Giuliano Delli Paoli

Dubstep: Burial e altre alchimie sonore

Autore: Giuliano Delli Paoli
Titolo: Dubstep: Burial a altre alchimie sonore
Editore: Crac Edizioni
Pagine: 116
Prezzo: Euro 12,00

Il più grande pregio di questo agile volumetto, che intende racchiudere in poche pagine la storia del genere dubstep, è riuscire a dare il corretto ordine sequenziale ai percorsi e alle mutazioni di uno stile relativamente recente, affrontandolo in maniera semplice e sintetica, ma al contempo esauriente. Un libro che costituirà una piacevole passeggiata fra i ricordi per chi ha seguito la musica dubstep dagli albori e un indispensabile vademecum orientativo per i novizi, o per coloro che ne hanno una conoscenza soltanto approssimativa.
Come ben sottolineato da Alberto Guidetti nella prefazione, il dubstep ha saputo descrivere la città e l’inurbamento come nessuno aveva mai fatto prima nel nuovo millennio, una musica che racconta bene le “suburbs”, quel mondo grigiastro, desolante, spesso isolato dal centro, un fenomeno nato quasi del tutto nella capitale inglese verso la fine degli anni 90, approfittando della contemporanea crisi di house, techno e trip-hop, germinando nei cupissimi club del sud londinese, esplodendo in via definitiva a metà degli anni Zero, divenendo uno dei movimenti elettronici più influenti degli ultimi anni.

Giuliano Delli Paoli inizia l’analisi da lontano, dal 1992, quando “Demon’s Theme” di LTJ Bukem inconsapevolmente consegnava al mondo tutti i connotati del dubstep, caratteristiche peculiari perfezionate tanto da Goldie con “Timeless” nel 1995, quanto dall’oscuro “Exercise The Demons” dei Source Direct nel 1999, fino alle prime pubblicazioni firmate Horsepower Productions e Kode9, colui che di lì a poco fonderà la seminale label Hyperdub.
Nei primissimi anni Duemila il genere era però ancora nel suo stato embrionale, almeno fino alla raccolta “The Roots Of El-B”, considerabile una sorta di Antico Testamento della musica dubstep, in grado di perfezionarne lo stravolgimento dell’approccio ritmico, con battute meno prevedibili, decisamente sincopate, staccandosi dalla cassa dritta in quattro quarti e palesando una nuova nevrosi del ritmo, più irrequieto rispetto al classico modello 2-step e più ricco rispetto allo uk-garage.

Le informazioni genetiche del primo stadio della musica dubstep vengono raccolte da Kode9 e filtrate attraverso atmosfere disturbate, inquiete, oscure, cupe, aliene: una ricetta che diventerà definitiva in “Memories Of The Future”, l’album che rivestì il tutto di elementi tribali, in un esoterismo che sarà ben sviluppato anche dai lavori prodotti dalle altre due etichette di riferimento, DMZ e Skull Disco.
L’artista che riuscirà a richiamare l’attenzione mondiale sul fenomeno dubstep sarà William Bevan, in arte Burial, al quale viene dedicato un ampio approfondimento: due album fondamentali per decodificare il fenomeno, una selva di Ep imperdibili (fra i quali uno condiviso con Four Tet e uno con i Massive Attack) e l’intransigente difesa del proprio anonimato, che contribuirà a costruire l’alone di leggenda attorno alla sua misteriosa figura.

Delli Paoli in questa disamina si sofferma sulle principali evoluzioni del dubstep (trap, grime, brostep), sui più affermati protagonisti del genere (Pinch, Benga, Skream), sui giovani manipolatori che lentamente lo hanno portato altrove (Shackleton, Kevin Martin, Mount Kimbie, Martyn, 2562, Milanese, Scuba, Boxcutter, Zomby), sino alle più recenti “degenerazioni” firmate Vex’d, Ital Tek e Ikonika.
Ci racconta delle Forward>>Night, di astri nascenti rapidamente andati in confusione, delle compilation che negli anni hanno saputo fare il punto della situazione (a partire dai 13 volumi della “Dubstep All Stars”), di evoluzioni più o meno riuscite, fino alla prematura fine, decretata dai lavori di Skrillex e Rustie, i nuovi pionieri che hanno reso il dubstep superato, in quel mare magnum del circuito electro che continua a trasformarsi e reinventarsi, alla ricerca continua dell’hype di turno.

Il dubstep ha però dimostrato un’innata capacità di fondersi con le derive più disparate, intrufolandosi persino nel cantautorato post-moderno di James Blake (che l’ha mescolato con i propri umori vocali intimamente soul, in un’inedita miscela di folk, elettronica, chitarre e synth), Jamie Woon, Sohn e The Weeknd.
Ma, secondo l’autore, colui che più di ogni altro ha saputo creare una nuova coscienza ritmica post-dubstep, è stato Jamie Smith, parzialmente affine a Burial e Kode9 ma capace di spingersi oltre, stagliandosi fra l’intimismo garbato e minimale degli XX e la riscrittura dei dettami dell’elettronica contemporanea attraverso la coloratissima tavolozza che ha dato vita al suo capolavoro, non a caso intitolato “In Colours”. Un disco che risponde con la luce al buio infinito e alla pioggia che non cessa mai di battere in "Untrue" e in gran parte delle opere prodotte dai protagonisti di questa scena, in grado di consegnarci un’eredità che soltanto fra qualche anno potrà essere valutata appieno, in tutta la sua importanza.

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