If you think that it's pretentious, you've been taken for a ride
Look across the mirror, sonny, before you choose, decide
It is here, it is now
L'anniversario
Sono passati cinquant’anni, e “The Lamb Lies Down On Broadway” è ancora il groviglio scintillante che era al momento della sua uscita. Il disco più ambizioso mai realizzato dai Genesis, e al tempo stesso anche quello con i pezzi più lineari incisi dal quintetto Banks-Collins-Gabriel-Hackett-Rutherford, che si era costruito un seguito proprio grazie alla maestria con le composizioni arzigogolate. Una delle opere dal respiro più narrativo della stagione più in vista del progressive rock, sorretta tuttavia da una storia ben criptica e scalcagnata (qualcuno ha forse mai sciolto l’enigma del soggetto di “It”, l’indovinello formato canzone che chiude la tracklist?).
Il sommo apice del rock sinfonico – sarà pronto a garantire qualcuno; una palese anticipazione del punk – giureranno altri. Solenne e farsesco, fiabesco e suburbano (nel senso più letterale del termine, visto che buona parte delle vicende si svolge in un immaginario mondo sotterraneo, nelle profondità di New York), il concept-album si districa su quattro facciate in cui i tratti distintivi dello stile Genesis sono elevati al massimo grado e condotti oltre a sé stessi. Tanto nei testi quanto nel suono e nell’articolazione dei brani il gruppo ha spinto le proprie qualità a un livello nuovo di padronanza e diversità, conducendo a un capolavoro ma anche un punto di non ritorno che – con l’addio del frontman Peter Gabriel, annunciato durante il tour del disco – avrebbe creato nei quattro componenti notevoli dubbi riguardo al proprio successivo assetto musicale.
Se oggi i dilemmi sul futuro della band possono senz’altro dirsi sciolti (il batterista Phil Collins avrebbe assunto anche il ruolo di cantante, e il rafforzamento della componente pop senza mai perdere davvero l’elemento prog avrebbe reso i Genesis una delle formazioni di maggior successo degli anni Ottanta), restano invece aperti gli interrogativi sulla data di pubblicazione del doppio album. Secondo una tesi, avallata anche da alcune ristampe, l’uscita sarebbe avvenuta il 18 novembre 1974; già all’epoca, però, gran parte delle etichette pubblicava al venerdì. Secondo questa lettura, sostenuta da buona parte degli archivi online, il giorno più plausibile sarebbe il 22 novembre. Nelle comunicazioni per il cinquantenario, gli account ufficiali della band ammettono che l’unica sicurezza riguarda la settimana (questa).
La ricorrenza è anche stata l’occasione per rivelare l’imminente uscita di una “versione espansa” dell’album, prevista per marzo 2025. Oltre a remaster, blu-ray, potenziamenti dolby surround e libri-interviste ormai consueti per le opulente super-mega deluxe edition per fan dotati di portafogli altrettanto super-mega deluxe, il box set includerà anche la registrazione completa di uno degli spettacoli del tour ‘74/’75, tenutosi allo Shrine Auditorium di Los Angeles il 24 gennaio 1975. Un’incisione di questa performance era già stata edita nel 1998 all’interno di “Archive 1967-75”, ma per la prima volta includerà anche i due bis eseguiti sul palco, “Watcher Of The Skies” e “The Musical Box” (nessuna informazione, invece, sulla presenza eventuale della versione live di “It”, assente in “Archive 1967-75” perché la registrazione multitraccia del concerto si era interrotta prima del gran finale).
Continuano e presumibilmente continueranno a mancare, invece, video di qualità che testimonino in modo esteso l’unicità di quel tour: eccezion fatta per pochi frammenti amatoriali, la rievocazione delle interazioni fra musicisti e dei costumi di Peter Gabriel (i più eccentrici e curati della sua carriera, si dice) è affidata solo alla memoria diretta e alle ricostruzioni da parte di tribute band dall’approccio più o meno filologico.
