David Bowie

Outside, il fanta-noir che svelò il lato oscuro del Duca Bianco, tra cyber-punk e body art

Le reunion sono sempre pericolose. Da un lato c’è l’attesa dei fan per un evento che sembra riportare indietro le lancette del tempo ai bei tempi che furono, dall’altro c’è il rischio di una delusione per ciò che non potrà mai più essere esattamente quello che è stato. Emblematico fu il caso del ritorno di Lou Reed insieme a John Cale: ne uscì il bellissimo “Songs For Drella”, che però lasciò un segno tutto sommato trascurabile in un immaginario collettivo perennemente agganciato al ricordo dei Velvet Underground. Qualcosa di simile è successo con il ritorno artistico di fiamma tra David Bowie e Brian Eno a metà dei Novanta del XX secolo, con l’uscita di “1.Outside”. Per tanti fu una folgorazione, ma chi si aspettava un quarto capitolo della saga berlinese non poteva che rimanere deluso.

Ma vediamo prima di ricostruire velocemente i fatti. David Bowie, nella sua incessante ansia di cambiamento, era passato nei precedenti 15 anni dalle ribalte e i red carpet del pop mainstream al progetto più graffiante e alternativo del primo album dei Tin Machine, quasi una sconfessione del periodo precedente, e ancora a una nuova collaborazione con Nile Rodgers per “Black Tie White Noise”, nuovamente alla ricerca del successo commerciale ma per vie meno facili, dieci anni dopo aver realizzato con Mr. Chic il suo disco più venduto, “Let’s Dance”. Ma nonostante tanti episodi artisticamente interessanti, gran parte della critica aveva snobbato il suo lavoro di tutti questi anni e si era fortemente radicato il luogo comune che l’ultimo disco fondamentale del Duca Bianco fosse stato “Scary Monsters” (come osserva puntualmente Federico Guglielmi su Classic Rock). Dove andare quindi a parare?
Ebbene, una svolta inaspettata avvenne nel 1994, dopo che Bowie rivide Brian Eno al proprio matrimonio. A seguito dell’avvenimento si rinverdì quella collaborazione trionfale che aveva portato nella seconda metà dei Settanta ai fasti berlinesi, momento assai felice ancora rimpianto con grande nostalgia da tanti fan. Bowie aveva inoltre ereditato dai Tin Machine il chitarrista di stazza di turno, un elemento chiave nella discografia bowiana. Dopo Mick Ronson e Robert Fripp, ora c’era Reeves Gabrels. Infine, un altro ritorno ai bei tempi che furono: Carlos Alomar. E così, “with a little help of his friends”, Bowie riuscì a mettere a segno il suo capolavoro del decennio: “1.Outside”, per l’appunto. Giusto a metà dei Novanta, e giusto quando il suo nume Scott Walker pubblicava “Tilt”.

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Era il 1995. Se i Nirvana avevano segnato il decennio con il gusto per il suono sporco e alternativo, un punto di riferimento diretto per Bowie furono piuttosto i Nine Inch Nails, con quella miscela sonora elettro-hard-industrial che fu “The Downward Spiral”, un album che riusciva a suonare secondo più prospettive. E “1.Outside” riuscirà nella stessa impresa.
Il numero 1 nel titolo fa riferimento al progetto colossale che Bowie aveva in mente: una serie di ben cinque album (roba da far impallidire la “trilogia”) narranti (almeno in principio) la storia del detective Nathan Adler, con grande rappresentazione live finale a Salisburgo. Tuttavia, forse perché non vi fu l’attesa ovazione o perché nel frattempo il Bowie irrequieto si era appassionato ad altro (la musica jungle che lo portò all'interessante “Earthling”), di questo progetto ci resta solo questo primo episodio. Che già di per sé, è un’epopea.
Bowie era deciso a tirare fuori il suo lato più oscuro, e, questa volta, finalmente, senza remore. L’espediente è una storia altamente inquietante: il detective Nathan Adler deve indagare sull’assassinio di Baby Grace Blue, una quattordicenne che viene uccisa e mutilata in una performance di body art estrema. In questo dramma cupo e morboso, Bowie intendeva rappresentare lo scenario antropologico di passaggio tra i due millenni, aggiungendo nuove sperimentazioni per anticipare la musica del 2000. L’orizzonte era quello della scena “artistica” più provocatoria, quella della “body art” estrema. Una serie di personaggi poco raccomandabili e dal gusto alquanto discutibile, ma dai quali Bowie era fortemente attratto. A questo si aggiunse il mondo cyber-punk legato allo sviluppo dell’informatica e di internet. Già questo fattore risponde alla critica di Francesco Donadio, autore dell’importante volume “David Bowie – Fantastic Voyage”, secondo il quale i suoi dischi dei Settanta trattavano “di temi di valenza universale”, mentre in questo caso l’artista inglese si sarebbe concentrato “sui suoi più recenti interessi da intellettuale adulto di nicchia” (fosse pur vero, non sarebbe un metro valido per giudicare la qualità artistica di un lavoro). Al contrario, l’informatica avrebbe sempre di più condizionato la vita di ciascuno ed è semmai merito di Bowie l’averlo sottolineato proprio nell’anno in cui Internet veniva portata alla fruizione di tutti con Windows 95. In questo va quindi riconosciuta a Bowie l’ennesima dimostrazione del suo fiuto acutissimo. Tant’è che lo stesso Donadio, anche lui oscillante sulla valutazione dell’album, ammetterà che almeno per quanto riguardava l’aspetto informatico, “Bowie aveva visto giusto”.

