Caroline Polachek

Caroline Polachek

La legge del desiderio

Dagli esordi nei Chairlift, all’insegna dell’indie-pop elettronico, ai tentativi solisti mascherati da Ramona Lisa e CEP, fino all’esplosione nei panni di sé stessa, con l’album “Desire, I Want To Turn Into You”. La vertiginosa ascesa dell’artista newyorkese che ama i Matia Bazar e non vuole diventare come Dua Lipa

di Claudio Fabretti, Vassilios Karagiannis

Le vie del successo sono infinite, ma nel mondo del pop possono essere anche particolarmente tortuose. Ne sa qualcosa Caroline Elizabeth Polachek, cantautrice newyorkese classe 1985. Niente lasciava presagire l’esplosione di stardom che l’ha travolta nella scorsa annata 2023. Non certo l’onorata militanza indie alla testa dei Chairlift, né i camuffamenti più o meno improbabili sotto i moniker di Ramona Lisa e CEP, e nemmeno il pur brillante debutto nei panni di se stessa (Pang, 2019). C’è voluto il famigerato sophomore - parola(ccia) mutuata dal gergo scolastico anglosassone per indicare il secondo album di un musicista - nella fattispecie, il torrenziale Desire, I Want To Turn Into You (2023), che in realtà condensa tutto ciò che Caroline è stata - e non è stata - nella sua quasi ventennale carriera, ma che a molti è parso come un esordio. Perché frantumando vigorosamente l’ormai esiguo diaframma che separa indie e mainstream, miss Polachek ha confuso un po’ tutti, inclusi quanti, memori della sua matrice underground, sono rimasti spiazzati nel vederla troneggiare a mo’ di novella popstar sulle copertine patinate dei magazine mondiali. Fatto sta che in poche altre occasioni si ricorda un’esplosione a scoppio ritardato così fragorosa. La mente corre addirittura al magico 1983 di Cyndi Lauper, allora trentenne, reduce da una faticosa gavetta tra cover band e gruppi rock. Ma Caroline Polachek di anni ne ha 38. E tutto lascia immaginare che sia solo all’inizio di una (nuova) carriera che – a differenza di quella della ragazza che voleva solo divertirsi – potrebbe persino proseguire in ascesa. Il tempo saprà rispondere, ma nel frattempo non può non lasciare sbalorditi la disinvoltura con cui l’ex-frontgirl dei Chairlift calca importanti palcoscenici live e anche televisivi (ad esempio, il Tonight Show di Jimmy Fallon), mettendo in mostra una presenza scenica, una maestria tecnica e una gamma vocale impareggiabili.
Ma riavvolgiamo il nastro e ripartiamo dall’inizio della storia: 20 giugno 1985.

Ind(i)ependence days

ChairliftCaroline Elizabeth nasce a New York, da James Montel Polachek, analista di mercato e musicista di formazione classica, e Elizabeth Allan. A solo un anno, però, si trasferisce con la famiglia a Tokyo, in Giappone, dove resterà fino all’età di 6 anni. Un’esperienza che in qualche modo ne segnerà anche la carriera artistica: racconterà infatti di come il primo contatto con le canzoni tradizionali giapponesi e i temi degli anime avesse avuto un'influenza importante sulla sua educazione musicale. Successivamente si stabilisce a Greenwich, nel Connecticut, dove inizia a cantare nel coro della terza elementare. Coltiva la sua passione musicale anche a casa, dove suona una tastiera Yamaha donatale dal padre, secondo i maligni, per impedirle di fare troppi danni al pianoforte. In quel periodo, che culminerà in negativo con il divorzio dei genitori nel 1994, Caroline si descrive come "una ragazzina molto iperattiva" al punto che madre e padre, separati nelle rispettive case, tenteranno di calmarla facendole ascoltare i dischi di Enya (!).
Da adolescente, inizia a viaggiare per gli States a caccia di musica, frequentando in particolare New York dove assiste a concerti dei generi più vari: emo, post-hardcore, punk e jazz. Si narra che una volta Mike Patton dei Faith No More l’accompagnò personalmente a uno show alla Knitting Factory quando la sua carta d'identità (falsa) era stata rifiutata. Nel frattempo, Caroline suona in un paio di gruppi al liceo e all'università. È il preludio alla nascita della sua prima vera esperienza musicale.