Una certa parte di quella stessa immaginifica ruvidezza, tuttavia, è arrivata al pubblico fin dall’istante in cui ha potuto avere in mano – o vedere esposto – l’ormai leggendario doppio Lp. Dopo tre album caratterizzati dallo stile grafico di Paul Whitehead, in bilico fra surrealismo e richiami vittoriani, e uno con la copertina affidata a un dipinto di Betty Swarwick, similmente sognante e colorato, “The Lamb Lies Down On Broadway” si presenta in modo decisamente più crudo e tagliente. La veste elaborata per il progetto dallo studio Hipgnosis (allora più che mai sulla cresta dell’onda grazie ai lavori per Pink Floyd e Led Zeppelin) punta tutto sul bianco nero e la resa fotografica a contrasto elevato. Preservando il tema onirico che da sempre ha caratterizzato la band e i suoi dischi, il design gioca su toni cupi, richiami psicanalitici, accostamenti inquietanti.
Un’estetica quasi proto-goth, insomma: certamente non l’unico caso in campo prog, ma uno fra i più suggestivi. Ma in fatto di prefigurazioni ed esplorazioni stilistiche, l’album abbonda di altri esempi, più o meno vistosi: ci sono la ambient music di “Silent Sorrow In Empty Boats” e i rumorismi quasi industrial di “The Waiting Room”, entrambi episodi strumentali concepiti per dare il tempo a Peter Gabriel di cambiare costume fra due brani principali, c’è la robustezza zeppeliniana della batteria di “Fly On A Windshield”, realisticamente parte dello stesso dialogo creativo che avrebbe portato la band a ispirarsi a “Kashmir” in “Squonk” sul successivo “A Trick Of The Tail”. Il contributo di Brian Eno, consistente in alterazioni sintetiche alla voce di “The Grand Parade Of Lifeless Packaging” e “In The Cage”, sarebbe stato ripagato da Phil Collins suonando la batteria in “Mothe Whale Eyeless” su “Taking Tiger Mountain (By Strategy)”, in lavorazione nello stesso studio negli stessi giorni.
Meno celebrate, eppure col senno di poi evidenti, sono le stravaganze nei timbri scelti da Tony Banks per i suoi passaggi tastieristici, specialmente quelli nei brani dal piglio più squinternato. Appassionatosi già con “Selling England By The Pound” alla maneggevolezza del preset synth monofonico Arp Pro Soloist, in pezzi come “The Colony Of Slippermen” e “Riding The Scree” ne cavalca il lato più balengo e giocattoloso, ricercando scientemente suoni goffi e appariscenti, e affiancandogli alla bisogna anche i timbri affilati e artificiosi dello pseudo-piano RMI Electra, anch’esso in sua dotazione dal precedente album. Individuare una diretta corrispondenza con lo stile dei Devo è forse una forzatura (ma di connessioni fra la band statunitense col progressive rock ce ne sono, ben documentate da Simon Reynolds in “Post-punk”); è innegabile però che vi siano dei parallelismi tra gli episodi più deliberatamente strampalati qui in “The Lamb Lies Down On Broadway” e la corrente sommersa di prog/wave sbilenca che raccoglie artisti come Oingo Boingo, Cardiacs, Bill Nelson, Xtc, vede in Gentle Giant, Todd Rundgren e Sparks i propri numi tutelari nei primi anni Settanta, e risponde oggi al nome (retroattivo) di Zolo.
A mezzo secolo dal giorno in cui l’ermetico trittico black&white della sua copertina ha iniziato a stuzzicare la curiosità dei fan, “The Lamb Lies Down On Broadway” è un riferimento imprescindibile per ogni amante del progressive rock, ma anche una delle (troppo poche) opere del filone a godere di un rispetto decisamente più ampio. Vuoi per l’intensità dei suoi passaggi più abrasivi, vuoi per la teatralità visionaria che lo percorre dall’inizio alla fine, o per uno qualsiasi dei suoi molti aspetti antitetici, “The Lamb Lies Down On Broadway” continua a esercitare un fascino magnetico su ascoltatori dalle preferenze più svariate. Un monumento sonoro che sfida il tempo e che – in un’epoca in cui il successo dei classici sembra crescere anziché accennare a tramontare – pare destinato a risuonare ancora a lungo attraverso le generazioni, accompagnando nuove scoperte e riletture per molti anni a venire. (Marco Sgrignoli)
La recensione
1 - Introduzione: from Genesis to The Lamb
“The Lamb Lies Down On Broadway” (1974) è il secondo concept-album dei Genesis e il loro primo doppio. E’ il lavoro di un gruppo ormai da tempo completamente maturo che con esso pose una tappa fondamentale in quel particolare genere trasversale che è l’opera rock, una pietra miliare soprattutto per quanto riguarda le rappresentazioni live di questo tipo da parte di quella che probabilmente era l’unica band che all’epoca poteva permetterselo, grazie al particolare modo di proporsi in scena.
