Le vie del successo sono infinite, ma nel mondo del pop possono essere anche particolarmente tortuose. Ne sa qualcosa Caroline Elizabeth Polachek, cantautrice newyorkese classe 1985. Niente lasciava presagire l’esplosione di stardom che l’ha travolta nella scorsa annata 2023. Non certo l’onorata militanza indie alla testa dei Chairlift, né i camuffamenti più o meno improbabili sotto i moniker di Ramona Lisa e CEP, e nemmeno il pur brillante debutto nei panni di se stessa (Pang, 2019). C’è voluto il famigerato sophomore - parola(ccia) mutuata dal gergo scolastico anglosassone per indicare il secondo album di un musicista - nella fattispecie, il torrenziale Desire, I Want To Turn Into You (2023), che in realtà condensa tutto ciò che Caroline è stata - e non è stata - nella sua quasi ventennale carriera, ma che a molti è parso come un esordio. Perché frantumando vigorosamente l’ormai esiguo diaframma che separa indie e mainstream, miss Polachek ha confuso un po’ tutti, inclusi quanti, memori della sua matrice underground, sono rimasti spiazzati nel vederla troneggiare a mo’ di novella popstar sulle copertine patinate dei magazine mondiali. Fatto sta che in poche altre occasioni si ricorda un’esplosione a scoppio ritardato così fragorosa. La mente corre addirittura al magico 1983 di Cyndi Lauper, allora trentenne, reduce da una faticosa gavetta tra cover band e gruppi rock. Ma Caroline Polachek di anni ne ha 38. E tutto lascia immaginare che sia solo all’inizio di una (nuova) carriera che – a differenza di quella della ragazza che voleva solo divertirsi – potrebbe persino proseguire in ascesa. Il tempo saprà rispondere, ma nel frattempo non può non lasciare sbalorditi la disinvoltura con cui l’ex-frontgirl dei Chairlift calca importanti palcoscenici live e anche televisivi (ad esempio, il Tonight Show di Jimmy Fallon), mettendo in mostra una presenza scenica, una maestria tecnica e una gamma vocale impareggiabili.
Ma riavvolgiamo il nastro e ripartiamo dall’inizio della storia: 20 giugno 1985.
Ind(i)ependence days
Caroline Elizabeth nasce a New York, da James Montel Polachek, analista di mercato e musicista di formazione classica, e Elizabeth Allan. A solo un anno, però, si trasferisce con la famiglia a Tokyo, in Giappone, dove resterà fino all’età di 6 anni. Un’esperienza che in qualche modo ne segnerà anche la carriera artistica: racconterà infatti di come il primo contatto con le canzoni tradizionali giapponesi e i temi degli anime avesse avuto un'influenza importante sulla sua educazione musicale. Successivamente si stabilisce a Greenwich, nel Connecticut, dove inizia a cantare nel coro della terza elementare. Coltiva la sua passione musicale anche a casa, dove suona una tastiera Yamaha donatale dal padre, secondo i maligni, per impedirle di fare troppi danni al pianoforte. In quel periodo, che culminerà in negativo con il divorzio dei genitori nel 1994, Caroline si descrive come "una ragazzina molto iperattiva" al punto che madre e padre, separati nelle rispettive case, tenteranno di calmarla facendole ascoltare i dischi di Enya (!).
Da adolescente, inizia a viaggiare per gli States a caccia di musica, frequentando in particolare New York dove assiste a concerti dei generi più vari: emo, post-hardcore, punk e jazz. Si narra che una volta Mike Patton dei Faith No More l’accompagnò personalmente a uno show alla Knitting Factory quando la sua carta d'identità (falsa) era stata rifiutata. Nel frattempo, Caroline suona in un paio di gruppi al liceo e all'università. È il preludio alla nascita della sua prima vera esperienza musicale.
Assieme all’amico Aaron Pfenning, nel 2005 Caroline Polachek forma i Chairlift, formazione synth-pop di stanza a Boulder, in Colorado. Dopo un paio d’anni di gavetta, la band si trasferisce a Brooklyn, dove ingaggia un terzo membro, il multistrumentista Patrick Wimberly.