Assieme all’amico Aaron Pfenning, nel 2005 Caroline Polachek forma i Chairlift, formazione synth-pop di stanza a Boulder, in Colorado. Dopo un paio d’anni di gavetta, la band si trasferisce a Brooklyn, dove ingaggia un terzo membro, il multistrumentista Patrick Wimberly.
L’album d’esordio dei Chairlift, Does You Inspire You (2008), esce per una misconosciuta etichetta indie (Kanine Records) ed è una intelligente rivisitazione di un wave-pop screziato da intrusioni elettroniche all’insegna di una colorata originalità. Un disco scorrevole, composto con acume e controllo dei mezzi. L’intreccio delle due voci maschili e femminili (Pfenning e Polachek), oltre a un uso spiccato di elettronica e chitarra effettata, sono elementi ulteriori che arricchiscono undici tracce mai uguali a sé stesse. La continua varietà umorale delle canzoni proietta l’ascoltatore in una giostra forsennata, incapace di sostare anche solo per un attimo.
Spirali di pop al vetriolo trasudano tensione e fascino (l’incipit pulsante, quasi funk, di “Garbage”, la tormentata “Earwig Town”), fragili litanie recitate con flemma donano ai minuti un tocco etnico (“Planet Health”, che pare venir fuori da “Gentlemen Take Polaroids” dei Japan; l’ambient-pop vibrante di “Somewhere Around Here”). La grazia di gemme pop immacolate raggiunge vette di pura eccellenza (la sorprendente bellezza di “Bruises”, i saliscendi irresistibili di “Make Your Mind Up”), e nei frangenti in cui l’uso dell’elettronica diventa portante, la tenuta della struttura è invidiabile (Soft Cell ansiolitici in “Evident Utensil”, i gorghi sintetici di “Territory”).
Giocata la carta della ballata scheletrica con voce riverberata (“Don’t Give A Damn”), con la coda finale composta da uno strumentale poggiato su un ectoplasma di tromba (“Chameloen Closet”), giunge il commiato perfetto. “Ceiling Wax” si ricongiunge con tradizioni ormai perdute, collegando idealmente l’afflato sottomesso delle recitazioni di Hope Sandoval con le tentazioni degli Antenne.
I Chairlift, insomma, mettono sul piatto un misto succulento: coraggio, ispirazione, sfrontatezza e talento. Il risultato che ne scaturisce è una pietanza dai sapori variegati, a suo modo golosa e seducente, la cui mutevole attrattiva richiamerà avventori fra i più disparati. La hit “Bruises” sarà anche scelta come colonna sonora di uno spot della Apple.

Ma il talento di Caroline Polachek manifesta subito la necessità di esprimersi anche in altre forme. Così nel 2008 l’artista newyorkese fonda il coro Girl Crisis con dodici altre interpreti femminili, incluse Au Revoir Simone e Class Actress. Il gruppo arrangerà e inciderà due cover all'anno dal 2008 al 2013, incluse canzoni di Black Sabbath, Nirvana, Leonard Cohen, The Bangles e Ace of Base.
Nel 2010, invece, Polachek si unisce a Jorge Elbrecht dei Violens per incidere una “sgin” (anagramma di sing) di “Never Let You Go” di Justin Bieber, ovvero – secondo la spiegazione della stessa cantautrice – “una canzone originale composta per accompagnare le immagini mute di una hit scelta a caso, nella fattispecie il videoclip di Bieber scovato su YouTube”. Nello stesso anno collabora ancora con i Violens per il duetto di "Violent Sensation Descends (French Duet Version)", mentre nel 2011 girerà il videoclip di un altro brano del gruppo, "It Couldn't Be Perceived", e nel 2013 sarà ancora al fianco di Elbrecht nell’Ep “Gloss Coma 001”.

Retromaniaci a modo loro

ChiarliftNel frattempo i Chairlift si trovano a fare i conti con l’abbandono da parte di Pfenning, che lascia la compagnia nel 2010. Rimasti un duo, Polachek e Wimberly decidono di andare avanti, realizzando il sequel dell’esordio, intitolato Something (2012). Mentre, col revival nineties alle porte, sbilencaggini post-punk e giri di basso alla Joy Division cominciano a odorare un po' di stantio, e la no-wave newyorkese non appare più il non plus ultra dell’hype indie; proprio ora che tutti sembrano pronti a imbracciare chitarre grunge e tastieroni eurodance, i Chairlift bussano alla porta con un cestone di Lp di Kate Bush, Eurythmics, Talk Talk, Tears For Fears, Naked Eyes: è il synth-pop più arty e solare, insomma, a fornire l'ispirazione a questi importunatori del naturale ciclo ventennale della retromania. Quel pugno di artisti di metà anni Ottanta che aveva visto nel campionatore Fairlight lo strumento di redenzione da darkumi e sgangheratezze, l'occasione per riconciliare la propria generazione col sound sgargiante e raffinato dell'era sunshine-pop.
Newyorkesi come altri "ripescatori" dello stesso tipo di caleidoscopica vitalità (Vampire Weekend, MGMT), i Chairlift avevano messo a nudo, con la tenera bellezza di Does You Inspire You, un approccio scanzonato ma non solare, una composizione brillante ma non straripante. Le canzoni di Something, invece, nonostante la fantasia rimanga intatta, esplodono prorompenti, si ergono a perfette pop-song dal ritornello killer, sanno ammaliare in maniera diretta.
Oltre all'enorme talento melodico e di varietà sonora - si alternano magistralmente toni differenti e registri strumentali opposti - la voce candida di Caroline Polachek si staglia finalmente come fonte assoluta del magnetismo dei brani. Versatile e intimamente folk, passa dall'usignolo (l'estatica "Turning") alla femme fatale (la malia irresistibile delle varie "Take It Out On Me", "Ghost Tonight" e "I Belong In Your Arms"), dai gorgheggi ai sussurri nell'arco di un solo brano.
Ma il vero punto di forza pare essere un altro: una timidezza mai del tutto nascosta, un velo di imbarazzo o immaturità che mette in mostra - in perfetta sintonia con lo spirito indie - una creatura fragile e incerta. Una fata esile e luminosa, che pare quasi chiedere protezione.
I cali di tensione in qualche circostanza smorzano il tono passionale dell'album (la melensa "Cool As Fire", il folk-pop incerto e fuori contesto di "Frigid Spring"), senza tuttavia inficiare la qualità complessiva che rimane alta e vibrante. Fin dall'essenzialità delle ultime note di "Guilty As Chargee" - tripudio tambureggiante di finissimo pregio - si scorge l'immenso, sregolato e palpitante potenziale del duo, che pare ormai possedere tutte le carte per produrre il disco dell'esplosione a livello di critica e pubblico.