I Genesis venivano da una serie di lavori che avevano visto una loro crescita esponenziale sia nella capacità compositiva sia nella tecnica individuale. Non è qui inutile ricordare rapidamente le tappe di questo percorso. “From Genesis To Revelation” (1969) fu l’ingenuo e pretenzioso disco d’esordio, un concept basato sulla Genesi e il Vecchio Testamento.
“Trespass” (1970), il loro secondo album fu definito dagli stessi Genesis “il passo più importante della nostra carriera” e contiene già pezzi storici come la violenta “The Knife”, rimasta cavallo di battaglia delle esibizioni live fino alla dipartita di Peter Gabriel.
Subito dopo “Trespass”, il primo chitarrista Anthony Phillips e il batterista John Mayhew lasciano il gruppo ed esso trova quello che per molto tempo sarà il suo assetto definitivo con l’ingresso di Steve Hackett (chitarra) e Phil Collins (batteria). Con questa formazione i Genesis incidono “Nursery Cryme” (1971), dove la loro musica si definisce meglio, con composizioni che diventano più complesse, articolandosi in vari momenti di tono diverso che si alternano in uno stesso pezzo e testi che, grazie alla forza interpretativa di Gabriel, proiettano in un mondo di favola pieno di metafore e simbolismi. Arriverà presto n. 4 in Italia sollevando il gruppo da una pericolosa depressione.
Segue il capolavoro del gruppo “Foxtrot” (1972), dove tutte le tessere vanno finalmente al loro posto e i cinque sono definitivamente proiettati, dopo anni di difficoltà anche economiche, tra le principali formazioni progressive-rock. “Supper’s ready”, la lunghissima suite che occupa quasi tutta la seconda facciata, rappresenta per idee, complessità e freschezza uno dei migliori esempi del genere e uno dei più alti momenti di tutti gli anni 70.
A questo punto le rappresentazioni on stage subiscono una trasformazione fondamentale quando Peter Gabriel inizia a utilizzare tutta una serie di costumi e maschere, talvolta legate ai testi o allo spirito delle canzoni, talvolta, bisogna ammetterlo, un po’ fini a se stesse e dettate più che altro da un intenti spettacolari (per esempio il travestimento da volpe), ma sempre estremamente affascinanti per il pubblico. Anche le scenografie e i light show diventano più complessi, e la fama del gruppo comincia così a crescere anche in patria, dopo i primi successi in Italia e Belgio.
I Genesis, anche su pressione della casa discografica, per consolidare la loro fama di gruppo che dal vivo dà il meglio di sé, rilasciano il loro primo live intitolato semplicemente “Genesis Live” (1973), che in effetti risulta un disco brillante e non “falso” come molti prodotti del genere. Probabilmente uno dei migliori live mai pubblicati.
Il gruppo, ormai entrato in un momento di grazia, senza pause significative torna in studio per “Selling England By The Pound” (1973), che se segna un passo indietro dal lato della produzione, è indubbiamente un ulteriore passo avanti quanto a complessità delle composizioni e tentativo di trovare nuove soluzioni in termini di suoni, strutture e rapporto tra gli strumenti. I pezzi “storici” o anche solo significativi ormai si sprecano e anche dal punto di vista delle performance dal vivo il gruppo è probabilmente ai suoi massimi livelli. Ciò non impedisce che affiorino i primi contrasti tra cantante e gruppo, il che ha una certa influenza anche su alcune composizioni che avrebbero potuto essere sviluppate meglio. E’ a questo punto che Peter Gabriel comincia a concepire il progetto ambizioso di un concept album basato su un racconto e tra le varie proposte presentate viene scelta la sua: “The Lamb Lies Down On Broadway”.
2 - La trama
Rael è un teppista dei bassifondi di New York che una mattina, di ritorno da una delle sue scorribande notturne, viene colpito dalla visione di un agnello, un semplice ma incongruente agnello, sdraiato quasi a sbarrargli il cammino sul marciapiede di Broadway, tra i vapori che escono dalle grate degli impianti di riscaldamento. Mentre Rael fissa questo animale, una sorta di schermo solido su cui si proiettano immagini della vita di New York scende dal cielo e avanza verso di lui. Paralizzato dal terrore, egli non può fuggire finché lo schermo lo colpisce e al momento dell’urto egli sviene. Si riprende in uno strano mondo sotterraneo dove vivrà una fitta serie di avventure tra il mistico e il simbolico, imparando così a conoscere se stesso.
