L'ingente quantità di forze dell'ordine, necessaria per rassicurare la giunta torinese dopo i fatti di Piazza San Carlo, e i controlli serrati all'ingresso non minano in alcun modo il clima d'entusiasmo per uno dei festival rock italiani più attesi dell'anno, una tre giorni di musica che non cela obiettivi culturali e di valorizzazione del territorio. Lo scenario è quello di Barriera di Milano, quartiere periferico in costante sviluppo, con gli eventi ospitati nella location principale, l'area all'aperto di Spazio211, e in quelle ancor più suggestive dell'ex-fabbrica Incet, della piscina Sempione e del Parco Peccei.
La vera sorpresa di questa edizione è la line-up: l’ingente quantità di date uniche italiane (PJ Harvey, Richard Ahscroft, Perfume Genius, Shins e Band of Horses) rende il TOdays un festival unico se paragonato alle altre manifestazioni estive simili disseminate per la penisola. Gli eventi gratuiti paralleli nobilitano un festival che ha preannunciato con lauto anticipo il sold out della prima giornata.
Day 1
Si parte - in anticipo rispetto alla timetable prevista - con Birthh, progetto della giovane Alice Bisi, la quale recentemente ha prestato la voce ai torinesi Demonology HiFi e si è fatta conoscere tanto in Italia quanto all'estero con un esordio degno di nota. Il rimando ai Daughter è d'obbligo, i battiti sintetici arricchiscono con equilibrio un set elettrico che si riempie e si svuota per lasciare spazio a una voce intensa e senza sbavature.
Il tentativo di coinvolgere il pubblico appena arrivato con l'handclapping di rito è solo in parte riuscito, ma i tre ragazzi sono senza colpe: il mood malinconico della loro musica si presta meglio a situazioni notturne e ambienti raccolti, mentre oggi attorno a loro il brusio si fa via via più forte per la spasmodica attesa per quello che sarà il grande momento della prima giornata: PJ Harvey.
Ma prima di lei tocca a Giovanni Truppi, che sale in canotta su un palco ancora assolato per un'esibizione che lo vede seduto al piano. "Domenica" è il suo biglietto da visita, poi le parole iniziano a rincorrersi con la divertente "Nessuno", l'autoreferenziale "Stai Andando Bene Giovanni" e "Lettera a Papa Francesco I", concepita a quattro mani con lo scrittore Antonio Moresco. Il cantautore napoletano ce la mette tutta, ma è innegabile che questi stessi brani sarebbero stati più incisivi se proposti full band, o anche semplicemente in una dimensione elettrica.
Le canzoni ci sono, dirette, ironiche e atipiche, la personalità non manca di certo a Truppi, ma riproporre nel contesto del TOdays un repertorio "Solopiano", come suggerisce il titolo della sua ultima avventura discografica, rappresenta un'occasione mancata per lasciare il segno o quanto meno per incuriosire maggiormente un pubblico eterogeneo e decisamente esterofilo.
La star della serata si presenta in perfetto orario sul palco di Spazio211, accompagnata da un super-gruppo di nove elementi che da solo basterebbe a garantire a priori un'esibizione fuori dall'ordinario: Mick Harvey e James Johnston, "rubati" a Nick Cave, il compagno di vecchia data John Parish e un paio di presenze italiane, Alessandro Stefana ed Enrico Gabrielli. Polly Jean Harvey al centro, gambe secche, piume nere sulle spalle, sax in mano; elegante e maestosa nei suoi 162 cm di altezza, regina di un tramonto destinato a restare a lungo impresso nella memoria dei presenti.
"Chain Of Keys" e la sua andatura marziale è il perfetto inizio per immergersi nei suoni dell'ultimo “The Hope Six Demolition Project”, la successiva "The Ministry Of Defense" è la conferma delle capacità vocali di un'artista che non dimostra la propria età. Il recente percorso artistico - “Let England Shake”, oltre all'ultimo già citato lavoro in studio - evidenzia una maturità che giustifica oggi più che mai l'appellativo di “poetessa”, senza con questo voler scomodare paragoni con Patti Smith, troppo spesso accostata alla Harvey da certo "giornalismo pigro". A sorprendere è la perfezione di un live che supera per intensità i lavori in studio e la capacità di arrivare a un pubblico che non può cogliere con facilità la profondità di quei diari di viaggio tra impegno politico e sociale. Certo, molti fan della prima avranno aggrottato le ciglia di fronte al pop leggero e colorato di “The Community Of Hope" o al sample dissonante del reggimento delle Irish Guards contenuto in "The Glorious Land", ma basta una "Shame" per ritornare all'urgenza a tinte scure di una dozzina d’anni fa.