Intanto Caroline Polachek partecipa al brano "Everything Is Spoilt By Use" degli Ice Choir (progetto solista di Kurt Feldman dei Pains of Being Pure at Heart) del quale dirige anche il videoclip, e alla traccia "Chamakay" dei Blood Orange (con i quali si ripeterà 5 anni dopo per "Holy Will"). E si concede il lusso di diventare anche autrice e produttrice per nientedimeno che Beyoncé, con il brano “No Angel” (contenuto nell’omonimo “Beyoncé” del 2013), che sarà anche candidato ai Grammy Award. Quindi, nel 2013, presta i suoi vocals a "Unhold" firmata Delorean, progetto alternative dance spagnolo.

Ramona LisaAncor più spiazzante la sua incursione solitaria dietro il misterioso pseudonimo Ramona Lisa. “Ramona è un personaggio che scaturisce dalle mie canzoni. Appartiene a un altro mondo”, spiegherà Polachek. E questo concetto di piacevole alienazione sarà il leit-motiv di tutto l’album Arcadia (2014), nuova tappa del suo irrequieto percorso di sperimentazione. “A document of being alone”, secondo le sue stesse parole. L’artista newyorkese avverte il bisogno di lavorare in parallelo a qualcosa di proprio, di intimo. E così, nei ritagli di tempo tra una tappa e l’altra del tour dei Chairlift, inizia a scrivere e registrare sola con il suo computer nei luoghi più disparati: aeroporti, armadi di hotel, camerini, ma soprattutto nelle camere della Villa Medici a Roma, dove si trasferisce per un periodo. Non usa alcuno strumento hardware, nessun microfono, solo il suo laptop.
Pubblicato negli Stati Uniti dalla Terrible Records di Chris Taylor, bassista dei Grizzly Bear, e in Europa dalla Pannonica, Arcadia è un compendio di quella che lei stessa ha definito “pastoral electronic music”, ovvero musica elettronica bucolica. Ma alla formula si potrebbe tranquillamente aggiungere anche “lo-fi”: l’approccio alla registrazione di cui si parlava sopra ha infatti enormemente influito sui suoni del disco, che sono sempre distanti e filtrati, anche finti.
Le canzoni dell’album di Ramona Lisa possono essere suddivise in due categorie: alcune sono di matrice più ambient, usate anche come interludi e ricche di suoni e rumori; in altre invece si fa sentire maggiormente il background synth-pop della Polacheck. Alla prima categoria appartiene, ad esempio, il brano di apertura “Arcadia”, perfetta title track che riassume al meglio lo spirito dell’album e ci introduce nel mondo creato dalla Polacheck, a partire dal suo testo. Il passaggio “Here I ran from the west/ unto ruins where the sun dances with death” sembra riferirsi proprio al suo temporaneo soggiorno romano.
Il brano più facile è di certo “Backwards And Upwards”, che strizza invece l’occhio alle melodie e ai suoni più tipicamente à-la Chairlift. Appartengono alla seconda categoria anche le esotiche “Lady’s Got Gills” e “Izzit True What They Tell Me”, tra le canzoni più belle dell’album, o la dolce ballata “Dominic”.
A chiudere la raccolta, provvede l’ambientale “I Love Our World”, in cui synth, organi e campane si intrecciano con rumori e suoni ripresi dalla Polacheck su un tetto durante una giornata di sole. “Si tratta semplicemente di provare a registrare come mi sentissi in quel momento”, ha spiegato a riguardo.
In conclusione, Arcadia è un album che può catturare e affascinare, ma lascia anche trapelare l’impressione che si tratti di una prova, di un gioco, che la Polacheck non abbia fatto sul serio. Si conferma tuttavia lampante il talento di un’artista che, da sola o con la sua band, dimostra di possedere tutti i mezzi per essere una delle migliori interpreti del suo genere.