Sta di fatto che, a nostro parere, “1.Outside” è davvero uno dei capolavori del decennio Novanta, un poema sinfonico che non sbaglia una sola nota.
Dopo l’intro semi-strumentale (su cui torneremo poi), la prima vera canzone, la title track “Outside”, sembra riprendere l’effetto futuristico che già caratterizzò una “Speed Of Life” (da “Low”, 1977). Ma qui non è il ritmo a venir esaltato, non c’è un qualche effetto motoristico a incitare alla corsa: al contrario, è una realtà lenta, cupa, e desolata, quella che si vuole mostrare, che rimanda a una Metropolis anni 90.
Segue “The Hearts Filfhty Lesson”, per chi scrive uno dei brani più originali in assoluto di Bowie: certo, è chiaro l’influsso dei discepoli Nine Inch Nails, ma il Duca Bianco si riprende quello che è suo, rivedendo il tutto in una chiave grottesca e teatrale che gli è tipica (rispondendo quindi anche alla costola trent-reznoriana di Marilyn Manson). “A Small Plot Of Land” ha una lunga intro strumentale acida e straniante, seguita da una parte vocale sospesa e che più che su una melodia è appoggiata su un incedere emotivo a tentoni, cercando di evitare la caduta nel baratro che si avverte sottostante.



Poi vi sono i monologhi dei protagonisti del “concept album”, come l’adolescente Baby Grace Blue, interpretati da Bowie, ad aumentare il senso di straniamento, che raggiungerà il suo apice in “Wishful Beginnings”, scritta con Brian Eno. L’artista londinese si è sempre divertito a giocare al “bello tenebroso”, ma spesso con quella astuzia edulcorante che strizza l’occhio al pop. Con questo brano, invece, nulla di tutto ciò: si tratta di pura claustrofobia elettronica, la melodia quasi sparisce, la ritmica è lenta eppure ossessiva, le atmosfere rarefatte potrebbero ricordare per certi versi “Art Decade”, ma senza l’aspetto di estetica dandy decadente: qui vengono modellati da un lato il sadismo che si stempera in dolcezza, sentimento diffuso tra i carnefici verso le loro vittime, dall’altro il dolore agli ultimi stadi, ovattato dallo stordimento (suona quasi dolce la frase, scandita ossessivamente, “The pain must feel like snow”, e terrificante la ripetuta richiesta di scuse, “Sorry Little Girl”, come terribile è anche l’acre compassione per sé stesso e per la vittima nella frase chiave “We had such wishful beginnings/ But we lived unbearable lives”, come se il carnefice infliggesse alla vittima il malessere esperito in prima persona: un vero colpo da maestro nell’esprimere la morbosità perversa della mente del criminale).
Bowie sbatte in faccia ai fan quella durezza senza mezzi termini cui, probabilmente, avrebbe voluto dare forma tante volte, ma senza il coraggio di farlo, e con l’aiuto di Eno, ci riesce. Da solo scrive poi la più tradizionale “The Motel”, una delle tracce da lui più amate dell’intero album e brano quasi da piano-bar e jazz club (quei jazz club già rappresentati nel sax di “Subterraneans” di “Low”), ma di una bellezza pura, gelida, acuta, disincantata, e, nella parte finale, “esplosiva”.

