Once Upon A Time...
C’erano una volta i Desert Motel, un affare partito in provincia nel 2006, pochi chilometri a sud di Roma, da un’idea di Cristiano Pizzuti, chitarrista che scrive e canta testi in grado di attingere dalla migliore tradizione alt-country americana, innestati su melodie killer che si appiccicano in testa, e del batterista Fabrizio Locicero, pronto ad assecondare ritmicamente ogni esigenza dell’amico, contribuendo attivamente all'elaborazione dei pezzi.
Le prime incisioni vengono pubblicate nell’Ep d’esordio Out For The Weekend, sette tracce legate ad atmosfere acustiche e soffuse, prossime all'indie-folk dei Jayhawks, con una marcata matrice alt-country che sfocia in un ibrido che unisce idealmente Wilco e Neil Young, capace però di splendere di luce propria. i frangenti più intimisti (ma l'elettricità è sempre presente) prevedono piacevoli intersezioni fra Black Crowes e Kings Of Leon ("A Song For When You're Blue"), un Dylan filtrato dalla tradizione country delle grandi praterie ("Resurrection") e una conclusiva "What About You" arricchita dalla voce di Silvia Zanellato e la tromba di Alessio Guzzon.
Ad aprire la partita, dopo il breve intro, provvede la splendida "Paths", ma dentro Out For The Weekend ci sono soprattutto i due pezzi da novanta "This Town" e "In Your Town Of Need": la prima ha i suoni del Jeff Buckley più rock, la seconda è un’energetica cavalcata elettrica con evidenti radici byrdsiane, opportunamente attualizzate.
Durante le registrazioni appaiono le prime “intrusioni” del chitarrista Roberto Ventimiglia e del bassista Massimo Gresia, presto in pianta stabile nella line-up.
Yarn
Nel frattempo la band allestisce uno studio di registrazione di proprietà, si rende promotrice di Tube, un’associazione che unisce giovani formazioni emergenti del loro territorio, e crea persino una piccola etichetta indipendente, la Sofa Recs, diventando così il vero riferimento musicale nella zona di residenza. I tre anni successivi condurranno a Yarn, album che concretizza il passaggio verso un sound più articolato ed elettrico, con non celate tentazioni pop che rendono il risultato finale fruibile anche ai palati meno esigenti. La gamma delle suggestioni si amplia a dismisura, senza negarsi tanto le nostalgie quanto le sperimentazioni, evitando di stravolgere il cammino compiuto fino ad allora. Fulcro del progetto resta Cristiano Pizzuti, cantante, chitarrista e autore di quasi tutto il materiale. La sua sei corde si intreccia con quella di Roberto Ventimiglia, il quale al termine delle registrazioni lascerà il posto a Simone Sciamanna, in grado di costruirsi parte dell'attrezzatura effettistica da sé, sfruttando gli studi ingegneristici. A osservare le loro pedaliere prima di un live set, ti aspetteresti un wall of sound esagerato, invece le chitarre si rincorrono pure e cristalline, pur alla costante ricerca di evoluzioni abrasive, schiudendo soluzioni tanto care a Jeff Tweedy. Ne consegue un suono che risulta al contempo derivativo e originale, plasmato con grande personalità e gusto su dodici tracce dall’elevato standard qualitativo. La sezione ritmica è nelle mani sicure del bassista Massimo Gresia e del batterista Fabrizio Locicero.
Yarn contiene canzoni pressoché perfette, come "Valentine's Gone" e "Brugge, Belgium", per non parlare dell'incipit strumentale di "Paperstars", il primo singolo estratto, che si avvicina a certi suoni di derivazione sonicyouthiana, oppure dell'eccelsa rivisitazione di "Paths", già contenuta in una diversa versione nell'Ep d'esordio. Ma dentro Yarn ci sono anche le oblique rotondità indie-rock di "Flowers", le virate britpop di "Something", gli echi di "Yankee Hotel Foxtrot" contenuti in "Kurtz", l'esuberanza di "Different", le più morbide e intense "Misery Road" e "Bright Side", fino all'ultima nata, la breve "Summer/Fall", miracolosamente estratta dal cilindro proprio mentre le registrazioni si stavano per concludere. L’album si chiude con le trame acustiche di "Let It Shine", punteggiata dagli archi arrangiati e diretti da Roberto Ventimiglia.