Chiusa la parentesi Ramona Lisa, Polachek torna nei Chairlift per il terzo (e ultimo) album della band newyorkese, di nome Moth (2016), che – a dimostrazione del crescente interesse nei loro confronti – esce su etichetta Columbia.
Se il precedente Something aveva segnato una cesura netta, sotto il profilo sonoro, rispetto all'esordio Does You Inspire You, a favore di una più decisa svolta synth-pop, allo stesso modo Moth mette totalmente in discussione i connotati stilistici ed espressivi del suo immediato predecessore, parlando in un linguaggio ben più contemporaneo, che ricorre, quando necessario, a r&b e funk in dosi massicce. Se quindi si tratta di stravolgimenti significativi, questi finiscono però per rifarsi ciecamente a un'impostazione creativa unitaria, coerente con se stessa, nonostante i mutamenti messi in campo: polimorfismo, per l'appunto, di cui Caroline Polachek e Patrick Wimberly diventano i portabandiera. Nonostante i cambi d'abito e di scenario, l'attitudine all'arrangiamento cangiante, il gusto per una scrittura colta e accessibile, nonché per pattern ritmici intricati e multiformi, rendono ogni tassello del puzzle Chairlift perfettamente incasellabile e riconducibile alla firma dei propri titolari, che dal canto loro possono vantare una personalità nell'approccio da veri fuoriclasse.
R&b e funk, si diceva, e per giunta in grande quantità: è evidente il tentativo da parte del duo di voler ampliare la propria tavolozza ricorrendo a un frasario sonoro più contemporaneo, di giocarci in una maniera analoga a quella dei Bilderbuch o di LA Priest. Laddove nei primi era il pop-rock a essere sottoposto con pieno successo al trattamento “black”, e nel secondo la sua peculiare lettura dell'electro-pop, in Moth l'attenzione si incentra su un pop arty e sofisticato, a tratti ancora memore delle precedenti esperienze sintetiche, eppure già da solo notevolmente proiettato in avanti, a distanza di sicurezza da ogni possibile confronto nostalgico. D'altronde, la premura di rendere evidente il divario c'è stata da subito, attraverso quattro singoli che in un certo senso hanno composto il quadrilatero entro cui circoscrivere la ricercata alchimia del lavoro.
Laddove quindi “Crying In Public” diventa l'occasione per espandere il nu-sophisti-pop di Rhye e Jessie Ware indirizzandolo verso una forma di malinconica lounge-music dal retrogusto jazzy (nella quale lasciare la Polachek esprimersi al meglio delle proprie potenzialità timbriche), “Ch-Ching” è la potenziale indie-hit da riascolto compulsivo, frullato misto di cui è impossibile risalire agli ingredienti di partenza, condito da un ritornello killer e da uno studio compositivo di tutto rispetto, che esalta il segmentatissimo modulo ritmico e l'utilizzo inventivo degli ottoni, finalmente smarcati da facili riferimenti vintage. E se non sempre la scrittura mostra il reale potenziale del duo (“Romeo”, per esempio, pare più un collage malriuscito di tre canzoni messe insieme), dal punto di vista del sound c'è talmente tanta (buona) carne al fuoco che viene spontaneo perdere di vista quest'aspetto, e premiare piuttosto l'enorme sforzo speso nell'articolazione della proposta sonora.
Si fa presto quindi, a rendersi conto di come i due passino in un batter d'occhio da un intelligente tentativo di sondare terreni mainstream, riadattati naturalmente alla loro visione delle cose (il massiccio r&b di “Show U Off”, infiocchettato da interessanti echi dance e un'interpretazione però fin troppo enfatica a momenti), alla suadente funky-disco di “Moth To The Flame”, brillante aggiornamento dei tratti del genere alla luce della house-music anni 00 e di una spigliata allure sintetica. Per non parlare di come la genialità di un Green Gartside potrebbe, con le dovute differenze, rivivere prossimamente nell'esperienza dei Chairlift: la menzionata “Polymorphing”, nel suo incastrare cadenze dub, sinuosità sophisti-pop e venature dal retrogusto dreamy, non avrebbe grosse difficoltà a essere il trampolino di lancio per far rivivere in maniera più estesa la complessità di un sound che in “Songs To Remember” trovò uno snodo centrale.

Ma proprio quando la strada per il possibile capolavoro è stata pienamente imboccata, Caroline Polachek e Patrick Wembley decidono di separare le loro strade, dopo un'ultima tournée tenuta nella primavera del 2017, incentrandosi d'ora in avanti ciascuno sui propri progetti personali, la prima da solista, il secondo come produttore per altri artisti. I Chairlift resteranno sempre un indefinibile via di mezzo tra un gruppo di culto indie e una promessa mancata. Ma saranno soprattutto la solida piattaforma dalla quale Caroline Polachek spiccherà il volo per tramutarsi da timida fata indie a sapiente popstar.

