

The Fragile (Interscope / Nothing, 1999)

8,5

Things Fallin Apart (Interscope, 2000)

5

And All That Could Have Been + Still (Nothing, 2002)

7

With Teeth (Nothing, 2005)

6,5

Year Zero (Nothing, 2007)

6,5

Ghosts I-IV (Null Corporation, 2008)

7

The Slip (Null Corporation, 2008)

5

Hesitation Marks (Null Corporation/Columbia, 2013)

7

Not The Actual Events(Null Corporation, 2016)8
Add Violence(Null Corporation, 2016)7
Bad Witch(Null Corporation, 2018)7.5
Ghosts V-VI(Null Corporation, 2020)7
TRENT REZNOR AND ATTICUS ROSS
The Social Network(Null Corporation, 2010)

8

The Girl With The Dragon Tattoo (Null Corporation, 2011)

7,5

Gone Girl (Null Corporation, 2014)

6,5

Before The Flood (w/ Gustavo Santaolalla & Mogwai, Lakeshore / Invada, 2016)6
Patriots Day(Lakeshore, 2017)7
The Vietnam War (Null Corporation, 2017)6
Mid90s (Null Corporation, 2018)7
Bird Box (Abridged) (Null Corporation, 2019)6,5
HOW TO DESTROY ANGELS
Welcome Oblivion (Null Corporation/Columbia, 2013)

7

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