I Desert Motel non trascurano nulla, curano ogni piccolo particolare, dai sofisticati arrangiamenti agli aspetti grafici, fino al trailer di presentazione dell'album, realizzato incollando momenti ripresi durante le pause di registrazione. Cristiano Pizzuti non si nasconde dietro lo scudo della lingua inglese, non la usa come trucco per nascondere debolezze testuali: crede così tanto in ciò che scrive da decidere di inserire all’interno del booklet la traduzione in italiano di tutte le liriche del cd.
Per tutti coloro che stravedono per certa "americana" fortemente orientata all'alt-country elettrico di marca Wilco, i Desert Motel nel 2011 rappresentano la next big thing di casa nostra. L’album viene ottimamente recensito su tutta la stampa specializzata nazionale, la band si aggiudica un contest per band emergenti promosso da OndaRock e di lì a poco si imbarca nel primo vero tour italiano, chiudendo persino un accordo per una serie di date da realizzare in territorio inglese. Ma proprio quando un futuro luminoso pare stia per schiudersi, e mentre la band annuncia di aver già in tasca un bel mucchietto di nuove canzoni, l’avventura s’interrompe bruscamente, a due passi dal salto decisivo.
Nuove strade
Fabrizio Locicero prosegue il proprio cammino artistico come batterista de L’Orchestraccia e come collaboratore fisso di molti artisti italiani, fra i quali Marco Conidi e Roberto Angelini, inoltre assieme a Massimo Gresia apre un live club ad Aprilia, Spazio 47. Roberto Ventimiglia accelera gli studi presso il Conservatorio e si dedica momentaneamente a versanti musicali più “alti”. Cristiano Pizzuti non smette di scrivere nuovo materiale, e di tanto in tanto per lavoro – nella vita “normale” si occupa di grafica - si ritrova in trasferta negli Stati Uniti, dove ama passeggiare per i boschi intorno a Boston, rifuggendo il caos e intrufolandosi in tutti i gig serali che si srotolano nell’underground. Poi, a notte fonda, rientrato a casa, si mette a comporre.
In quel periodo Cristiano è tentato dalla voglia di intraprendere un percorso cantautorale in quasi totale solitudine: da quell’idea scaturisce la preziosa “To E.S.”, elaborata e suonata per ricordare Elliott Smith nel decimo anniversario della sua prematura scomparsa. Il brano viene rilasciato sul web il 21 ottobre del 2013 e rappresenta la prima incisione diffusa dal nuovo moniker Black Tail. Accanto a Pizzuti ritroviamo Simone Sciamanna, a dar vita al primo nucleo del nuovo progetto. Nella testa di Cristiano c’è l’idea di partorire velocemente un Ep dal carattere intimista, ma dall’incontro con la nuova sezione ritmica formata da Luca Cardone (basso) e Roberto Bonfanti (batteria), torna prepotente il desiderio di agire all’interno di una vera band: il progetto Black Tail assume così le sembianze di un quartetto.
Springtime Comes...
Ci vorrà il novembre del 2015 per poter finalmente ascoltare “Springtime”, la title track del primo disco pubblicato a firma Black Tail, un incantesimo dal quale, in pochi attimi, come per magia, si materializza la migliore sintesi mai realizzata (almeno dalle nostre parti) di Sparklehorse e Wilco, un brano che parte dolcissimo e, all’improvviso, si inarca come se ci fossero Glenn Kotche e Nels Cline a supportare tutto il malessere di Mark Linkous. Ci sono momenti molto delicati in questo album (“Small Talks” e “Tree Tops", entrambe con una bella coda strumentale), inizialmente pensati per soli voce e chitarra (ma “November” resta l'unica interamente acustica) e poi arrangiati full band.