Caroline Polachek


Le metamorfosi di CEP

Come si è visto, del resto, i Chairlift cominciavano a stare stretti a Caroline Polachek, che aveva già mostrato di volersi mettere in gioco su altri versanti. Non ancora decisa a firmarsi con nome e cognome, però, l’artista newyorkese si nasconde dietro la sigla CEP (iniziali del suo nome completo Caroline Elizabeth Polachek) per quello che, di fatto, è il suo secondo album solista, dopo l’esperienza di Ramona Lisa. Chi l’attendeva al varco per un nuovo sviluppo della sua idea di pop cangiante e idiosincratico dovrà però attendere: la raccolta di 18 bozzetti autoprodotti di Drawing The Target Around The Arrow(2017) consiste infatti nella deviazione più inattesa: una rottura totale degli schemi (seppur molto poco definiti) in cui si era fino a quel momento contenuta l'arte della musicista newyorkese. Formato da tracce composte nel corso del lustro precedente, l’album è un insieme di scarni brani strumentali ideati attraverso l'impiego di sinusoidi sintetiche e poco altro, per un lavoro dal fascino ambientale e dal rigore estremo, in cui anche soltanto una parvenza di melodia è un lusso da non sperperare. A prescindere dal risultato complessivo, l'intento è senz'altro degno di stima.
Da lei descritte come uno stacco uditivo da qualsiasi cosa stesse realizzando in quello specifico istante, le composizioni sono dedite a un minimalismo espressivo estremo, in cui il silenzio conta tanto quanto il suono e in cui l'idea di progressione quasi scompare, di fronte a una ripetizione timbrica che è la vera costante tra i vari brani del lavoro. L'estrema neutralità, dipinta da Polachek come totale funzionalità (non è un caso che i titoli scelti si riferiscano a concetti tutto sommato alquanto generici, del tutto interscambiabili l'uno con l'altro), vanifica ogni forma di imprinting personale. La vanificazione del proprio ego artistico, per quanto rilevante, per non dire riposante, per una come Polachek che di certo non ha problemi nell'evidenziare quanto è frutto della sua creatività, alla fine si rivela però anche il maggiore limite della raccolta. Le tracce scorrono anonime, in un susseguirsi di suggestioni più o meno subliminali, prive però di un impulso davvero consistente, forti solo del loro esistere.
Al di là della sincerità delle intenzioni, un pizzico di cura in più nella varietà delle sinusoidi presentate avrebbe di certo giovato al progetto, senza perdere di vista la retrocessione della mente creativa e garantendo al contempo una maggiore fruibilità. Fermo considerando che l'ora di durata tutto sommato fornisce un sottofondo ambient-drone neanche troppo spregevole, tuttavia sono ben pochi i momenti in cui oltre a un sommesso rombo di fondo, o a qualche impulso più vivace e dalle frequenze più vivaci, se ne ricava qualcosa di più interessante.
Pur in tutta la sua ricorsività, "Singalong" fornisce un piacevole pattern micro-melodico che pare scritto per un vibrafono, "Missed Exit" suona quasi come un field-recording registrato in giro per qualche foresta, e la struttura di "1pmWater" avvicina gli sforzi di Polachek all'incedere sacrale delle composizioni di Joanna Brouk. Si tratta però di episodi rari, di occasionali concessioni compositive che confermano la regola, votata all'esposizione di droni sciolti da ogni ulteriore sovrastruttura, un mero esercizio di defaticamento dalle elaborate armonie vocali e produttive di una delle voci più particolari del pop a stelle e strisce.
Non rimarrà la sua prova più memorabile e degna di rilievo, ma anche per pura e semplice curiosità la raccolta strumentale griffata CEP merita un ascolto.