L’album suscitò e susciterà negli anni a venire reazioni discordanti, alcune, entusiastiche (c’è chi lo definì “il suo miglior disco dall’epoca di ‘Scary Monsters’”, chi “il disco più sperimentale di Bowie dal periodo berlinese”, come Andy Greene di Rolling Stone), altre negative, spesso completamente fuori tono. Si disse infatti ancora che era un album interessante ma troppo elettronico, oppure che non conteneva abbastanza materiale pop, come affermò David Fricke, sempre su Rolling Stone. Come se il Duca Bianco dovesse essere solo il fornitore di inni pop generazionali da canticchiare ascoltando la radio, legato eternamente agli stilemi di una “Starman” o di una “All The Young Dudes”. Che poi, in realtà, “1.Outside” di brani pop ne contiene eccome, si pensi a “I Have Never Been To Oxford Town”, “We Prick You”, “The Voyeur Of Utter Destruction”, “Through These Architects Eyes”, fino alla melodicamente rassicurante traccia di chiusura “Stangers When We Meet” (almeno quest’ultima apprezzata come tale, in effetti, da Fricke). “We Prick You” suona paradossalmente futuristica nell’imitare gli ormai superati suoni sintetici delle console anni Ottanta. “The Voyeur Of Utter Destruction” e “Through These Architect Eyes” sono magnifiche cavalcate epiche che danno libero sfogo al pathos. Chi riconoscerà il potenziale pop di “I Have Never Been To Oxford Town” sarà Stephen Troussé di Uncut, annoverandolo in mezzo alle “migliori e più sottovalutate canzoni pop della carriera di Bowie”. Ed è particolarmente ironico che Reeves Gabrels abbia confessato a Francesco Donadio come il risultato finale di “1.Outside” sia stato ben più pop di quanto lo fosse il progetto iniziale, per compiacere ai discografici: “Tutti volevano degli hit single, per questo motivo è stato rimaneggiato (..) Ma in questo modo è stato completamente demolito”. Per fortuna, uno dei brani provenienti da tale primo progetto (anche se in seguito molto rielaborato), la sopracitata “The Hearts Filthy Lesson” fu il singolo di lancio dell’album.

Ben poco è concesso alla facilità di ascolto, invece, in “I Am With Name”, brano sperimentale che più che sulla melodia è costruito sulla ripetitività ipnotica di accostamenti cromatici sonori e sulla ritmica martellante, con tanto di finali sirene d’allarme sull’epoca che si sta per aprire.
Altro punto critico per Fricke e altri detrattori è la rielaborazione sintetica della voce di Bowie nel simulare le voci dei personaggi del dramma (tra l’altro, si tratta di altre tracce sopravvissute del primo progetto). Ma la deformazione vocale con tanto di varispeeding non era forse stata già stata utilizzata in classici bowiani come “The Bewlay Brothers”, “Fame” e “Scream Like A Baby”? E lo stesso Bowie in un’intervista non ha forse affermato di avere sempre molto amato questa pratica? Inoltre, col senno di poi, questa critica oggi fa anche un po’ sorridere, considerando la scena musicale attualmente dominata dall’uso massiccio dell’autotune. Semmai bisogna quindi dire che, anche su questo, Bowie ci aveva visto giusto. Chi in un certo senso sembra comprendere la coerenza di questo aspetto con il resto della produzione dell’artista inglese è, ancora, Stephen Troussé, con la cui accorta e fondata analisi dell’album concordiamo su molti punti.

Va ricordata ancora “Hallo Spaceboy”, una eco stardustiana, tanto per fare felici i vecchi fan, in cui è fondamentale l’apporto chitarristico di Reeves Gabrels. Questo introduce, in accordo con le percussioni, un suono violento e intermittente a simulare le tempeste galattiche del brano, poi remixato dai Pet Shop Boys. A dire il vero, però, questa traccia si può intendere come la chiave concettuale dell’album, e fornisce una risposta ad altri fraintendimenti a cui ha dato origine il lavoro. Andy Greene scriverà che “1.Outside” aveva lasciato i fan confusi e gli ascoltatori sconcertati. In realtà, non c’è da meravigliarsi, ed è probabilmente quello che Bowie voleva, come osservò Tom Doyle della rivista Q. Per rendersene conto, basta ascoltare le dichiarazioni dello stesso Bowie in “Moonage Daydream”, il film-documentario girato da Brett Morgen, che inizia proprio sulle note di “Hallo Spaceboy”: il Duca Bianco osserva come il caos sia sempre stato una cifra stilistica fondamentale della sua opera e di avere percepito gli anni 90 come particolarmente caotici e frammentari, aggiungendo, infine, di sapere bene di cosa si trattasse. Ecco quindi il testo di “Hallo Spaceboy” recitare: “Do you like girls or boys?/ It's confusing these days/ But moondust will cover you, cover you/ This chaos is killing me”. E non è casuale che le liriche di “1.Outside” suonino particolarmente caotiche: Bowie le produsse ricorrendo al Verbasizer, un programma per accostare le parole in modo random. Si trattò di “una versione digitale del cut-up che utilizzava già da decenni”, come osserverà Jacopo Benci di Classic Rock.
Ma non si trattò solo del Verbasizer: i musicisti del team dovevano sottostare a giochi di ruolo e immedesimarsi in eccentrici personaggi proposti da Brian Eno. Tanto per spingere forte il pedale della schizofrenia. Nulla, alla fine, doveva risultare troppo semplice, il tutto il più possibile caotico e frammentato.