Altri frangenti risultano più elettricamente diretti (“Love Is A Bore”) con qualche perla di bellezza che scavalca la media (“The Day Before TV”) e persino una lieve deriva psych: in “How To Be Lost At Sea” le chitarre si fanno più aggressive e la voce muta registro.
Concretizzato in soli tre giorni, evitando qualsiasi eccesso di sovraproduzione, concentrandosi su un suono naturale e spontaneo, che attinge tanto dall’esperienza di Jeff Tweedy quanto da quella dei maggiori cantautori contemporanei, Springtime rappresenta un sogno che sboccia, proprio come il fiore rosso immortalato in copertina. La transizione e il cambiamento sono le principali tematiche affrontate nelle nove tracce, figlie di un songwriting attento, riflessivo e maturo; musicalmente ci si pone invece fra Americana e lo-fi, con sentieri acustici che volentieri si trasmutano in rivoli elettrici, e una studiata alternanza di calma e rabbia che conferisce grande dinamica all’insieme.
Cristiano Pizzuti, riordinate le idee e radunati pochi fidati amici, Telecaster a tracolla, con Springtime è riuscito nell'impresa di comporre un bignamino alt-folk-rock di grande sensibilità e personalità.
La "nostra" Americana
In quel momento i Black Tail si trovano in una fase di grande creatività, che nel 2017 sfocia in One Day We Drove Out Of Town, album che dimostra come sia possibile trasformare tutta la fragilità del mondo in un punto di forza, rivestendola di strati morbidamente elettrici. I Black Tail ormai sanno perfettamente come decodificare la grammatica della moderna Americana e modellarla con grande estro, ricominciando ogni volta da zero per ottenere risultati sempre importanti. Ma per giungere a One Day We Drove Out Of Town (titolo che richiama con forza tanto il desiderio di fuga dei personaggi delineati da Springsteen quanto certe visioni del giovane Neil Young) il percorso è stato tutt'altro che semplice. Del resto è dalle difficoltà - di solito - che nascono i dischi migliori. Una serie di vicissitudini personali e lavorative costringono Cristiano a terminare con il solo Roberto Bonfanti le registrazioni, che di fatto rappresentano il risultato di un lavoro svolto quasi interamente a due. Nell'economia del progetto questa esigenza non voluta ha reso centrali i ruoli delle chitarre e del drumming - mai così descrittivo - di Roberto. I contributi di Simone Sciamanna, Luca Cardone, Filippo Strang ed Ettore Pistolesi si sono poi rivelati indispensabili per rendere il sound pieno e variegato.
L'obiettivo prioritario è stato quello di ampliare la gamma delle influenze, tanto che il secondo capitolo dell'avventura Black Tail - accanto al già sperimentato concentrato di Elliott Smith, Sparklehorse ("Spider/Galaxy" è Mark Linkous allo stato puro) e Jeff Tweedy - mostra evidenti tracce di Beatles versante Harrison (per la brillantezza del pop, ascoltare per credere la conclusiva "Sycamore"), Teenage Fanclub (per l'inquietudine indie), Pavement (per l'atteggiamento lo-fi e le chitarre mai scontate, vedi "Text Walking Lane") e Grant Lee Buffalo (per lo sguardo sulle grandi praterie americane). Rispetto all'esordio emerge molta più luce, mentre l’introspezione da sad songwriter resta sullo sfondo.
I nuovi gioielli hanno un rotondo passo alt-rock e si intitolano "Downtown" e "Wild Creatures", ma non viene certo dissipata l'attenzione per i temi più tenui: fra questi è "A Fox" il brano da stringere forte a sé, con materna protezione.
L'album ha il passo dei grandi classici, e fra queste nove cavalcate di rock gentile, rese con garbo anche quando i nostri decidono di mostrare le unghie, ognuno potrà scegliere la prediletta da coccolare e mandare in loop nel lettore, dondolandosi serenamente in veranda, assaporando il trascorrere del tempo con un sigaro, un bicchiere di bourbon e le canzoni dei Black Tail messe fra uno "Sky Blue Sky" e un "Mighty Joe Moon".