Caroline PolachekIl 18 ottobre 2019 arriva quindi il primo album a nome Caroline Polachek, Pang. Più che un punto di partenza (o ripartenza, se preferite), un primo traguardo, un'importante dichiarazione di intenti, per una musicista con quasi 15 anni di carriera alle spalle. Quasi come se la lunga e proficua esperienza con i Chairlift e le sortite soliste a nome Ramona Lisa e CEP fossero gli scalini necessari per ottenere una piattaforma effettivamente sua, col primo album a suo nome Caroline Polachek approda a una dimensione interamente personale, uno stravagante diario pop in cui lasciar confluire tutte le diverse direttrici toccate attraverso i suoi diversi progetti, a costruzione di brani sospesi tra la più sfacciata contemporaneità e un'aura atemporale, dolceamari ma colti improvvisamente da una bizzarra energia, che si riverbera tanto nella gestione degli spazi sonori quanto delle interpretazioni, tra le più intense e centrate del suo repertorio. Un punto d'arrivo, sì, ma che già esplicita la sua alterità rispetto alla produzione passata.
Se è automatico riscontrare la sofisticazione sintetica che aveva gradualmente permeato la band madre, nondimeno Polachek opta qui per un ventaglio più ampio di soluzioni e modalità, tale da consentire la fioritura di un'estetica spesso intrappolata nei cliché di una raffinatezza talvolta troppo asettica. Non che qui scorra tutto liscio, talvolta gli eccessi che avevano fiaccato le prove precedenti tornano in sordina a presentare il conto, eppure mai come stavolta la musicista raggiunge quell'equilibrio tante volte auspicato, ma mai realmente acchiappato. Con una produzione gestita assieme all'affiliato di casa PC Music Danny L Harle (qui tenutosi a bada nei suoi giochi dissacranti) e un senso della scrittura che sa mostrarsi competente nei suoi diversi accenti, il disco scorre sinuoso ed effervescente allo stesso tempo.
È un vortice di sensazioni che l'autrice declina con ricercato eclettismo, un saggio espressivo che cangia dalla cantata barocca al fraseggio r&b, passando per astute digitalizzazioni (lo spavaldo utilizzo dell'autotune nei vocalizzi impossibili di “Ocean Of Tears”) e fasi di maggiore astrazione, con cui cristallizzare una peculiare sfumatura emotiva.
Ben più che per tanti altri album dalla decantata versatilità, qui è stata spiattellata sin dai (tanti) brani diffusi prima della pubblicazione, ben attenti a muoversi sui crinali sottili che separano l'euforia dalla disperazione, la ritrosia dal desiderio. “Door” ha svolto ottimamente il ruolo di apripista, traducendosi in un pezzo dalle levigate fattezze ambient-pop, ingentilito da una melodia che si muove nei territori cari a una Imogen Heap, prima di dare adito a una chiusura in cui poter esprimere liberamente il proprio virtuosismo canoro, senza spezzare il tocco accorato, autunnale, della progressione. Se “Insomnia” approfondisce ulteriormente il lato più atmosferico ed emozionale di Polachek, preda dei suoi istinti a seguito di una delusione amorosa, altrove il tono si fa più pimpante, pungente, spudoratamente coinvolgente. È il caso di “So Hot You're My Feelings”, che riprende gli anni 80 dei Fleetwood Mac sventagliando una penna dalla chiarezza assassina (efficacissimi i buffi contorni vocali di supporto), ma anche dell'urban-pop rarefatto di “Hit Me Where It Hurts”, in cui i codici da cantautorato pianistico anni 90 si insinuano nei tessuti sonori dell'r&b contemporaneo, declinato con impassibile compostezza.
Anche con qualche sbandata di contorno (una “New Normal” troppo breve per convincere nel suo ibrido bubblegum-Americana; una “Hey Big Eyes” indecisa se seguire le modulazioni neo-barocche dell'harpsichord-synth o l'attitudine più hip-hop della seconda metà) lo stratificato universo musicale escogitato dalla musicista seduce e avvince, introducendo anche una vena autoriale spesso rimasta troppo in sordina (l'ariosa folktronica di “Look At Me Now”, sorta di lettera a priori su un ipotetico futuro prossimo).
Manca ancora quell'idea di pulizia in più perché la personalità di Caroline Polachek si presenti senza distrazioni, ma anche così la strada intrapresa è quella giusta, per consentire alla grandeur dell'autrice di svilupparsi ed esaltare fino in fondo. Tra urgenza e riluttanza, un eloquente elogio dell'emozione, oltre ogni logica e razionalità.

Caroline Polachek sulla copertina di

A star is born

Intanto Polachek prosegue nel suo giro di collaborazioni, stavolta a fianco di Christine and the Queens in "La vita nuova" (in italiano) e di Charli XCX in "New Shapes" (insieme ancora a Christine and the Queens), secondo singolo dal suo album in studio “Crash”. A garantirle nuova popolarità è anche la partecipazione in veste di opening act al "Future Nostalgia Tour" di Dua Lipa, iniziato il 9 febbraio 2022. Un’esperienza della quale dirà: “È stato interessante perché non suonavo per il mio pubblico, ma per il suo. È stata una grande occasione per imparare. Ad esempio, una cosa che ho capito è che non vorrei mai la sua fama; non voglio vivere costantemente con i bodyguard e con i fotografi che ti stanno sempre addosso. Lo odierei. Aver visto da vicino quella vita mi ha fatto capire quanto sia importante salvaguardare la propria privacy”, svelerà a Rolling Stone, confidando al tempo stesso una insospettabile passione per i Matia Bazar e in particolare per la loro hit “Ti sento”, scoperta durante le sue vacanze romane (per restare in tema): “La performance vocale della cantante dà la sensazione che gli occhi stiano per uscirle dal cranio: è intensissima, come fosse folgorata. Quella canzone è diventata per me una specie di faro su dove volevo andare e cosa volevo ottenere”. Un legame, quello con l’Italia, nato con la residenza a Villa Medici del 2012, che ha dato un impulso alla sua carriera solista, alimentato nel 2022 con il pezzo operistico “Last Days: Non voglio mai vedere il sole tramontare”, cantato in italiano per la colonna sonora del musical omonimo dedicato a Kurt Cobain, e consolidato con la doppia performance – dj set e live – del 2 e 3 novembre 2023 al C2C Festival di Torino, per suggellare l’exploit mondiale del suo anno d’oro. Perché quello che in fondo tutti avevano sempre immaginato, ovvero che Caroline Polachek avesse potenzialità da superstar del pop mondiale, si manifesta di colpo, tumultuosamente, con il suo secondo album a suo nome. Quello che segna uno spartiacque definitivo nella sua carriera, ma che al tempo stesso corona un percorso solo all’apparenza schizofrenico, in realtà consapevolmente coerente: “Con Ramona Lisa ho lavorato sulla parte più teatrale, sulle coreografie e sul set design, con CEP ho invece avuto occasione di indagare il minimalismo sonoro, mentre con i Chairlift l’universo più acustico – racconterà ancora Caroline a Rolling Stone - Tutte queste esperienze mi hanno fatto comprendere cosa mi interessa fare nella mia musica: creare una musica pop elettronica sognatrice interessata all’idea del bello”.

