Mettiamo subito le mani avanti: questa playlist è essenzialmente un gioco. È una lista che potrebbe essere rimescolata a caso con esiti (quasi) ugualmente soddisfacenti e alla quale potrebbero essere aggiunte altrettante canzoni non meno degne di nota. Si spera tuttavia che questa OndaTop 30 dei Pink Floyd possa anche essere utile, per far riascoltare/riscoprire alcuni dei classici di una band che non ha certo bisogno di presentazioni.
I fan dei Pink Floyd spesso si dividono in fazioni/faide piuttosto sgradevoli. Ci sono gli irriducibili barrettiani secondo i quali tutto è finito con l’addio al Crazy Diamond, gli adepti del culto totalitario di Roger Waters, che tendono a sminuire ogni ruolo avuto da David Gilmour e compagni nella creazione dei brani, infine – di più recente origine – gli ultrà del chitarrista e acerrimi nemici dell’ex-leader, capaci di ribaltare le carte in tavola arrivando a rinnegare la genialità dei concept watersiani. Noi ci dissociamo volentieri da tutte queste fazioni in guerra, preferendo concentrarci sulla coralità dell’esperienza floydiana, frutto di più menti e concezioni musicali, che – similmente a Beatles, Stones, Who, Led Zeppelin etc. – ha ampiamente dimostrato che l’unione fa la forza. Ci riesce tuttavia difficile conferire credibilità all’ultima incarnazione della band inglese, quella orfana di Waters del trittico “A Momentary Lapse of Reason”-“The Division Bell”-“The Endless River”. Un’esperienza che, a giudizio di chi scrive, aveva ormai smarrito ogni parvenza della debordante creatività che i Pink Floyd hanno saputo mantenere nel precedente ventennio di attività discografica, a dispetto di abbandoni, liti e tensioni permanenti.
Qui sotto, dunque, le nostre 30 canzoni preferite – con commento per ognuna – e la relativa playlist. A voi, magari, il compito di dirci le vostre.
30. Learning To Fly
Forse il frutto migliore dei Pink Floyd post-Waters, questo singolo pubblicato nel 1987 come primo estratto da “A Momentary Lapse Of Reason”, il primo disco orfano del leader, dopo il fatidico “The Final Cut”, la cesura definitiva. David Gilmour assume le redini del gruppo, convinto che Waters considerasse ormai la musica solo come un accessorio per i propri testi, a scapito della qualità del suono. Non che quello prodotto da Gilmour e superstiti sia così originale, ma quantomeno resta in primo piano il marchio di fabbrica del chitarrista, con il suo nuovo assolo scintillante. Il testo, invece, frutto dell'improvvisato sodalizio con Anthony Moore, Bob Ezrin e Jon Carin, non lascia il segno. Ma il brano è nel complesso “classico” e gradevole.
29. Sysyphus - Part 1-2
Senza più Syd Barrett, allontanatosi dal gruppo all'inizio del 1968, ma con intatte ambizioni sperimentali, alla fine del 1969 i Pink Floyd fanno uscire il doppio “Ummagumma”: metà live, con i primi classici della band; metà in studio, con i contributi dei quattro musicisti da "solisti", attraverso composizioni sperimentali incentrate sui rispettivi strumenti. La prima due parti della suite d’apertura "Sysy’phus", a cura di Wright, mescola musica classica e avanguardia. Magari un po' datata e non troppo fruibile, ma sempre affascinante.
28. The Nile Song
La canzone più heavy dei Pink Floyd? Scritta da Waters e cantata da Gilmour, è la seconda traccia di “More” (1969), colonna sonora del film omonimo. Curiosamente, mentre il resto dell'Lp fu pubblicato in stereo, "The Nile Song" fu mixata in mono e processata in stereo Duophonic. Particolare anche la progressione di accordi: una serie di modulazioni che attraversa sei tonalità diverse, tornando al punto di partenza (La). Di certo, quanto di più vicino a heavy metal e hard rock che la band inglese abbia mai prodotto.
27. Lucifer Sam
Una delle magistrali filastrocche stralunate di Syd Barrett che impreziosiscono il debutto “The Piper At The Gates Of Dawn”. È anch’esso una sorta di proto-hard rock, con il riff discendente che si snoda attraverso il suono della chitarra (filtrato da una echo machine) e le vibrazioni spaziali apportate dall’organo orientaleggiante di Richard Wright. Il testo della canzone narra di un magico gatto (Lucifer) che ha qualcosa di inspiegabile. Diabolicamente felina.