Mentre Simone Sciamanna e Luca Cardone rientrano stabilmente nel gruppo, che può affrontare così il tour promozionale a ranghi completi, a inizio 2018 l’ex Desert Motel Roberto Ventimiglia dà alle stampe il personale esordio. Intimista, crepuscolare, malinconico, sempre misurato, Bees Make Love To Flowers rappresenta un altro pezzetto di questa famiglia allargata che sboccia. Una deliziosa opera prima realizzata fondendo la consapevolezza degli studi classici (Roberto nel frattempo si è diplomato in Composizione al Conservatorio) con un innato gusto per la sperimentazione.
Per avviare l'avventura solista, Ventimiglia ha scelto di rivestire le prime sei tracce da lui prodotte soltanto con il suono di una chitarra acustica e con poche note di pianoforte: il risultato finale non lo pone a troppa distanza dalle migliori proposte internazionali di settore, da qualche parte fra lo Springsteen di "Nebraska" e il primo Elliott Smith. Basti l'ascolto di "May", per scoprire il fragile ma al contempo solidissimo mondo di Roberto, un cantautore che si dimostra già maturo.
A gennaio del 2020 seguirà un secondo lavoro, ancor più variegato, Raw, edito su Gusville Records. Dalla parentesi in lockdown arriveranno invece le cinque tracce raccolte a fine settembre nell'Ep Look At The Stars Tonite.
Per continuare a sognare ad occhi aperti
Verso la fine del 2018 i Black Tail realizzano due cover prestigiose. La rivisitazione di "Sunflower" degli Springfields arricchisce Some Sort Of Secret Sign, un tributo italiano alle produzioni della Sarah Records. "Just Like Christmas" dei Low finisce invece nella compilation natalizia edita da Lady Sometimes Records, A Very Lady Xmas.
Venerdì 13 marzo 2020, nel bel mezzo del blocco totale da Covid-19, esce You Can Dream It In Reverse, di nuovo figlio della collaborazione fra le due etichette indipendenti MiaCameretta e Lady Sometimes. E' il disco più “difficile” dei Black Tail, peraltro pubblicato nel momento più difficile che l’Italia si è trovata ad affrontare dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. You Can Dream It In Reverse prosegue la saga Black Tail mantenendo i medesimi elementi distintivi dei precedenti capitoli, ma esaltandoli all’ennesima potenza, con un inglese mai scontato, privo di qualsiasi facile slogan, arricchito da quel sound figlio della migliore Americana che vi possa venire in mente, e un songwriting che mantiene solidi collegamenti con le esperienze di Wilco, Elliott Smith e Sparklehorse. L’introspezione e la malinconia trovano placide conferme in brani come “Sequoia” e “The Great Comet Of 1996”, così densi di arpeggi, mentre “Late Summer” porta in dotazione chitarre vagamente surf che fanno tanto sixties nostalgia. A “Not OK” spetta il compito di alzare un tantino i giri, evidenziando lo spirito “indie” mai sopito, ulteriore componente del mix stilistico della band laziale. Ma il brano da ricordare questa volta è senz’altro “China Blue”, con le sue istantanee di vita metropolitana, posto non a caso in apertura, una piece in tre atti condensata in appena sei minuti, con tanto di cavalcata chitarristica finale molto Nels Cline. Le code strumentali, del resto, sono una costante per quasi tutta la durata del disco, tanto da divenire un’altra caratteristica distintiva del gruppo. Tutte le chitarre sono suonate da Cristiano, stese sulla base ritmica predisposta come al solito da Roberto Bonfanti (batteria) e Luca Cardone (basso).