Si procede con una doppietta rimaneggiata da “White Chalk”, la fragile "Dear Darkness" e la stessa title track, vetta emotiva di 70 minuti che scorrono velocemente, tra i fiati di "The Wheel" e l'attesissima "Down By The Water". La chiusura è corale, con quel “God's gonna trouble the water” da "River Anacostia". Impossibile trovare falle in uno show ricco di fiati e percussioni, sempre dosati con perfetto equilibrio, e a una voce che cattura e conquista una platea ben conscia di aver assistito a un'esibizione quasi teatrale: il saluto finale, appunto, è l'inchino di dieci splendidi musicisti che con elegante compostezza lasciano lo stage sotto lo scroscio di meritatissimi applausi.
In questa prima serata resta solo il tanto chiacchierato Mac DeMarco, e suonare dopo la Harvey è compito non certo facile, con il pubblico, già completamente appagato, che si divide tra detrattori che svuotano anticipatamente il prato e curiosi che si fanno strada verso le transenne. Gli abiti neri di PJ e soci vengono sostituiti dalle t-shirt bianche della slacker band. Le canzoni sono quelle giuste, affrontate con una perpetua sigaretta in bocca; i suoni convincono solo in parte: tonnellate di chorus e Korg retrò non sono sufficienti a scaldare gli animi.
Pare che ci si diverta più sul palco che sotto, e se è assolutamente apprezzabile la capacità del songwriter dell'Alberta di godersi il momento anche dopo il live della vera headliner, è chiaro che la flemma lo-fi e i sorrisoni non sopperiscono alla mancanza di fuzz e mordente. Mac DeMarco avrà anche un cuore punk, ma suona come una band da matrimonio alle prime armi, alla quale hanno regalato la strumentazione dei War On Drugs: alcuni pezzi funzionano meglio di altri, ma la sensazione di starsi a bere una birra con la brillante colonna sonora di un film soft-porn è abbastanza diffusa.
Day 2
La seconda giornata sul main stage di Spazio211 parte in ritardo a causa della defezione all'ultimo minuto di Wrongonyou. Tocca quindi a Giorgio Poi allietare i primi arrivati con una manciata di canzoni da uno degli esordi più acclamati di questa stagione. Il timbro è inconfondibile - non per tutte le orecchie, data la particolarità della proposta - e la voce potente, supportata da una sezione ritmica che non concede un attimo di pausa, facendo battere i piedi e mostrando capacità tecniche superiori alla media senza risultare pretenziosa.
Volendo incasellare Giorgio Poi all'interno della nuova grande ondata di psichedelia leggera che ha conquistato mezzo mondo (il passato con Cairobi ne è la prova ancora più evidente) e che vede il buon DeMarco come uno degli esponenti più rispettabili, si può tranquillamente ammettere che dal vivo il ragazzo non abbia nulla da invidiare allo zio canadese, anzi. Il set si dimostra ben più energico e compatto, con svisate strumentali godibili e ringraziamenti emozionati e sinceri.
L'area concerto si popola con l’arrivo di Perfume Genius, all'anagrafe Mike Hadreas, statunitense di origini greche accasatosi con la Matador e giunto al quarto lavoro in studio. Sebbene non sia la sua prima volta a Torino, Perfume Genius è la più grande scommessa di questo TOdays: un artista acclamato dalla stampa internazionale, ma un nome non così semplice da proporre al grande pubblico. Il wall of sound sintetico incuriosisce, il pubblico segue con lo sguardo i sinuosi movimenti del frontman da una parte all'altra del palco. Formalmente il concerto è impeccabile, l'alternarsi della pacatezza sognante a momenti più densi di battiti e contrappunti valorizza le canzoni dell'ultimo "No Shape".