26. Wish You Were Here
Inflazionatissima, ma pur sempre classica. Non le si può imputare quella inevitabile stanchezza nell’ascolto, suscitata dal suo abuso in heavy rotation radiofonica (e non), ma – a giudizio di chi scrive – non si tratta nemmeno di quel capolavoro invocato da alcuni. La title track di “Wish You Were” rimane un monumento alla nostalgia e alla perdita, con una melodia toccante e un testo che condensa tutti i rimpianti per l’addio – più o meno incolpevole – all’ex-compare. Cantata da Gilmour, scritta da Waters e dedicata a Barrett, resta anche una delle interpretazioni più sentite del chitarrista.
25. The Gunner's Dream
L’assurdamente bistrattato “The Final Cut” resta un signor disco, cupo e dolente, con il suo scavo poetico nelle atrocità della guerra (è dedicato alla figura di Eric Fletcher Waters, padre di Roger, morto in Italia durante la seconda guerra mondiale). “The Gunner's Dream” segna uno dei momenti più emozionanti in scaletta: il monologo di un aviatore che, dopo essere stato colpito durante uno scontro aereo, mentre sta precipitando inesorabilmente verso la sua morte, ripensa alla sua vita passata e al futuro senza di lui. Un testamento struggente che in fondo è un po’ quello di Roger Waters nei confronti della sua esperienza floydiana, giunta al capolinea. Musicalmente, alterna fasi lente e sommesse a preziosi interventi strumentali (come i solo di sassofono di Rafael Ravenscroft) e potenti fasi orchestrali, in cui spiccano gli archi.
24. Mother
Ancora Waters a emozionarci, stavolta scandagliando la psiche di Pink, protagonista del concept di “The Wall”, in un brano centrato sulla figura materna, fondamentale in tutto lo sviluppo della storia. Una madre iperprotettiva che segnerà l'esistenza di Pink impedendogli di trovare l'indipendenza, la maturità e la capacità per gestire la propria esistenza senza condizionamenti. È una splendida ballata acustica con il tempo dispari scandito dalla chitarra e con preziosi innesti "bucolici" di organo. Curiosità: la batteria è suonata da uno dei più quotati turnisti dell'epoca, Jeff Porcaro dei Toto.
23. See Emily Play
Un’altra leggendaria chicca dalla fase barrettiana. Una filastrocca psichedelica che occupa il lato A del secondo singolo dei Pink Floyd (sul lato B l’altrettanto preziosa “Scarecrow”). Il testo narra di una ragazza che Syd Barrett avrebbe visto in una foresta mentre era sotto l'effetto di droghe allucinogene, effetto ricreato dall'atmosfera psichedelica della musica e dal testo al limite del nonsense. La ragazza, secondo quanto scritto da Nicholas Schaffner nel suo libro “A Saucerful of Secrets: The Pink Floyd Odyssey”, sarebbe in realtà l'artista Emily Young, figlia del barone Wayland Hilton Young, soprannominata "psychedelic schoolgirl" (studentessa psichedelica!). Nel 1971 il brano fu incluso nella splendida raccolta della prima era floydiana “Relics”. Notevole sarà anche la cover che ne realizzerà David Bowie nel suo album “Pin Ups” (1973).
22. Set The Controls For The Heart Of The Sun
Il tour de force “cosmico” di “A Saucerful Of Secrets”, mirabile disco di transizione del 1968 che riflette le contraddizioni interne al gruppo in questa fase di distacco dall’eredità barrettiana, ma regala grandi intuizioni, come in questo pezzo che secondo Gilmour conterrebbe alcune parti per chitarra suonate da Barrett e che per questo risulterebbe l'unico dei Pink Floyd a includere tutti i cinque i componenti. Waters, invece, ha raccontato di aver preso in prestito le parole da un libro di poesie cinesi del periodo della dinastia Tang. Ne risulta un brano potente, misterioso e affascinante, in rotta di collisione verso il cuore del sole.