Con i precedenti “Springtime” e “One Day We Drove Out Of Town” le nove nuove tracce firmate Black Tail formano un trittico di rara bellezza e sensibilità. Una continuità di rendimento che si rivela sempre più stupefacente per una band che preferisce sussurrare anziché alzare i toni. Relegati nella loro nicchia seminascosta, dopo aver abbandonato il bozzolo cercano di trasformarsi da crisalide in farfalla per volare verso un più largo consenso. Non so perché, ma quando ho letto la recente autobiografia di Jeff Tweedy, “Let’s Go (So We Can Get Back)”, pensavo proprio ai Black Tail, e a quanto possa essere diversa la vita secondo il posto nel quale ti capita di nascere. Tweedy nacque in provincia, ma era pur sempre una provincia nel bel mezzo degli Stati Uniti d’America, e non è poco, perché lì non è mai davvero impossibile riuscire ad avere successo, riuscire a diventare "qualcuno". Arrivassero dal midwest degli States, i Black Tail oggi sarebbero un culto di fama mondiale...
In occasione del Natale 2020, i Black Tail pubblicano un Christmas Ep, Season's Greetings, concepito per ospitare sotto lo stesso tetto sei cover, registrate nello spazio di sette anni ma aventi tutte il medesimo denominatore comune: il tema natalizio. Una rassegna di preziosi omaggi che prene il via nel 2013, quando la band registra il contributo per una compilation promossa da una webzine italiana, una canzone di Jason Schwartzman / Coconuts Records: “It’s Christmas”. Dodici mesi più tardi Cristiano Pizzuti, in piena notte, chitarra e voce, registra la sua versione di un pezzo di Will Oldham, “Christmastime In The Mountains”, il brano più tenue di questa raccolta. Alle prime luci dell’alba è già pronta. Altro flash, saltiamo al 2017, questa volta Yoko Ono, ricordi di infanzia, i dischi di papà, una chitarra in tremolo, ed ecco “Listen The Snow Is Falling” che fluttua, leggera come la neve.
Nel 2018 il trattamento viene riservato a un brano dei Low, “Just Like Christmas”, diffuso in rete in tempo reale, con la sorpresa di vederla il giorno dopo condivisa su Twitter dai Low stessi: roba da togliere il fiato. Ma misurarsi con modelli monumentali non crea timore ai Black Tail: non solo possiedono tanta qualità da poter riarrangiare canzoni altrui rendendole “proprie” (ascoltare per credere), ma in molti casi riescono persino a far meglio degli originali. E si arriva alle due partecipazioni consecutive alle compilation natalizie edite da Lady Sometimes Records: “Held The Hand” di Daniel Johnston nel 2019 (occhio alla furiosa increspatura nel finale) e “Angel In The Snow” di Elliott Smith nel 2020, l’anno da incubo, quando i ragazzi desideravano soltanto trascorrere del tempo assieme, al sicuro, suonando le proprie canzoni e quelle degli artisti che amano di più, alla ricerca di qualche spiraglio di normalità, nonostante mascherine e distanziamento. Aspetto non secondario: è il primo brano pubblicato dai Black Tail con la new entry Cristina Marcelli, che ha sostituito al basso Luca Cardone.
A febbraio del 2024 arriva Wide Awake On Beds Of Golden Dreams, risultato del difficile periodo post-pandemico, che ha portato la band laziale a decidere di non elaborare testi per rassicurare l’ascoltatore: non era il momento di pensare un album indie-rock scanzonato, ignorando contingenze e sentimenti. I Black Tail hanno preferito cercare l’empatia, la condivisione delle inquietudini, sforzandosi di tener vivo il fragile mondo che amano scolpire con cura artigianale. Strofe velate di tristezza ma innestate in canzoni più luminose del solito, in particolare le due diffuse in anticipo, “Josephine” e la title track, posizionate non a caso in apertura di ciascun lato nell’edizione in vinile dell’album: la logica è quella di spostarsi gradualmente verso brani più “scuri”, “Haze” per il Side A, “Candle” per il B. Un disco di sentimenti contrastanti, dove anche nei momenti più intimi e solenni sterzate più solari invertono il mood. Su “Silver Feathers” la malinconia impressa dalla strofa è spezzata da un ritornello più radioso, seguito da un travolgente lavoro sulle chitarre e una coda che muta di nuovo direzione. Qualcosa di simile avviene durante lo svolgimento tutt’altro che lineare di “Blissful Summer / Neon Heartbreak”.Brani dalla struttura mutevole, che tendono ad incresparsi, se non addirittura ad incendiarsi, lasciando spazio a vibranti assoli che si lasciano ispirare dall’estetica Wilco.