Dapprima è in un comodo bozzolo che lo fa sentire calmo e felice, tanto che si addormenta tranquillamente. Si sveglia sofferente in una vasta caverna dove deve combattere contro una gabbia di roccia che muovendosi rapidamente lo stringe fin quasi a soffocarlo. Egli scorge fuori dalla prigione suo fratello John che però, nonostante le sue invocazioni di aiuto, lo abbandona, e quando ormai è convinto di morire la gabbia sparisce e Rael è libero.
Giunge vagando a una strana fabbrica dove vengono assemblati esseri umani, ognuno con il suo bel futuro stampigliato come un marchio e tra i “prodotti finiti” pronti per la spedizione, insieme ad altri personaggi che hanno avuto un ruolo nella sua vita, egli può di nuovo scorgere il fratello. Questa visione di volti conosciuti fa riflettere Rael sul suo passato e sulle sue vicende di tutti i giorni.
Avanzando in una direzione apparentemente obbligata, il ragazzo giunge a un lungo corridoio dove molte persone si muovono lentamente carponi in direzione di una grossa e pesante porta di legno posta all’estremità opposta a quella da cui è entrato. Egli è l’unico che può muoversi liberamente e porre domande a quegli strani esseri condannati a strisciare. Giunto alla porta la apre e dietro trova una tavola imbandita con ogni ben di Dio, ma soprattutto, ben più importante per lui, una scala a chiocciola che sparisce in alto e che egli comincia subito a salire.
In cima alla scala si trova un’enorme caverna circolare dove una folla variegata discute animatamente su quale delle 32 porte che si trovano tutt’intorno alle pareti conduca alla libertà, dato che solo una conduce fuori mentre le altre riportano inesorabilmente indietro. Nella folla Rael incontra Lilith, una vecchia cieca che promette di portarlo in salvo grazie alla lieve brezza che soffia dalla porta giusta e che lei è in grado di cogliere grazie ai suoi sensi affinati da una vita vissuta al buio. Rael decide di fidarsi e si fa condurre in una stanza dove Lilith lo abbandona promettendogli che qualcuno verrà a prenderlo, però teme di essere caduto in trappola quando due globi luminosi entrano fluttuando a mezz’aria e sembrano volerlo aggredire. Terrorizzato, egli raccoglie delle pietre e manda i globi in frantumi, ma non appena questi si spezzano la volta crolla e per il protagonista sembra la fine. Trova però un passaggio tra le rocce e si salva ancora una volta.
Giunge così in una meravigliosa sala con un’ampia piscina di acqua calda e pensa di aver trovato un po’ di riposo, vede invece tre incredibili figure avanzare nuotando. Sono le meravigliose Lamia, esseri metà serpente e metà splendida donna, con le quali ha un’estatica esperienza sessuale. Non appena mordono la sua carne però, le Lamia muoiono e Rael, sconvolto per la perdita, si nutre dei loro corpi.
Lasciando la tragedia dietro di sé, il protagonista giunge a una strana colonia di grotteschi esseri deformi, gli Slippermen, che lo accolgono come uno di loro. Gli raccontano di essere tutti passati attraverso la stessa esperienza con le stesse Lamia, che si rigenerano ogni volta, e sono condannati per questo a passare la vita in una sfrenata e continua attività sessuale. Gli viene così svelata la tragica verità: anche lui è esattamente uguale agli altri e schiavo della stessa condanna, può però finalmente riunirsi al fratello, ridotto anch’egli a un informe ammasso di carne. Rael è sconfortato, ma dopo qualche tempo uno Slipperman gli rivela che se si ha il coraggio esiste una soluzione: si chiama castrazione. A praticarla è un medico pazzo che i fratelli dopo essersi consultati decidono di affrontare.
Il dottor Dyper, dopo averli operati consegna loro un ciondolo contenente il “frutto del peccato” da usare in caso di necessità e grazie al suo intervento, avvertendolo però con un certo anticipo. Mentre i due discutono della nuova situazione, un enorme corvo scende dall’alto e ruba i prezioso contenitore dalle mani di Rael.