21. Another Brick In The Wall, Part 2
Annunciata dall'arrivo degli elicotteri, una delle più grandi hit di tutti i tempi. Inedita dimostrazione di funk-rock floydiano, “Another Brick In The Wall, part 2” è di una semplicità disarmante, essendo costruita su un solo accordo, ma mantiene a distanza di decenni un pathos impressionante, e davvero poco importa se il celeberrimo solo di chitarra non era stato scritto neanche da Gilmour. Soprattutto il coro dei bambini, composto da 23 ragazzi della quarta classe di musica della Islington Green School di Londra con età compresa fra i 13 e i 15 anni, resta memorabile. Singolo trainante di “The Wall”, imperversò a lungo nelle radio di tutto il mondo e scatenò le ire del governo razzista del Sudafrica che ne proibì la diffusione, in quanto gli slogan del ritornello ("non abbiamo bisogno di istruzione, non abbiamo bisogno di controllo del pensiero") vennero utilizzati dai manifestanti neri in occasione dell'anniversario della sommossa di Soweto repressa nel sangue. Tutte le copie vennero ritirate dai negozi e per chi ne possedeva una pesò addirittura la minaccia della galera. Un eterno inno di libertà da ogni forma di oppressione.
20. Jugband Blues
Come si diceva, “A Saucerful Of Secrets” è in qualche modo figlio del periodo di instabilità del gruppo. A testimoniarlo, anche questo (geniale) pezzo: un piccolo bozzetto delirante, in cui Syd Barrett si dimostra perfettamente consapevole del suo stato di isolamento mentale, declamando versi che, letti a posteriori, sembrano voler rispondere in anticipo all'album che i quattro gli dedicheranno qualche anno dopo. “It’s awfully considerate of you to think of me here / And I’m much obliged to you for making it clear / That I’m not here”, canta Barrett in questa partitura sghemba e dolente. È l’addio della prima mente dei Pink Floyd, scandito dalle fanfare e da una dolce chitarra acustica. See you, Syd, on the dark side of the Moon.
19. Us And Them
Abbozzata al piano da Rick Wright per la colonna sonora di “Zabriskie Point” di Antonioni (con il titolo originario di “The Violent Sequence”), troverà miglior fortuna qualche anno dopo, quando sui suoi accordi sorgerà “Us And Them”, uno dei classici di “The Dark Side Of The Moon”. Un brano tenero e dolente, che racconta l'inutilità della guerra, anticipando la tematica cara a Waters che ne farà un caposaldo della sua fase finale coi Pink Floyd (in “The Wall” e “The Final Cut”) e di tutta la sua carriera solista. Con pochissimi versi, il bassista tratteggia un universale “noi e loro”, l'eterno scontro di civiltà, affidandolo alle parole di un soldato che si rivolge direttamente al suo nemico al fronte, arrivando a un'amara conclusione sull'assurdità del conflitto. Alla dolcezza del canto di Gilmour si sposa il sax soffuso di Dick Parry, mentre le voci fuori campo sono di persone presenti negli studi di registrazione. Tra questi anche Roger Manifold, roadie di una band di nome The Hat, che rispose alla domanda di Waters "quand'è stata l'ultima volta che hai picchiato qualcuno?" con la frase "...give 'em a quick, short, sharp shock"... che finì all'interno della registrazione!
18. Careful With That Axe, Eugene
In rappresentanza del live di “Ummagumma”, questa canzone mutaforma dei Pink Floyd, in perenne trasformazione nelle varie versioni in cui fu eseguita, oltre che nei titoli (tra cui “Come in No. 51, Your Time Is Up” per il film “Zabriskie Point” di Antonioni). Nella versione dell'Lp-kolossal del 1969 assume le sue sembianze più caotiche e deliranti: parte con un giro di basso su cui si installa subito l’ipnotico organo di Wright, per poi dar vita a un crescendo ossessivo che esplode nell’urlo disumano di Waters - in anticipo di qualche anno su quello di “Another Brick In The Wall Part II”- lasciando spazio agli altri strumenti, prima di dissolversi in un finale che in breve tempo torna quieto, quasi impalpabile. Un inno psichedelico, sfrenato e ossessivo, in cui l'ascia di Eugene è idealmente rappresentata dal rimshot del batterista Nick Mason.
17. The Final Cut
Restando in tema di asce, il taglio finale, quello più doloroso. Non inteso in senso cinematografico, come il titolo giocato potrebbe suggerire, ma quale cesura definitiva nella storia della band. La title track dell’album del 1983 è insieme il testamento di Roger Waters e il canto del cigno dei Pink Floyd per come li abbiamo conosciuti, ovvero come una delle più grandi rock band di tutti i tempi. Quello che seguirà sarà solo uno stanco strascico, condito per di più da sgradevolissime polemiche. La ballata-testamento del Waters leader floydiano racconta dell'isolamento, della depressione, della repressione sessuale di un uomo che arriva a tentare il suicidio ma "non ha mai avuto il coraggio di fare il taglio finale". Chiaro il legame con la storia di Pink in “The Wall”: non a caso, si tratta di una delle quattro tracce rimaste escluse dalla scaletta di quel disco (insieme a "The Hero's Return", "One Of The Few" E "Your Possible Pasts") e recuperate proprio in “The Final Cut”. L’addio più struggente.