Sparklehorse ed Elliott Smith restano gli altri riferimenti che da sempre illuminano il percorso Black Tail, capaci col tempo di legittimare le proprie peculiarità definendo un sound distinguibile e un songwriting unico in Italia nel suo genere. Melodie e chitarre cercano cambiamenti, comunicano novità, lasciano emergere caratteri che nei lavori precedenti restavano sotto la superficie. Il ventaglio stilistico risulta ampliato per mezzo di suggestioni british che si affiancano al consueto immaginario da american midwest. Fra le pieghe di “To Be Allowerd To Be” si percepiscono echi dei Beatles, in altre parti il suono jangle ha il sapore delle band americane influenzate dalla scena inglese. Spunti a supporto di una narrazione che mostra l’intenzione di non voler restare storditi al cospetto di quanto ci accade intorno: “Candle” parla di oscurità per tutto il suo svolgimento, ma termina affermando che se non hai una candela per rischiarare la notte potrai sempre fermarti ad attendere l’alba, la luce alla fine arriverà sempre. I Black Tail chiudono la loro tetralogia sondando la profondità dell’animo umano con l’obiettivo di porsi degli interrogativi, perchè le domande sono finestre che ognuno di noi può decidere di spalancare…
Sebbene la scena indipendente italiana venga da molti considerata in fase di stanca, continuano a fiorire produzioni per le quali il mercato nazionale sembra essere davvero troppo piccolo. Black Tail è una creatura che per capacità compositiva, perizia tecnica e internazionalità del taglio, merita di trovare una dimensione che vada ben oltre gli angusti confini del nostro paese. Sono davvero pochi oggi in Italia a saper calare nella contemporaneità influenze tutt’altro che scontate: saper suonare (e saper scrivere) come Wilco, Elliott Smith o Mark Linkous, è un'opportunità riservata a pochissimi eletti, baciati da un talento espressivo fuori dal comune.
BLACK TAIL | ||
Springtime(MiaCameretta, 2015) | 7,5 | |
One Day We Drove Out OfTown (MiaCameretta/Lady Sometimes, 2017) | 7,5 | |
You Can Dream It In Reverse (MiaCameretta/Lady Sometimes, 2020) | 7,5 | |
Season's Greetings (Xmas Ep, 2020) | 7 | |
Wide Awake On Beds Of Golden Dreams (MiaCameretta, 2024) | 7,5 | |
DESERT MOTEL | ||
Out For The Weekend (Sofa Recs, 2006) | 7 | |
Parking Lots & Rooms For Rent - Vol. 1 - Live Ep (Sofa Recs, 2009) | 6 | |
Parking Lots & Rooms For Rent - Vol. 2 - Live Ep (Sofa Recs, 2010) | 6 | |
Yarn (Sofa Recs, 2011) | 7,5 | |
ROBERTO VENTIMIGLIA | ||
Bees Make Love To Flowers(autoprodotto, 2018) | 6,5 | |
Raw (Gusville, 2020) | 7 | |
Look At The Stars Tonite (Ep, Gusville, 2020) | 7 |
Springtime - Teaser (videoclip da Springtime, 2015) | |
November/A (Very Short) Bedroom Session (videoclip da Springtime, 2015) | |
A Fox - VDSS Live Session (videoclip da One Day We Drove Out Of Town, 2017) | |
Spider/Galaxy (videoclip da One Day We Drove Out Of Town, 2017) | |
Sunflower (Springfields cover) (videoclip da Some Sort Of Secret Sign, 2018) |
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