Rael chiede aiuto a John, ma quest’ultimo non volendo rischiare il proprio carico, lo abbandona nuovamente al suo destino. Rael si lancia all’inseguimento del corvo in volo, solo per vederlo lasciar cadere il suo tesoro nelle tumultuose acque di un fiume sotterraneo. Mentre Rael scende una ripida parete per arrivare al fiume, ben deciso a riappropriarsi di ciò che è suo, sente delle grida di aiuto e vede il fratello dibattersi tra i flutti del fiume. Contemporaneamente scorge nella parete di roccia un’apertura che porta all’esterno, alla sua vecchia vita, che però si sta rapidamente chiudendo. Deve dunque decidere se fuggire salvando se stesso o salvare John e, pur disperato, volta le spalle alla finestra e si tuffa per salvare il fratello.
La lotta con la corrente è estenuante, ma quando finalmente i due raggiungono la riva Rael si accorge di qualcosa di incredibile: John ha il suo stesso volto! E mentre lo fissa stupito, come guardandosi allo specchio, una nebbia violacea li avvolge entrambi e in essa i fratelli si dissolvono.
3 - L’agnello, questo sconosciuto
Come si intuisce già dalla complicata trama, “The Lamb Lies Down On Broadway” è un lavoro monumentale. Nel suo percorso esso sembra procedere per addizioni, tante sono le complessità strumentali e di narrazione che lo infarciscono, non per nulla all’epoca molte critiche vertevano proprio sulla eccessiva mole del lavoro. In effetti, va detto subito che in un’opera di tale dimensione inevitabilmente ci sono dei momenti di “stanca” o pleonastici che rendono talvolta l’ascolto lento e su cui si tornerà nell’ultima parte, ma si tratta comunque di passaggi temporanei in un’opera di altissimo livello complessivo, per certi versi unica, certamente differente da quello che si era sentito fino a quel momento e da ciò che si sentirà successivamente.
Chi ha seguito il percorso “storico” della band, si accorge subito che qui il suono è diverso, molto più duro e pesante rispetto a quello che sembrava ormai il suo standard definito. La produzione fa in ogni caso un deciso salto di qualità, soprattutto se comparata al lavoro precedente che come accennato non rendeva giustizia al gruppo, si tratta infatti del disco dei Genesis meglio prodotto fino a quel momento. I suoni vogliono con ogni probabilità riflettere la “grana grezza” del protagonista, ovvero la sua materialità o non-spiritualità.
Soprattutto il lavoro di Hackett e Rutherford è molto più aggressivo che in passato. Il chitarrista sfodera assolo taglienti e lancinanti come lampi, sempre di personalissimo buon gusto e frutto di una tecnica mai fine a se stessa, anche se successivamente si dichiarerà sempre insoddisfatto del lavoro. La batteria è costantemente in primo piano e anzi viene ad assumere importanza col procedere del lavoro, mentre nelle opere precedenti risultava talvolta sacrificata probabilmente da ingegneri del suono impreparati al compito di trattare con uno dei più grandi batteristi di tutti i tempi. Phil Collins è decisamente a una delle migliori prove in carriera, se non la migliore in assoluto. Rafforza infatti gli aspetti personali del suo già ottimo stile e ne lascia intravedere gli sviluppi futuri, passando da momenti di potente ritmica (“The Lamb Lies Down On Broadway”, “Back in N.Y.C.”) a fasi di fuga quasi delirante (la strumentale “The Waiting Room”).
Tony Banks, per parte sua, tesse delle trame affascinanti soprattutto al piano, come nella iniziale title track o in “Cockoo Cocoon”, e per la prima volta lavora su quelli che all’epoca erano i primi sintetizzatori. Forse proprio qui sta talvolta il suo punto debole, dato che finisce per mostrare qualche ingenuità dovuta forse alla troppa fiducia nei nuovi mezzi. Tutti insieme i musicisti danno comunque vita a tessuti sonori estremamente complessi, sempre vibranti come un quadro impressionista. L’esempio migliore in questo senso è “The Carpet Crawlers”, che dall’avvio in sordina con una eterea dodici corde e voce, introducendo uno strumento per volta, arriva con un crescendo lentissimo a un climax dove tutto si fonde e si interseca in una grande armonia corale. Probabilmente la migliore canzone dell’album e da sempre un punto fermo per tutti i fan dei Genesis.