Caroline PolachekL’idea prende forma in Desire, I Want To Turn Into You (2023), esplosiva ricerca in dodici brani su desiderio ed evasione che segna la definitiva quadratura del cerchio per la compositrice art-pop newyorkese. Riuscire a conciliare le mire da popstar sofisticata con un passato da interprete barocca, le frequentazioni hyperpop e astrazioni pastorali da Arcadia contemporanea non era impresa semplice. È quindi a suo modo quasi un paradosso che tutte queste anime non soltanto non vengano attenuate, ma nel loro operare in aperta conflittualità finiscano con l'aver elaborato il progetto più compiuto dell'artista newyorkese. Esplosivo concept-album sul desiderio e la sua violenta capacità di evasione, Desire, I Want To Turn Into You è un disco dal baricentro in costante movimento, opera pop che onora la sua natura irregolare e vagabonda, inseguendo brano dopo brano la forza dell'istinto. Tra i mille modi di annullarsi dietro a un sogno, i miraggi qui presentati sono tra i più convincenti.
Con sguardo rapito, con la stessa brama immortalata sin dalla copertina, Polachek affronta il concept con le più disparate prospettive, focalizzandosi volta per volta su un aspetto determinante. Ne consegue una produzione immaginifica (gestita, salvo rare eccezioni, assieme al solo Danny L Harle), legata a scelte di arrangiamento che spesso sposano acustico ed elettronico con tutta la disinvoltura dei migliori interpreti folktronici.
Con un acuto che rompe qualsiasi indugio, "Welcome To My Island" alza il sipario sull'intera avventura, freestyle altezza Exposé/Miami Sound Machine che si inarca sui profondi saliscendi vocali della musicista, ripensandone le strutture sintetiche tra accorti contributi in fascia pc-music e curiosi inserti rap. Colta nella ferma volontà di cavalcare il desiderio, Polachek vuole tramutarsi in esso, evadere dalla corporeità e dal senso di necessità che questo necessariamente comporta. Lo è a tal punto che pure la consapevolezza di rimanere schiacciata, di risultare inadeguata a farne parte, non la frena dall'intento. In un omaggio ai Frou Frou e alla loro persistente influenza in materia di electropop e dintorni, "Pretty In Possible" ne delinea le eleganti strutture downtempo/indietroniche in un viaggio tra pad orchestrali e ripartenze bristoliane, appena venate di richiami electro.
L'influenza della creatura di Heap e Sigsworth non finisce qui: certo non fa capolino nei ben più sparsi fraseggi arty di "Bunny Is A Rider" (tutto un gorgogliare di bassi r&b e zompettanti strutture tropicali) o nel passo flamencato di "Sunset", uno dei più martellanti giri melodici dell’anno. Basta però procedere oltre, imbattersi nelle sottili strie garage di "I Believe", dedicata alla compianta SOPHIE, o precipitare nel gorgo simil-trance di "Fly To You" (dove si fa accompagnare dalle voci di Grimes e Dido, fin troppo dimesse nel complesso), così lucido ed etereo da apparire fatto di vetro, per riconoscere l'impronta di un duo che ha individuato un approccio sincretico alla materia pop.
Non che Polachek non ci metta del suo, d'altronde ha tutta la cognizione del caso per evitare banali didascalismi. Si prenda "Blood And Butter", la perfetta rappresentazione di un innamoramento senza riserve, electro notturna e selvatica, capace di stravolgersi in un secondo e intercettare un abbrivio di cornamusa tra la Kate Bush di "The Sensual World" e la Milla Jovovich di "The Divine Comedy". Che dire poi di una romanza sull'immortalità, ispirata al classico di Natalie Babbitt, capace di farsi confessione ambient-pop appena tirata a lucido da distorsioni elettroacustiche?
Elusiva eppure sempre presente, capace di farsi fumo e riacquisire di colpo la sua corporeità, Caroline Polachek è materia in perenne flusso, il tormento di una volontà che si tramuta in profonda inquietudine, in una mancanza mai pienamente soddisfatta. A chiusura di un disco finemente oliato, "Billions" riassume le varie facce del desiderio rifuggendo una facile chiarificazione, integrando piuttosto immagini a ruota libera con il sentimento di una vicinanza che si fa euforica, trepidante. Piena del mistero dell'incertezza, facendo bella mostra di un'estensione vocale che esplora anche i suoi lati più cupi, la canzone è la sintesi più compiuta di uno stile che sa incastrare le più disparate suggestioni (madrigale barocco, spoken word e coralità infantile, gli influssi new age della tabla e i bizzarri spunti glitch soprastanti) in un insieme mai lineare, eppure sempre appetitoso, capace di non saziare mai le aspettative.