L’album d’esordio dei Chairlift, Does You Inspire You (2008), esce per una misconosciuta etichetta indie (Kanine Records) ed è una intelligente rivisitazione di un wave-pop screziato da intrusioni elettroniche all’insegna di una colorata originalità. Un disco scorrevole, composto con acume e controllo dei mezzi. L’intreccio delle due voci maschili e femminili (Pfenning e Polachek), oltre a un uso spiccato di elettronica e chitarra effettata, sono elementi ulteriori che arricchiscono undici tracce mai uguali a sé stesse. La continua varietà umorale delle canzoni proietta l’ascoltatore in una giostra forsennata, incapace di sostare anche solo per un attimo.
Spirali di pop al vetriolo trasudano tensione e fascino (l’incipit pulsante, quasi funk, di “Garbage”, la tormentata “Earwig Town”), fragili litanie recitate con flemma donano ai minuti un tocco etnico (“Planet Health”, che pare venir fuori da “Gentlemen Take Polaroids” dei Japan; l’ambient-pop vibrante di “Somewhere Around Here”). La grazia di gemme pop immacolate raggiunge vette di pura eccellenza (la sorprendente bellezza di “Bruises”, i saliscendi irresistibili di “Make Your Mind Up”), e nei frangenti in cui l’uso dell’elettronica diventa portante, la tenuta della struttura è invidiabile (Soft Cell ansiolitici in “Evident Utensil”, i gorghi sintetici di “Territory”).
Giocata la carta della ballata scheletrica con voce riverberata (“Don’t Give A Damn”), con la coda finale composta da uno strumentale poggiato su un ectoplasma di tromba (“Chameloen Closet”), giunge il commiato perfetto. “Ceiling Wax” si ricongiunge con tradizioni ormai perdute, collegando idealmente l’afflato sottomesso delle recitazioni di Hope Sandoval con le tentazioni degli Antenne.
I Chairlift, insomma, mettono sul piatto un misto succulento: coraggio, ispirazione, sfrontatezza e talento. Il risultato che ne scaturisce è una pietanza dai sapori variegati, a suo modo golosa e seducente, la cui mutevole attrattiva richiamerà avventori fra i più disparati. La hit “Bruises” sarà anche scelta come colonna sonora di uno spot della Apple.
Ma il talento di Caroline Polachek manifesta subito la necessità di esprimersi anche in altre forme. Così nel 2008 l’artista newyorkese fonda il coro Girl Crisis con dodici altre interpreti femminili, incluse Au Revoir Simone e Class Actress. Il gruppo arrangerà e inciderà due cover all'anno dal 2008 al 2013, incluse canzoni di Black Sabbath, Nirvana, Leonard Cohen, The Bangles e Ace of Base.
Nel 2010, invece, Polachek si unisce a Jorge Elbrecht dei Violens per incidere una “sgin” (anagramma di sing) di “Never Let You Go” di Justin Bieber, ovvero – secondo la spiegazione della stessa cantautrice – “una canzone originale composta per accompagnare le immagini mute di una hit scelta a caso, nella fattispecie il videoclip di Bieber scovato su YouTube”. Nello stesso anno collabora ancora con i Violens per il duetto di "Violent Sensation Descends (French Duet Version)", mentre nel 2011 girerà il videoclip di un altro brano del gruppo, "It Couldn't Be Perceived", e nel 2013 sarà ancora al fianco di Elbrecht nell’Ep “Gloss Coma 001”.