La lunghezza media e l’articolazione delle composizioni è minore rispetto agli album precedenti, le canzoni sono più compatte e i ritmi spesso più serrati. L’aggressività è maggiore anche da questo punto di vista, basti ascoltare “Back in N.Y.C., una delle canzoni più “dure” dei Genesis e una delle migliori dell’album, dove la rabbia fa da padrona.
Non mancano i momenti di sollievo, più morbidi, come la sequenza “Anyway” - “The Supernatural Anesthetist”, con due fulminanti assolo di Hackett, breve e deciso il primo, più complesso e spagnoleggiante il secondo, con una delle sue rare esibizioni di virtuosismo sul finale. In “Anyway” c’è anche la migliore interpretazione di Gabriel in tutto il disco. Da segnalare anche la cavalcata finale di “IT” dove sempre il chitarrista sforna un grande riff e Banks va in fuga costante sulla tastiera. Si ripete che il livello complessivo dell’opera è comunque elevatissimo per la lunghezza che presenta, e per questo pare ancor più curiosa la presenza di riempitivi, solitamente assenti nei precedenti dischi, dove ogni singola canzone aveva una ben precisa collocazione ed era studiata, limata e arrangiata ogni volta con cura, come avente un valore a sé stante, e mai si trovava più materiale del necessario. Ma su questo, come detto, torneremo oltre.
Ho volutamente lasciato per ultimo Peter Gabriel così da potermi soffermare. L’idea principale di dar vita a un concept album è sua, così come la trama e la quasi totalità dei testi. Se il suo lavoro al canto e sulle parole aveva già da tempo raggiunto livelli elevatissimi, con questo doppio album egli arriva a un gradino ulteriore, o forse solo diverso, di coscienza dei propri mezzi. I testi e l’interpretazione di Gabriel si erano sempre caratterizzati per una grande capacità di giocare con la lingua inglese, così ecco giochi di parole, doppi sensi, metafore, storpiature della voce, sussurri e grida alternati in una stessa canzone. In “The lamb” troviamo tutto questo all’ennesima potenza, ma anche di più. Per la prima volta, sepolta sotto tonnellate di figure retoriche, citazioni letterarie e riferimenti mitologici, fa capolino la vita reale o comunque troviamo questioni diverse dai tradizionali temi gabrieliani: la violenza, la lotta per emergere dalla massa, i rapporti familiari, l’educazione, il denaro, il sesso, la morte, il cinismo e la rabbia. Le numerose esperienze che Rael vive nell’assurdo mondo sotterraneo in cui è stato catapultato, sono la rappresentazione metaforica del percorso attraverso cui passa ogni adolescente per diventare uomo. Se il tema non pare poi avere tutta questa originalità, dato che il romanzo formativo è stata una costante della letteratura occidentale moderna, e successivamente sarà anche più volte ripreso nel rock (Hüsker Dü), è tuttavia qui sviluppato con una visione surreale e una forza immaginifica che non ha riscontri.
Nonostante vi siano alcune ingenuità linguistiche e di narrazione - per esempio non si è mai visto un teppista portoricano che per approcciare la sua prima ragazza va a comprarsi un manuale sul tema - la fantasia quasi onirica che Gabriel mostra nel rappresentare le vicende di Rael cattura davvero l’attenzione e, se si è capaci di penetrare il velo dei giochi di parole che costantemente egli pone tra l’ascoltatore e l’essenza del racconto, se si riesce a capire il meccanismo della narrazione, si entra in un mondo che riserva molte sorprese e darà per anni materia di riflessione e scoperte sempre nuove.
L’anagramma Rael - real = reale (ma perché trascurare un aggancio anche alla follia di Re Lear?) è solo il primo passo di un costante gioco a rimpiattino con i significati che stanno dietro alle parole. Così ecco che i “carpet crawlers” sono coloro che fanno della sete di ricchezza e dell’essere “in” l’unico faro della vita (“We gotta get in to get out” = “dobbiamo entrare per uscire”, ma anche “dobbiamo essere ‘in’ per emergere”); le splendide Lamia sono la metafora del sesso e della voluttà in cui è bello perdersi, ma hanno come controaltare gli orrendi Slippermen che ci dicono che questo può essere anche schiavitù quando è pura soddisfazione dei propri istinti egoistici impedendoci di amare realmente l’altro; l’IT finale in cui Rael e John si dissolvono è la raggiunta maturità del ragazzo finalmente uomo, che in ultimo riconosce come propria la sua parte razionale e così si completa. Magari restando ai significati più generali, si può accennare al fatto che l’intero mondo sotterraneo in cui si svolge la vicenda, oltre che un richiamo all’inferno della “Divina Commedia”, sembra rappresentare soprattutto il subconscio del protagonista, il “dentro di sé” nascosto con cui egli per la prima volta si trova ad avere a che fare, riflettendo invece di agire.