Da Desire, I Want To Turn Into You vengono estratti ben sei singoli, cinque ad anticiparne l’uscita - "Bunny Is A Rider","Billions", "Sunset", "Welcome To My Island" – e uno successivamente alla sua pubblicazione, "Blood And Butter". Non paga, la sua autrice ne escogita un altro, fuori dalla tracklist, intitolato "Dang", che esce sulla sua etichetta Perpetual Notice. Prodotto dalla stessa Polachek insieme a Cecile Believe e a Danny L Harle, è un accattivante numero avant-pop, sofisticato e appiccicoso al tempo stesso. L'artista newyorkese lo presenterà sul palco del Late Show di Stephen Colbert, in una curiosa performance in cui indossa i panni di una professoressa davanti a un video in cui scorrono le diapositive. Le incursioni in tv diventano sempre più frequenti per Caroline, che viene ammessa anche nel salotto buono del Tonight Show di Jimmy Fallon, dove strega gli spettatori con una trascinante performance di "Welcome To My Island".



Desire, I Want To Turn Into You incasserà ampi consensi di pubblico e critica, entrando in classifica in diversi paesi (Belgio, Nuova Zelanda, Spagna, Svizzera, Regno Unito e Stati Uniti) e ottenendo una candidatura ai Grammy Award nella categoria Best Engineered Album, Non-Classical. Troverà posto in quasi tutte le classifiche dei migliori album dell’anno delle principali testate internazionali, consolidando la reputazione della sua autrice come una delle stelle più luminose del pop degli anni Venti: una popstar versatile, che gronda talento e personalità. Per di più con un approccio anticonformista, insieme arty e punk, particolarmente adatto ai tempi. Per Caroline Polachek la carriera sembra essere ricominciata a 38 anni. E il bello potrebbe essere appena iniziato. “Next is more è la mia filosofia”, del resto, dice lei. Con tanti saluti alla retromania.

Contributi di Alessandro Biancalana (Chairlift - "Does You Inspire You", "Something"), Marco Sgrignoli (Chairlift - "Something"), Cosimo Cirillo (Ramona Lisa - "Arcadia")

Caroline Polachek

Discografia

CHAIRLIFT

Does You Inspire You (Kanine, 2008)

7,5
Something (Kanine, 2012) 7

Moth (Columbia, 2016)

6,5

RAMONA LISA

Arcadia (Pannonica, 2014)

7

CEP

Drawing The Target Around The Arrow (self-released, 2017) 5,5

CAROLINE POLACHEK

Pang (Columbia, 2019)

7

Desire, I Want To Turn Into You (Perpetual Novice, 2023)
7,5
Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

Chairlift - Bruises
(videoclip da Does You Inspire You, 2008)

Chairlift - Amanaemonesia
(videoclip da Something, 2012)

Chairlift - Romeo
(videoclip da Moth, 2016)

Ramona Lisa - Arcadia
(videoclip, da Arcadia, 2014)

Caroline Polachek - Door
(videoclip, da Pang, 2019)

Caroline Polachek - Ocean Of Tears
(videoclip da Pang, 2019)

Caroline Polachek - So Hot You Hurt My Feelings
(videoclip da Pang, 2019)

 

Caroline Polachek - Bunny Is A Rider
(videoclip da Desire, I Want To Turn Into You, 2023)

 

Caroline Polachek - Billions
(videoclip da Desire, I Want To Turn Into You, 2023)

 

Caroline Polachek - Welcome To My Island
(videoclip da Desire, I Want To Turn Into You, 2023)

 

Caroline Polachek - Sunset
(videoclip da Desire, I Want To Turn Into You, 2023)

 

Dang
(singolo, live a The Late Night Show with Stephen Colbert, 2023)

 

Caroline Polachek - Full Performance (Live on KEXP)

Caroline Polachek: Tiny Desk Concert

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