Un'esperienza "magica" per molti, non certo rovinata da un momento di tensione generato da uno sciocco attacco verbale omofobo (per chi scrive, un caso isolato e non collettivo come ha fatto intendere la stampa dei grandi quotidiani). La parola "tensione" è stata pronunciata più volte (nella sua accezione positiva) dall'organizzatore Gianluca Gozzi: una tensione emotiva necessaria per affrontare un festival capace di proporre mostri sacri del rock affiancati a novità di indubbia qualità, scelte con cura, lasciando da parte qualsiasi discorso legato alle mode del momento. La strumentalizzazione mediatica degli insulti di un singolo spettatore può rischiare di mettere in ombra l'intera manifestazione e scatenare un polverone abbastanza inutile, considerando che in realtà il pubblico in queste giornate di musica si è dimostrato curioso e partecipe.
La delegazione di fan del britpop inizia a scalpitare: dopo la chiusura di Perfume Genius con la meravigliosa "Slip Away" è il momento di Richard Ashcroft. La buona riuscita del suo live è semplice: basta una dignitosissima rock band a coprirgli le spalle e un buon numero di pezzi storici in scaletta per fare felici tutti. L'ex-Verve è più ossuto che mai, capelli corti e occhiali da sole. Il muscoloso (e poco rilevante) singolo "Out Of My Body", con suoni che fanno temere il peggio, è subito seguito da "Sonnet" per un sospiro di sollievo collettivo e il singalong sul finale dilatato. Ashcroft alterna chitarra acustica ed elettrica e costringe i suoi musicisti ad allungare tutte le canzoni in interminabili code finali, sfruttate a dovere per emozionare con reprise o messaggi di pace, amore e amicizia in un inglese strettissimo. Alla lunga questo tergiversare stanca, ma il carisma c'è tutto, così come un paio di momenti - con le chitarre protagoniste - che fanno credere di essere veramente tornati nel bel mezzo degli anni 90.
La macchina del tempo vola in alto con "Lucky Man" e in un attimo si arriva ai bis, con "The Drugs Don't Work", chitarra acustica e voce, che si conclude in un'esplosione elettrica telefonata, ma soddisfacente. Il gran finale è ormai scontato: la base con i violini, gli smartphone alzati al cielo per premere il tasto “rec” e il pensiero di quelle appaganti spallate da marciapiede. Le note di “Bittersweet Symphony” chiudono la seconda giornata di concerti sul palco principale, ma la musica continua al Parco Peccei con la dubstep industriale di Roly Porter, uno dei più riusciti e apprezzati appuntamenti paralleli di questa edizione, in collaborazione con il festival Ambienti Sonori.
Day 3
L'opening della terza giornata è un fiore all'occhiello tutto torinese: Andrea Laszlo De Simone (già batterista dei Nadar Solo) e la sua band mettono in piedi uno show esplosivo sotto il sole cocente delle 18.30, quando cominciano ad arrivare i coraggiosi partecipanti del live pomeridiano "bagnato" di Pop X svolto all'interno della piscina all'aperto del Parco Sempione.
L'estetica e il sound sono 100% anni 60/70, forse ancor più rispetto al recentissimo "Uomo, Donna". Battisti è il nome di riferimento, ma non solo: in questi lunghi brani c'è l'essenza di un rock analogico dimenticato da tempo. La continua ripresa del ritornello di "Vieni a salvarmi" potrebbe durare in eterno senza annoiare, mentre sul palco si fuma una sigaretta dopo l'altra con le camicie sbottonate intrise di sudore. De Simone è un animale da palcoscenico e il suo look anacronistico è senz’altro genuino. A tempo scaduto, Andrea continuerà da solo il concerto nell'area riservata ai fotografi.
Anche i Gomma se la cavano bene: da Caserta finalmente a Torino dopo mesi di concerti in tutto lo stivale, con un piccolo disco amato nel circuito indipendente e tanto spleen generazionale. Iniziano a suonare con una certa tensione sul fade out di "Loser" di Beck, tradendo da subito un'urgenza emotiva indispensabile per un progetto del genere. Tutto si regge sulle reminiscenze anni 90 di un chitarrismo in bilico tra arpeggi e fughe in velocità e, ovviamente, sulla voce sopra le righe della giovane Ilaria.