Però è bene non svelare troppo quelle che dopotutto sono interpretazioni personali, ognuno può divertirsi da solo a trovare i significati nascosti nelle liriche o a dar loro i propri, anche perché Gabriel non ha mai rilasciato interpretazioni “ufficiali” ed è sempre stato piuttosto vago nell’illustrare il significato delle liriche di questo disco.
4 - Il tour e l’addio di Peter Gabriel
E’ credenza diffusa che Peter Gabriel abbia scritto tutti i testi del doppio album, ma va ricordato che in realtà quelli della quarta facciata sono scritti in parte da Mike Rutherford e Tony Banks, perché altrimenti i tempi pattuiti con la Charisma per la consegna del lavoro non sarebbero stati rispettati. All’epoca molti pensavano addirittura che egli avesse scritto tutta la musica, invece questa è opera quasi esclusiva degli altri, dato che Gabriel e il gruppo si erano divisi i compiti all’inizio della lavorazione. Queste errate attribuzioni ovviamente accentuavano le tensioni interne già presenti tra il cantante e gli altri, che durante la lunga lavorazione di “The Lamb” si erano fatte particolarmente sentire. Un ruolo nei contrasti lo ebbe anche la volontà di Gabriel di creare una rappresentazione molto complessa on stage, al punto di condizionare anche la stessa realizzazione dell’album. Infatti la band, nella fattispecie Collins, ha testimoniato in interviste successive che dopo le composizioni collettive, mentre gli altri quattro avevano in pratica finito di incidere le basi musicali in due settimane, un mese dopo stavano ancora aspettando i testi. Gabriel, sollecitato, cominciò a dire che aveva bisogno di altre musiche sia per utilizzare testi privi di “appoggio”, sia per avere altri collegamenti tra le canzoni. Questo, anche se non viene detto esplicitamente, al fine chiaramente intuibile di cambiarsi costume o compiere altri spostamenti in scena. Ciò non fu per niente gradito dagli altri, che già lo contestavano per il modo “egoistico” di lavorare. E’ estremamente importante, dunque, affrontare quest’aspetto, perché si può affermare che alcune parti del doppio album sono frutto della prospettiva della sua integrale rappresentazione sul palco. E’ probabilmente il caso di certi passaggi strumentali che suonano molto come materiale di connessione, i famosi “riempitivi” di cui si diceva, vedi la strumentale “Silent Sorrow In Empty Boats”, che si trova tra “The Lamia”, in cui sul palco Gabriel indossava un incredibile “costume” costituito da un cono semitrasparente e dipinto, alto oltre due metri dentro il quale cantava, e “The Colony Of Slippermen”, in cui indossava una ingombrante veste da mostro bitorzoluto rimasta celebre. Tutto questo, però, non ha portato solo riempitivi, infatti, come afferma Banks, la magnifica “The Carpet Crawlers” è una canzone composta e aggiunta in una seconda fase su richiesta di Gabriel, basandola tra l’altro su un suo tema melodico.
L’album vendette abbastanza bene per essere un doppio, anche se considerevolmente meno dei due dischi immediatamente precedenti, arrivando al n. 10 in Uk e 41 negli Usa (comunque la più alta posizione raggiunta negli States fino ad allora). In ogni caso l’esplosione vera ci fu per il successo che ebbero le rappresentazioni live di cui si diffusero descrizioni con toni quasi da leggenda. Tutto il palco veniva completamente dipinto di nero, in qualunque teatro o arena fossero, per consentire la totale oscurità durante le fasi in cui il cantante si spostava sul palco per riapparire nei posti più impensati e per lo stesso motivo il gruppo pretendeva che tutte le luci fossero spente, comprese quelle pubblicitarie e delle uscite di sicurezza; su tre schermi posti dietro al gruppo, in sincrono con le musiche, tramite sette proiettori venivano proiettate 1.450 diapositive contenute in 18 cassette; a un certo punto veniva utilizzato un manichino-clone di Gabriel (il cui volto era una maschera di plastica fatta al cantante col sistema del calco dal vivo) cosicché due Peter Gabriel apparivano ai due lati opposti del palco e vi erano ovviamente i suoi famosi costumi, sebbene in realtà non ne indossasse fino a “The Lamia”, e in precedenza, cioè due terzi dello show, fosse “semplicemente” travestito e truccato da Rael.