Retromaniaci a modo loro
Nel frattempo i Chairlift si trovano a fare i conti con l’abbandono da parte di Pfenning, che lascia la compagnia nel 2010. Rimasti un duo, Polachek e Wimberly decidono di andare avanti, realizzando il sequel dell’esordio, intitolato Something (2012). Mentre, col revival nineties alle porte, sbilencaggini post-punk e giri di basso alla Joy Division cominciano a odorare un po' di stantio, e la no-wave newyorkese non appare più il non plus ultra dell’hype indie; proprio ora che tutti sembrano pronti a imbracciare chitarre grunge e tastieroni eurodance, i Chairlift bussano alla porta con un cestone di Lp di Kate Bush, Eurythmics, Talk Talk, Tears For Fears, Naked Eyes: è il synth-pop più arty e solare, insomma, a fornire l'ispirazione a questi importunatori del naturale ciclo ventennale della retromania. Quel pugno di artisti di metà anni Ottanta che aveva visto nel campionatore Fairlight lo strumento di redenzione da darkumi e sgangheratezze, l'occasione per riconciliare la propria generazione col sound sgargiante e raffinato dell'era sunshine-pop.
Newyorkesi come altri "ripescatori" dello stesso tipo di caleidoscopica vitalità (Vampire Weekend, MGMT), i Chairlift avevano messo a nudo, con la tenera bellezza di Does You Inspire You, un approccio scanzonato ma non solare, una composizione brillante ma non straripante. Le canzoni di Something, invece, nonostante la fantasia rimanga intatta, esplodono prorompenti, si ergono a perfette pop-song dal ritornello killer, sanno ammaliare in maniera diretta.
Oltre all'enorme talento melodico e di varietà sonora - si alternano magistralmente toni differenti e registri strumentali opposti - la voce candida di Caroline Polachek si staglia finalmente come fonte assoluta del magnetismo dei brani. Versatile e intimamente folk, passa dall'usignolo (l'estatica "Turning") alla femme fatale (la malia irresistibile delle varie "Take It Out On Me", "Ghost Tonight" e "I Belong In Your Arms"), dai gorgheggi ai sussurri nell'arco di un solo brano.
Ma il vero punto di forza pare essere un altro: una timidezza mai del tutto nascosta, un velo di imbarazzo o immaturità che mette in mostra - in perfetta sintonia con lo spirito indie - una creatura fragile e incerta. Una fata esile e luminosa, che pare quasi chiedere protezione.
I cali di tensione in qualche circostanza smorzano il tono passionale dell'album (la melensa "Cool As Fire", il folk-pop incerto e fuori contesto di "Frigid Spring"), senza tuttavia inficiare la qualità complessiva che rimane alta e vibrante. Fin dall'essenzialità delle ultime note di "Guilty As Chargee" - tripudio tambureggiante di finissimo pregio - si scorge l'immenso, sregolato e palpitante potenziale del duo, che pare ormai possedere tutte le carte per produrre il disco dell'esplosione a livello di critica e pubblico.
Intanto Caroline Polachek partecipa al brano "Everything Is Spoilt By Use" degli Ice Choir (progetto solista di Kurt Feldman dei Pains of Being Pure at Heart) del quale dirige anche il videoclip, e alla traccia "Chamakay" dei Blood Orange (con i quali si ripeterà 5 anni dopo per "Holy Will"). E si concede il lusso di diventare anche autrice e produttrice per nientedimeno che Beyoncé, con il brano “No Angel” (contenuto nell’omonimo “Beyoncé” del 2013), che sarà anche candidato ai Grammy Award. Quindi, nel 2013, presta i suoi vocals a "Unhold" firmata Delorean, progetto alternative dance spagnolo.
Ancor più spiazzante la sua incursione solitaria dietro il misterioso pseudonimo Ramona Lisa. “Ramona è un personaggio che scaturisce dalle mie canzoni. Appartiene a un altro mondo”, spiegherà Polachek. E questo concetto di piacevole alienazione sarà il leit-motiv di tutto l’album Arcadia (2014), nuova tappa del suo irrequieto percorso di sperimentazione. “A document of being alone”, secondo le sue stesse parole. L’artista newyorkese avverte il bisogno di lavorare in parallelo a qualcosa di proprio, di intimo. E così, nei ritagli di tempo tra una tappa e l’altra del tour dei Chairlift, inizia a scrivere e registrare sola con il suo computer nei luoghi più disparati: aeroporti, armadi di hotel, camerini, ma soprattutto nelle camere della Villa Medici a Roma, dove si trasferisce per un periodo. Non usa alcuno strumento hardware, nessun microfono, solo il suo laptop.