16. Welcome To The Machine
Tra i pezzi forti di “Wish You Were Here”, c’è questa vera e propria invettiva contro la macchina discografica, che inizia con l'apertura di una porta automatica, descritta da Waters come "simbolo di scoperta musicale e di progresso tradito dal mondo della musica, che è più interessato al successo e che si dimostra avido". È un moog sinistro a preannunciarci la profezia distopica per antonomasia: divenire meri ingranaggi di una macchina alienante e spietata che progressivamente ci renderà inetti e svuoterà ogni traccia dei nostri sogni. È ciò che accade anche al giovane cantante protagonista del brano: attraverso il dialogo con un bieco e rude discografico, si consuma il suo destino di marionetta del music business, a scapito della qualità e della passione. Il brano svanisce in un rapido fade out, con i rumori di una festa a simboleggiare "la mancanza di contatti e sentimenti reali tra le persone", sempre secondo le parole dell’autore. Il susseguirsi lento e inesorabile dei sintetizzatori (incluse le vibrazioni del VCS3 in apertura) e la voce quasi "urlata" di Gilmour conferiscono un'atmosfera cupa e futuristica al brano, in cui manca del tutto la batteria. Un caos organizzato che suggella uno dei momenti più sperimentali dell’album prediletto di Gilmour e Wright.
15. The Great Gig In The Sky
Non poteva mancare il volo pindarico di Clare Torry, la voce immortale di una delle canzoni più celebri di “The Dark Side Of The Moon”. Assoldata per sole 60 sterline, su suggerimento dell’ingegnere del suono Alan Parsons, fa decollare “The Great Gig In The Sky” con il suo maestoso assolo vocale soul-gospel, assecondato dalla progressione di accordi delle tastiere di Wright (una partitura che in origine si intitolava "The Mortality Sequence" o "The Religion Song"). Un brano spettacolare che suggella la nuova psichedelia floydiana di metà 70’s, più sofisticata e morbida, rispetto a quella grezza e dissonante degli esordi. Curiosità: gli spoken word iniziali sono affidati al portiere irlandese degli studi di Abbey Road, Gerry O'Driscoll, e a Patricia Watts, moglie del road manager Peter Watts, protagonisti di un dialogo sulla paura della morte (“…and I am not frightened of dying, you know/ Any time will do, I don't mind/ Why should I be frightened of dying?”). La sottopagata Clare Torry, invece, si prenderà la sua rivincita in tribunale quando, nel 2005, l'Alta Corte di Giustizia britannica la dichiarerà co-detentrice dei diritti d'autore sulla canzone.
14. Summer '68
La terza traccia di “Atom Heart Mother” è la prodezza di un Wright all'apice della sua creatività. Irresistibile fin dal dolce riff di piano iniziale, che proietta l’ascoltatore in un’atmosfera fiabesca e sognante di stampo folk, per cedere poi spazio a passaggi temerariamente pomposi, caratterizzati dall’intervento degli ottoni della Abbey Road Session Pops Orchestra, che trasformano il brano in un’ode sinfonica, ma senza mai inficiare questo riuscito inno alla gioia di vivere. La rievocazione di una storia d'amore, un flashback sugli istanti irripetibili e sulle emozioni che un fugace incontro estivo può lasciarci. E l'estate non è una qualunque, ma quella del '68.
13. One Of These Days
“Meddle” (1971) è l’album in cui i Pink Floyd si orientano verso sonorità più rock, più facilmente riproponibili nei concerti. Ad aprire la tracklist, questo strepitoso brano strumentale, incentrato sul basso martellante con tempo ternario di Waters, amplificato sperimentalmente con un’eco Binson, e impreziosito anche dal lungo assolo "slide" della chitarra di Gilmour. A metà della traccia si ode l’unica frase presente: “One of these days I’m going to cut you into little pieces” (“uno di questi giorni ti ridurrò in piccoli pezzi“), pronunciata da Nick Mason con la voce in falsetto mandata a mezza velocità. Diventerà un cavallo di battaglia dei loro concerti, dal 1972 fino al 1977. L’ultima esecuzione come Pink Floyd avverrà il 29 ottobre 1994, durante il “The Division Bell Tour”.