I contrasti interni raggiunsero così il culmine proprio col colossale tour in cui il doppio album fu interamente rappresentato per 102 serate in Nord America ed Europa, e durante il quale Gabriel decise di abbandonare il gruppo.
Gabriel era ormai una stella di prima grandezza, il faro a cui tutto il pubblico e gran parte dei fan e della stampa guardavano, e gli altri finirono per restare in ombra nonostante fossero gli autori del 95 per cento della musica, e ciò si sommava alle frustrazioni della registrazione. Gabriel aveva anche problemi familiari, stava per avere il primo figlio e aveva soprattutto desiderio di stare vicino alla famiglia piuttosto che in tour permanente come il futuro nella band, divenuta ormai un mostro del rock, gli prospettava. Gli altri pativano la frustrazione di essere spesso considerati “il gruppo di Peter Gabriel” e la comunicativa tra i membri della band era ai minimi storici. L’abbandono del cantante fu la pressoché inevitabile conseguenza.
Probabilmente con la pubblicazione di questo disco, la sua rappresentazione dal vivo e la definitiva dipartita di Gabriel dai Genesis nel ‘75 proprio nel momento del loro massimo successo fino ad allora, abbiamo un punto di rottura nella storia del rock, l’ultimo atto della fase più fulgida del progressive e dunque la fine di un epoca. Il punk stava già battendo i primi colpi che di lì a poco avrebbero spazzato via convenzioni consolidate e Gabriel, che ha sempre avuto una particolare sensibilità per il nuovo, aveva intuito che qualcosa si era rotto e niente sarebbe più stato come prima. Salvo i Pink Floyd di “The Wall” che chiuderanno il cerchio, pur con modalità comunque diverse, nessuno riuscirà più a esprimersi con una complessità live del genere, come nessuno vi era riuscito fino a quel momento. Per limitarsi a nomi conosciuti, se Emerson, Lake & Palmer o Yes avevano dato vita a musiche complicate e tournée faraoniche, non avevano tuttavia l’ambizione di inscenare una vera e propria rappresentazione narrativa. Andando anche al di là del progressive, per esempio i Pink Floyd avevano dato vita con “The Dark Side Of The Moon” a un grande concept album, tuttavia non lo avevano basato su una trama, bensì appunto solo su un “concetto” di fondo. Altri che pure una trama l’avevano concepita come David Bowie, comunque quello che ci era andato più vicino con il personaggio di Ziggy Stardust, anche se era maggiormente ispirato al cabaret, non avevano tuttavia la macchina visuale di Gabriel e dei suoi costumi per dar vita a una forma di autentico teatro rock. Oppure gli Who con “Tommy” erano ricorsi al cinema per rappresentare visivamente la storia, pur essendo probabilmente autori del migliore lavoro del genere.
Insomma, solo i Genesis nel 1974 avevano tutti gli strumenti necessari per un’operazione di quel tipo, che è rimasta unica nella storia del rock e dei concerti dal vivo, e per mettere in scena quella che molti anni prima che il termine divenisse di uso comune il gruppo stesso definì una rappresentazione “multimediale”, fatta di musica rock, teatro, poesia e immagini.
Purtroppo di quel tour di “The Lamb Lies Down On Broadway” non esiste alcuna ripresa filmata ufficiale, così oggi è un patrimonio della musica popolare completamente perduto. (Marco Simonetti)
Fonti bibliografiche: “Genesis, la loro leggenda” di Armando Gallo, D.I.Y. Books Europa 1981; “Peter Gabriel”, nella collana Manuali Rock diretta da Riccardo Bertoncelli, Arcana Editrice 1985; “Peter Gabriel. ‘Sognando un mondo reale’” di Tommaso Ridolfi, Gammalibri – Kaos Edizioni 1987; “The annotated Lamb Lies Down on Broadway” by Jason Finnegan, Scott McMahan and other members of Paperlate, pubblicazione internet; “Genesis chartography” by Shane Hegarty, pubblicazione internet.