Pubblicato negli Stati Uniti dalla Terrible Records di Chris Taylor, bassista dei Grizzly Bear, e in Europa dalla Pannonica, Arcadia è un compendio di quella che lei stessa ha definito “pastoral electronic music”, ovvero musica elettronica bucolica. Ma alla formula si potrebbe tranquillamente aggiungere anche “lo-fi”: l’approccio alla registrazione di cui si parlava sopra ha infatti enormemente influito sui suoni del disco, che sono sempre distanti e filtrati, anche finti.
Le canzoni dell’album di Ramona Lisa possono essere suddivise in due categorie: alcune sono di matrice più ambient, usate anche come interludi e ricche di suoni e rumori; in altre invece si fa sentire maggiormente il background synth-pop della Polacheck. Alla prima categoria appartiene, ad esempio, il brano di apertura “Arcadia”, perfetta title track che riassume al meglio lo spirito dell’album e ci introduce nel mondo creato dalla Polacheck, a partire dal suo testo. Il passaggio “Here I ran from the west/ unto ruins where the sun dances with death” sembra riferirsi proprio al suo temporaneo soggiorno romano.
Il brano più facile è di certo “Backwards And Upwards”, che strizza invece l’occhio alle melodie e ai suoni più tipicamente à-la Chairlift. Appartengono alla seconda categoria anche le esotiche “Lady’s Got Gills” e “Izzit True What They Tell Me”, tra le canzoni più belle dell’album, o la dolce ballata “Dominic”.
A chiudere la raccolta, provvede l’ambientale “I Love Our World”, in cui synth, organi e campane si intrecciano con rumori e suoni ripresi dalla Polacheck su un tetto durante una giornata di sole. “Si tratta semplicemente di provare a registrare come mi sentissi in quel momento”, ha spiegato a riguardo.
In conclusione, Arcadia è un album che può catturare e affascinare, ma lascia anche trapelare l’impressione che si tratti di una prova, di un gioco, che la Polacheck non abbia fatto sul serio. Si conferma tuttavia lampante il talento di un’artista che, da sola o con la sua band, dimostra di possedere tutti i mezzi per essere una delle migliori interpreti del suo genere.
Chiusa la parentesi Ramona Lisa, Polachek torna nei Chairlift per il terzo (e ultimo) album della band newyorkese, di nome Moth (2016), che – a dimostrazione del crescente interesse nei loro confronti – esce su etichetta Columbia.
Se il precedente Something aveva segnato una cesura netta, sotto il profilo sonoro, rispetto all'esordio Does You Inspire You, a favore di una più decisa svolta synth-pop, allo stesso modo Moth mette totalmente in discussione i connotati stilistici ed espressivi del suo immediato predecessore, parlando in un linguaggio ben più contemporaneo, che ricorre, quando necessario, a r&b e funk in dosi massicce. Se quindi si tratta di stravolgimenti significativi, questi finiscono però per rifarsi ciecamente a un'impostazione creativa unitaria, coerente con se stessa, nonostante i mutamenti messi in campo: polimorfismo, per l'appunto, di cui Caroline Polachek e Patrick Wimberly diventano i portabandiera. Nonostante i cambi d'abito e di scenario, l'attitudine all'arrangiamento cangiante, il gusto per una scrittura colta e accessibile, nonché per pattern ritmici intricati e multiformi, rendono ogni tassello del puzzle Chairlift perfettamente incasellabile e riconducibile alla firma dei propri titolari, che dal canto loro possono vantare una personalità nell'approccio da veri fuoriclasse.
R&b e funk, si diceva, e per giunta in grande quantità: è evidente il tentativo da parte del duo di voler ampliare la propria tavolozza ricorrendo a un frasario sonoro più contemporaneo, di giocarci in una maniera analoga a quella dei Bilderbuch o di LA Priest. Laddove nei primi era il pop-rock a essere sottoposto con pieno successo al trattamento “black”, e nel secondo la sua peculiare lettura dell'electro-pop, in Moth l'attenzione si incentra su un pop arty e sofisticato, a tratti ancora memore delle precedenti esperienze sintetiche, eppure già da solo notevolmente proiettato in avanti, a distanza di sicurezza da ogni possibile confronto nostalgico. D'altronde, la premura di rendere evidente il divario c'è stata da subito, attraverso quattro singoli che in un certo senso hanno composto il quadrilatero entro cui circoscrivere la ricercata alchimia del lavoro.