12. Dogs
Nato come assemblaggio del materiale scartato da “Wish You Were Here”, “Animals” (1977) si imporrà negli anni come uno dei lavori più originali e suggestivi dei Pink Floyd. Sorta di invettiva contro alcune figure della società (con i testi di Waters "cattivi" come non mai), orwellianamente sostituite dalle specie animali, insegnerà molto alla new wave e merita una particolare attenzione anche per la trascinante costruzione ritmica, con tutti gli strumenti sempre in perfetta armonia, quasi fusi tra di loro a generare un unico suono, senza mai ricorrere a virtuosismi fini a se stessi. Segna anche l’avvento al potere (assoluto?) di Waters, più che mai dominus (firma 4 pezzi su 5) con la sua visione plumbea di un Regno Unito sempre più desolato e alienante. “Dogs” è l’unico brano che porta anche la firma di Gilmour: dalla “Fattoria degli Animali” di Orwell alle cupe profezie del bassista, 17 minuti di j’accuse contro gli ipocriti arrivisti del ceto medio, decisi a ritagliarsi un posto più alto nella catena di comando rappresentata dai “pig”. Completamento di un brano rimasto nel cassetto di Gilmour (con il titolo di “You’ve Gotta Be Crazy”), è una suite mutevole che parte lieve sugli arpeggi della chitarra acustica, per acquistare cupezza con le tastiere di Wright e farsi vieppiù violenta, tra solo elettrici del chitarrista e grida angosciate.
11. Interstellar Overdrive
Tra i vertici di “The Piper At The Gates Of Dawn” e dell’intera produzione di Syd Barrett, ci sono questi quasi dieci minuti di psichedelia cosmica. La cronaca di un viaggio umano nell'universo che parte con un riff da film horror e si sviluppa seguendo una sola regola: almeno uno strumento deve mantenere il ritmo. E sopra questo ritmo si sviluppa una jam session acidissima, fatta di astronavi che sfrecciano, di asteroidi che si scontrano, di alieni e alienazioni, di muri spaziali, di tempeste stellari, di quiete cosmica, di paradisi irraggiungibili. Ma il vero viaggio è quello nella mente di Syd, che disegna scene inquietanti e paurose, o ancora si immerge in liquidi universi che sfuggono alle possibilità umane. “Interstellar Overdrive” era anche un cavallo di battaglia delle prime esibizioni live dei Pink Floyd all’Ufo, con il loro light show che prevedeva la proiezione diretta sul gruppo di diapositive allucinate, sulle quali era posto dell’inchiostro destinato sciogliersi con effetti visivi di grande impatto. Un tripudio di arte visionaria.
10. Brain Damage/Eclipse
Intrappolati nell’altro lato della Luna quello più buio e inaccessibile, il luogo d’elezione della follia. Uno dei più memorabili “viaggi nella mente” della storia del rock, quello di “Brain Damage”, insidiato da una presenza aliena, un pazzo che si diverte a torturarci ficcandoci in testa pensieri disturbanti: “The lunatic is in my head… There's someone in my head, but it's not me”. Il tema della malattia mentale è un chiaro rimando al caso di Syd Barrett e al suo distacco dal gruppo (“And if the band you're in starts playing different tunes/ I'll see you on the dark side of the moon”). Ma sarebbe riduttivo limitare il suo scavo nei dirupi della mente al solo espediente biografico. Aperto da un delicato arpeggio di chitarra elettrica che prelude all’intervento vocale di Waters, dopo una prima fase trasognata e monocorde, il brano esplode in un ritornello imperioso, basato su accordi maggiori, con l'ingresso del coro, della batteria e di tutti gli altri strumenti; in esso viene anche citato il titolo dell'album (“I see you on the dark side of the Moon”). Dopo un assolo di sintetizzatore (che riprende la melodia del cantato), il brano sfuma senza soluzione di continuità nel crescendo di “Eclipse” che abbiamo quindi voluto idealmente accorpare in una sola traccia, conclusa – a mo’ di chiusura del cerchio - da quelle pulsazioni cardiache con cui il disco era iniziato e da quella spiazzante constatazione finale - “There’s no dark side of the moon really: matter of fact, it’s all dark” - affidata ancora una volta al custode di Abbey Road.