Proseguiamo l'analisi con “I’m Deranged”, altro brano limpido, cristallino, spiazzante, desolato, scritto con Eno, il cui potere visionario non passerà inosservato a David Lynch che lo utilizzerà per il film “Lost Highway” (riprendendosi ciò che è suo: “Twin Peaks” fu una delle fonti, non ce ne fossero state abbastanza, di ispirazione dell’album). Poi vi è “No Control”, quasi una ripresa della title track nel suo incedere futuristico, elettronico, epico e apocalittico.
Al di là di tutti gli esercizi di stile della critica giornalistica e dei pregiudizi che i fan potevano avere, proprio non risulta comprensibile come la semplice bellezza dei brani che compongono l’album non si sia imposta in modo naturale negli ascoltatori. E non si tratta di brani isolati: tutto il lavoro è particolarmente ben riuscito, non contiene mai passaggi ovvi, e l’aspetto fondamentale che lega tutte le tracce è la forte emotività che Bowie riesce a far emergere sorprendentemente dall’imponente coltre elettronica.

Ci resta ancora da (finire di) chiarire il titolo dell’album. Perché mai “Outside”? Si potrà pensare che sia dovuto alla natura “outside” della body art estrema a cui Bowie apertamente si ispira. Ma questo non è del tutto vero. Bisogna leggere il volume di Francesco Donadio per tirare le fila. Gli artisti a cui Bowie fece inizialmente riferimento erano dei veri “outsider” sociali: si trattava degli ospiti della clinica psichiatrica viennese Gugging, nella quale operava lo psichiatra Leo Navratil. Secondo questi, i pazienti “nella fase più alta della loro malattia” arrivavano “a creare delle opere di alto valore artistico”, per questo li stimolava a dare sfogo alla propria creatività. Bowie ed Eno avevano visto alcuni dei loro lavori direttamente di persona in una visita alla clinica nel 1994, e ne erano rimasti profondamente colpiti.
Nacque così il primo impulso per il disco più dirompente di Bowie da oltre un decennio. E nonostante i profondi cambiamenti intercorsi in corso d’opera, questo primo nucleo ispirativo suggellerà alla fine l’apertura dell’album, nella traccia “Leon Takes Us Outside”. Leon è uno dei personaggi del concept-album ed è ispirato appunto da Leo Navratil, che, seguendo Donadio, aveva portato Bowie ed Eno “al di fuori (outside) delle normali modalità di creazione artistica”. Sempre Donadio osserva come, curiosamente, la title track “Outside”, immediatamente successiva alla traccia di apertura, sia stata inserita nell’album verso la fine delle registrazioni, essendo anche narrativamente scollegata dal resto del lavoro: rappresenterebbe però una dichiarazione d’intenti, il porsi “al di fuori (outside) del mainstream da classifica frequentato negli ultimi anni” dal musicista inglese.

Nel complesso, comunque, riteniamo che “Outside.1” non ebbe il riscontro che avrebbe meritato. Persino Donadio, non sottraendosi, parzialmente, alle fila dei detrattori, osserverà che è un album che ha “dozzine di difetti”. A chi scrive, tuttavia, “1.Outside” continua ad apparire uno dei migliori e più originali album di David Bowie, uno di quelli in cui il musicista londinese riesce a mettersi più a nudo, svelando i suoi aspetti più cupi senza compromessi: qui al dolore, all’inquietudine, alla desolazione viene dato libero sfogo, prima di giungere alla più rasserenante (melodicamente) chiusura finale di “Stangers When We Meet”.
In questo album c’è l’essenza del Bowie teutonico ed elettronico, senza intermediari, ripulito dai soliti ottoni e dalle tante sue tipiche ispirazioni black. Quelli che sono stati individuati come “difetti”, sembrano invece piuttosto messaggi volutamente inviati da Bowie agli ascoltatori. E oggi cominciamo a vedere a livello sociale come certi aspetti premonitori dell’analisi bowiana sull’avanzata irrefrenabile di una post-umanità cyborg che si dimena convulsamente nei meandri di una confusione fortemente straniante si stiano imponendo in maniera sempre più preponderante.