Laddove quindi “Crying In Public” diventa l'occasione per espandere il nu-sophisti-pop di Rhye e Jessie Ware indirizzandolo verso una forma di malinconica lounge-music dal retrogusto jazzy (nella quale lasciare la Polachek esprimersi al meglio delle proprie potenzialità timbriche), “Ch-Ching” è la potenziale indie-hit da riascolto compulsivo, frullato misto di cui è impossibile risalire agli ingredienti di partenza, condito da un ritornello killer e da uno studio compositivo di tutto rispetto, che esalta il segmentatissimo modulo ritmico e l'utilizzo inventivo degli ottoni, finalmente smarcati da facili riferimenti vintage. E se non sempre la scrittura mostra il reale potenziale del duo (“Romeo”, per esempio, pare più un collage malriuscito di tre canzoni messe insieme), dal punto di vista del sound c'è talmente tanta (buona) carne al fuoco che viene spontaneo perdere di vista quest'aspetto, e premiare piuttosto l'enorme sforzo speso nell'articolazione della proposta sonora.
Si fa presto quindi, a rendersi conto di come i due passino in un batter d'occhio da un intelligente tentativo di sondare terreni mainstream, riadattati naturalmente alla loro visione delle cose (il massiccio r&b di “Show U Off”, infiocchettato da interessanti echi dance e un'interpretazione però fin troppo enfatica a momenti), alla suadente funky-disco di “Moth To The Flame”, brillante aggiornamento dei tratti del genere alla luce della house-music anni 00 e di una spigliata allure sintetica. Per non parlare di come la genialità di un Green Gartside potrebbe, con le dovute differenze, rivivere prossimamente nell'esperienza dei Chairlift: la menzionata “Polymorphing”, nel suo incastrare cadenze dub, sinuosità sophisti-pop e venature dal retrogusto dreamy, non avrebbe grosse difficoltà a essere il trampolino di lancio per far rivivere in maniera più estesa la complessità di un sound che in “Songs To Remember” trovò uno snodo centrale.
Ma proprio quando la strada per il possibile capolavoro è stata pienamente imboccata, Caroline Polachek e Patrick Wembley decidono di separare le loro strade, dopo un'ultima tournée tenuta nella primavera del 2017, incentrandosi d'ora in avanti ciascuno sui propri progetti personali, la prima da solista, il secondo come produttore per altri artisti. I Chairlift resteranno sempre un indefinibile via di mezzo tra un gruppo di culto indie e una promessa mancata. Ma saranno soprattutto la solida piattaforma dalla quale Caroline Polachek spiccherà il volo per tramutarsi da timida fata indie a sapiente popstar.
CHAIRLIFT | ||
Does You Inspire You (Kanine, 2008) | 7,5 | |
Something (Kanine, 2012) | 7 | |
Moth (Columbia, 2016) | 6,5 | |
RAMONA LISA | ||
Arcadia (Pannonica, 2014) | 7 | |
CEP | ||
Drawing The Target Around The Arrow (self-released, 2017) | 5,5 | |
CAROLINE POLACHEK | ||
Pang (Columbia, 2019) | 7 | |
Desire, I Want To Turn Into You (Perpetual Novice, 2023) | 7,5 |
Chairlift - Bruises | |
Chairlift - Amanaemonesia | |
Chairlift - Romeo | |
Ramona Lisa - Arcadia | |
Caroline Polachek - Door | |
Caroline Polachek - Ocean Of Tears | |
Caroline Polachek - So Hot You Hurt My Feelings | |
Caroline Polachek - Bunny Is A Rider | |
Caroline Polachek - Billions | |
Caroline Polachek - Welcome To My Island | |
Caroline Polachek - Sunset | |
Dang | |
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