9. Echoes
La sesta e ultima traccia di “Meddle” è una mastodontica suite di oltre 23 minuti che rimane una delle più memorabili testimonianze della potenza strumentale dei Pink Floyd. Dopo il preludio - composto da Wright e creato per mezzo di un'estensione del suono di un pianoforte a coda amplificato mediante un altoparlante Leslie e una nota acuta prodotta dalla slide guitar di Gilmour – l’ingresso della batteria preannuncia la strofa, cantata dal chitarrista, quindi il lungo assolo di chitarra elettrica spiana la strada a un’incursione spiazzante nel funk – con chitarra distorta di Gilmour e basso slide di Waters sugli scudi – fino all’irruzione dell'organo Farfisa di Wright che sfocia in un altro crescendo di matrice psych-prog, chiuso dalla coda finale, con assolo di Gilmour in dialogo con il piano di Wright, a sfumare. Una prodezza assoluta nata da una serie di 36 differenti idee musicali, grazie alle quali nacque la versione embrionale ("Return Of The Son Of Nothing"), poi rinominata “Echoes”. Si tratta anche del brano che intitola l'antologia “Echoes: The Best Of Pink Floyd” del 2001, dove è inclusa in una versione ridotta di 16 minuti e 30. Ambizioso anche il tema del brano: una riflessione sulla genesi del mondo e sulla ciclicità della vita. Uno di quei brani dei Pink Floyd che – come raccontava Eugenio Finardi – “si potevano passare in radio andando a prendersi un caffè e tornando in studio dopo un po’”.
8. Hey You
Musicalmente tra le più belle canzoni di “The Wall”, stenta invece a trovare una collocazione narrativa nel progetto di Waters. Dapprima prevista al termine della terza facciata, viene inserita su disco all'inizio della stessa e nel film del 1982 sarà addirittura tagliata. È il brano che segna il passaggio dall'isolamento dalla realtà di Pink al momento in cui abbraccia il movimento fascista dei Vermi (The Worms). "Hey You" è un grido disperato di aiuto rivolto al mondo esterno e i vermi sono la rappresentazione simbolica del decadimento. In altre parole chi si isola, marcisce ("and the worms ate into his brain"). A marchiarla a fuoco, è soprattutto il solo di Gilmour, che suona su un riff ipnotico in un crescendo di grande intensità, scandito da arpeggi di chitarra e note sognanti di tastiera. Una breve variazione e si torna alle svisate di basso su un sordo tappeto di suoni brulicanti, che sembrano evocare insetti, parassiti, vermi. Curiosità: anche la splendida parte di basso fretless che apre la canzone è stata accreditata a Gilmour nella recente raccolta "Echoes".
7. Time
Tra gli immensi meriti dell’ingegner Parsons su “The Dark Side Of The Moon”, c’è anche l’ideazione di una serie di effetti sonori curiosi e innovativi, come il ticchettìo e lo scoccare di orologi, sveglie e pendoli in questo brano, suoni che il buon Alan aveva registrato in un negozio di antiquariato. “Time” è anche uno dei brani più accattivanti del disco. Memorabile il colpo secco di rullante di Mason che introduce la strofa cantata da Gilmour, che si produce poi in un altro dei suoi laceranti solo di chitarra elettrica, con Wright a supportarlo nelle parti cantate. Ma non meno prezioso è il contributo offerto dal testo di Waters, amara riflessione sul tema del disagio e del vuoto in cui sono immersi i giovani, allora come oggi, nonché un sinistro ammonimento sul tempo che passa e sulla necessità di non sprecarlo, con l’insidioso sospetto di essere rimasti intrappolati in un loop che non ci darà via di scampo (“Sciupi e sprechi le ore senza curartene/ Mentre vaghi nello stesso pezzo di terra della tua città… E poi un giorno scopri/ che ti sei lasciato dietro dieci anni”). E quell’indimenticabile verso: “Hanging on in quiet desperation is the English way”.
Si tratta quindi, soprattutto, di uno dei più riusciti saggi di “arte corale floydiana”: non a caso, reca le firme di tutti e quattro i componenti del gruppo.
6. Pigs (Three Different Ones)
L’apice dell’invettiva orwelliana di “Animals” è introdotta applicando la cosiddetta “talk box” al basso di Roger Waters per produrre i celebri grugniti di quel maiale che, in versione gonfiabile, diventerà anche un’icona della band, sorvolando il palco negli show dal vivo. A differenza di “Dogs” e “Sheep”, “Pigs” non è frutto di precedenti sessioni, bensì un brano scritto e composto per l’occasione da un ispiratissimo Waters, deciso a esprimere il decadimento sociale e morale della società, paragonando la condizione umana a quella degli animali, sulla falsariga della orwelliana “Animal Farm”. A renderla memorabile, diversi passaggi musicali: l’intro del sinistro organo Hammond di Wright, alle prese con un fraseggio in minore, basato su due accordi, la cui struttura ricorda alcuni preludi di Bach (reiterata poi al minuto 7), l’assolo di basso, seguito dagli accordi della chitarra ritmica, l’ingresso sontuoso della batteria a preannunciare la parte vocale di Waters, che denuncia i "maiali", ovvero coloro che si "ingrassano" alle spalle degli altri, fino alla coda corale in cui tutti gli strumenti entrano con forza, a supporto dell'assolo di Gilmour che va a sfumare nell'inizio del brano successivo. Se è probabile che tra i “bersagli” vi fosse l’allora premier Margaret Thatcher, è certo che la destinataria del terzo verso sia la moralizzatrice Mary Whitehouse, descritta come un "topo di città orgoglioso della propria casa" («house proud town mouse») che "si tiene tutto dentro". Diventerà un altro classico dei live floydiani, dove arriverà a sconfinare oltre i 20 minuti.
5. Astronomy Domine
La più celebre escursione spaziale dell’era barrettiana, caposaldo dell’album d’esordio “The Piper At The Gates Of Dawn” (1967), non è nient’altro che il resoconto di un viaggio stellare intrapreso da Syd attraverso l'uso dell'Lsd. Il basso pulsante rappresenta la connessione radio con la terra, mentre la chitarra onnipresente – resa ancor più psichedelica dall’effetto di phasing e riverbero - insieme a un canto maestoso e solenne, sembrano errare in un panorama cosmico oscuro, con il drumming forsennato di Mason a enfatizzare le parti più drammatiche. Il titolo è ispirato dai canti gregoriani dove spesso ricorre il vocabolo Domine (“Signore”). E la canzone si apre con la voce del manager dei Pink Floyd dell'epoca, Peter Jenner, che recita i nomi delle stelle attraverso un megafono, come un astronauta che parla attraverso un intercom. L’idea di viaggio interstellare non è solo fisica, ma rappresenta anche un'esplorazione interiore, tema che sarà ricorrente nell’intero canzoniere dei Pink Floyd. L’apice della sperimentazione alle porte dell’Alba.
4. Atom Heart Mother Suite
La monumentale suite della Mucca, zenit orchestrale della fase più vicina al prog dell’era floydiana (assurdamente rinnegata da Waters). All’alba dei 70’s, la band inglese si imbarca in un progetto ambiziosissimo: una lunga composizione strumentale alla quale verrà dato il curioso nome di lavorazione di "The Amazing Pudding". Per le parti orchestrali viene chiamato il musicista scozzese Ron Geesin, al quale viene affidato il compito di arricchire la versione "nuda", costruita dai quattro. Il risultato è eclatante, con questa splendida suite, epica e maestosa, che si dipana attraverso straordinari dialoghi tra musica sinfonica (in particolare, l’uso degli ottoni e del coro) e rock. Il titolo “Atom Heart Mother” si ispira alla notizia di cronaca di una signora incinta tenuta in vita da uno stimolatore cardiaco atomico. Il brano diventa così la title track dell’album del 1970, del quale occuperà l'intera prima facciata. Una miniera di geniali passaggi strumentali: dal celeberrimo intreccio tra l'organo arpeggiato e il violoncello all’assolo di chitarra di Gilmour fino alle voci onomatopeiche del coro, che dialogano vibranti e possenti con l'organo di Wright finché la tensione si dissolve coi fiati che, liberatori, ripropongono il tema d'apertura.
Se la forma della suite e l’uso di orchestrazioni sinfoniche rientrano tra i cardini del prog, è altrettanto vero che le affinità tra i Pink Floyd e questo genere finiscono qui. Sia perché “Atom Heart Mother” resterà una parentesi, sia perché l’abitudine della band di dilatare i tempi delle canzoni risale addirittura agli esordi psichedelici all’Ufo Club. Anche in questo ipotetico accostamento al prog, insomma, i Pink Floyd riuscirono a essere originali, anzi, unici.
3. Comfortably Numb
Canzone immortale tra le più belle dell'intera produzione floydiana, quindi del rock tutto. L'orchestrazione, soffice e leggera, sembra galleggiare e in questa sensazione sospesa si aggrappano anche i nostri sogni. La strofa è cantata da Roger Waters, poi irrompe la voce di David Gilmour per un’altra storia di straniamento e alienazione. A impreziosirla, anche piccole memorabili trovate, ad esempio, il grido che accompagna l'inizio della seconda strofa, che entrano negli annali del rock e nel nostro immaginario musicale. Gilmour, ai suoi massimi livelli, chiude splendidamente la canzone con uno dei soli più belli di sempre. Intenso, drammatico, teso, con le note mai così vicine alla forza di una fredda lama di rasoio, quella che Pink nel film utilizza per rasarsi petto e sopracciglia, quella che ad ogni ascolto perfora ogni difesa e va dritta al cuore. Un brano leggendario, che Waters penserà bene di riproporre 45 anni dopo in “Comfortably Numb 2022”, ripulendolo di ogni residua traccia anni 70 – incluso l’assolo di Gilmour – per un sound più contemporaneo, dominato da synth, harmonium e basso: niente a che vedere con la potenza del capolavoro originale.
2. Julia Dream
Una delle gemme più enigmatiche e delicate della discografia dei Pink Floyd. Pubblicata nel 1968 come lato B del singolo “It Would Be So Nice” e quindi inclusa nella preziosa raccolta “Relics”, “Julia Dream” porta la firma di Roger Waters e segna anche il debutto di David Gilmour come cantante. Si apre con un delicato arpeggio di chitarra acustica che evoca un'atmosfera folk onirica e sospesa, alimentata anche dal soffice cantato avvolto da un leggero riverbero; quindi decolla su uno struggente Mellotron - strumento feticcio degli anni 60-70 – suonato da Richard Wright, settandolo sul suono del flauto e trasfigurandolo mediante un marcato ricorso all’eco, che acuisce il senso di fluttuazione e di spaesamento. Nonostante il clima fiabesco, domina un senso di malinconia irrefrenabile, che si sposa all’enigma dei versi, attraverso una narrazione onirica e frammentata: "Sunlight bright upon my pillow / Lighter than an eiderdown / Will she let the weeping willow / Wind his branches round?". Una deviazione dallo stile più sperimentale e rumoristico degli esordi, in favore di una dolcezza melodica da sogno. Dream-pop ante-litteram?
1. Shine On You Crazy Diamond (1-5) (6-9)
Poteva essere anche “Julia Dream” il numero 1, ma si è preferito cedere il gradino più alto del podio a uno dei pezzi più emblematici e monumentali, nonché il più lungo in assoluto (26 minuti), della discografia dei Pink Floyd, con i suoi nove movimenti che attraversano praterie sconfinate di storia del rock. La parte musicale fu composta principalmente da Gilmour e Wright con qualche intervento di Waters, che scrisse anche il testo, ispirato all’ex-compare Syd Barrett alias “Crazy Diamond”. La band avrebbe voluto che la suite fosse contenuta in un solo lato dell'album ma poi, per la sua durata, venne divisa in due parti su ciascun lato dell'album.
Indimenticabile – fin dal primo ascolto – l’intro spaventosa, con le lente e ipnotiche note della Fender Stratocaster di Gilmour che, unite alle tonalità eteree del sintetizzatore di Wright, creano un senso di immensità spaziale, reso ancor più straniante dalla progressione fluida degli accordi in sottofondo, realizzati dai membri del gruppo facendo scorrere le dita sul bordo dei bicchieri di vino. Quindi, il tema di quattro note del brano, noto come "Syd’s Theme”, suonato dalla chitarra elettrica, presto affiancata dalla batteria e dal basso. Da qui in poi è un susseguirsi di evoluzioni sorprendenti, in cui ogni strumento ha il suo spazio e nessun elemento prevarica sull'altro, anche se i riff magistrali di Gilmour si prendono la ribalta. Il basso di Waters si muove con discrezione, mentre Mason fornisce un drumming misurato che supporta la vastità sonora e gli inserti del sassofono di Dick Parry donano al brano una qualità ancora più riflessiva e quasi jazzistica. Nella Parte VI-IX, il brano assume un tono più oscuro e riflessivo, chiudendo il cerchio con un ripetuto tema strumentale che richiama la parte iniziale della suite, come a voler sottolineare la fine del viaggio, colma di malinconia. Sullo sfondo, la discesa di Syd in un oblio di alienazione e follia, con quella supplica disperata racchiusa in un verso: "Come on you raver, you seer of visions". Non solo un tributo all’amico perduto, ma una meditazione universale sulla caducità dell’esistenza e della condizione artistica.
(Contributi di Filippo Neri e Sigfrido Menghini)