Una voce che divide in due gli ascoltatori, difficile negarlo: mal sopportare a priori il declamato o le urla scomposte è legittimo, ma considerarla come uno strumento (probabilmente in evoluzione) e lasciarsi guidare dalle parole può essere un modo per aggirare il problema e gustarsi le scorrazzate punk di questi quattro emo-kids. Tra i veloci brani di “Toska” c'è anche spazio per la cover di "Someone To Lose" dei Wilco e della languida “Elefanti”, singolo ben confezionato e validissimo anche dal vivo.
I canadesi Timber Timbre, in attività dal 2005, sono i primi big internazionali della serata. Attrezzano il palco con le proprie luci e negano qualsiasi foto agli addetti ai lavori. Il mood è quello dark e nervoso dell'ultimo lavoro, che si affranca decisamente dal folk più mite degli esordi. I droni della title track "Sincerely, Future Pollution" sono l'incipit di un set avvolgente e suonato con una precisione e una cura per i dettagli alla quale le formazioni indie canadesi ci hanno abituati da tempo. La notturna e drammatica "Sewer Blues" precede la più dolce "Velvet Gloves & Split", un tappeto sonoro sul quale si staglia la voce calda e avvolgente di Taylor Kirk. Si passa poi al lento incedere della più classica "Hot Dreams", sempre suonata dando il giusto rilievo agli accenti, prima che un sax catartico prenda il sopravvento.
La sensazione è che i Timber Timbre siano dei perfezionisti maniacali (e probabilmente delle persone noiose) che agiscono per sottrazione. Riducendo all'osso gli elementi necessari per far funzionare le proprie canzoni, infatti, sono riusciti a raggiungere quell'equilibrio, difficilmente ripetibile, che consentirebbe loro di suonare allo stesso modo tanto in uno scantinato di Toronto quanto in uno stadio. I rimandi carpenteriani di "Bleu Nuit" ci portano verso la fine, il crescendo di "Troubles Come Knocking" dal loro disco d'esordio.
I più attesi in questa calda domenica d'agosto sono però gli Shins, che si presentano per la prima volta su un palco italiano con un adeguato senso di colpa che si tramuta immediatamente in gioia dei fan di vecchia data: attaccano con "Caring Is Creepy", visibilmente emozionati anche loro, e infilano uno dopo l'altro tutti i primi successi. Il pubblico risponde bene, batte le mani e canta con Mercer e soci "Saint Simon", "Kissing The Lipless" e altri brani ripescati da "Chutes Too Narrow" e dal primo "Oh, Inverted World" . Gli Shins, sia chiaro, non sono perfetti: alle prese con un repertorio vecchio più di dieci anni, si mostrano qua e là arrugginiti, ma James Mercer è una forza della natura, suona con l'entusiasmo di un ventenne e scherza tra una canzone e l'altra. Sono tutti comprensibilmente più a loro agio con i brani dell'ultimo "Heartworms" ("Painting A Hole" e la splendida "Name For You"), ma evitano di fare il compitino, tornano a rimaneggiare una "Gone For Good" per poi temporeggiare con la colonna sonora di “Knight Rider” (da noi “Supercar”), uno stacchetto spiritoso che strappa un sorriso in più.
Qualcuno li ha paragonati a Beatles e Beach Boys, di sicuro la spiccata sensibilità melodica ha fatto di loro una delle band americane più rilevanti degli ultimi anni. Sono orchestrali ed elaborati, ma sempre immediati e mai pretenziosi: riscoprirli così, come vecchi compagni di viaggio ancora in piena forma e per giunta divertenti (e divertiti) è un vero piacere. Altri tre motivi per cui è difficile non amarli: una "Simple Song" davvero di grande impatto, la cover a sorpresa di “American Girl” e quella che Mercer stesso ammette essere our single, I guess: "New Slang". This song will change your life, diceva la Natalie Portman di “Garden State”; qui a Torino ha sicuramente fatto scendere più di una lacrimuccia.
Dal New Mexico ci si sposta a Seattle per i Band Of Horses, storica formazione americana che una decina di anni fa, con "Everything All The Time", riscosse un discreto successo. Ben Bridwell e compagni continuano da allora a cavalcare l'onda tra cambi di formazione, singoli di successo e dischi meno fortunati, sempre all'insegna del rock alternativo a stelle e strisce. L'inconfondibile timbro rassicurante del frontman, che trova spazio tra le schitarrate iniziali di "The First Song", è una garanzia. Pare chiaro che la band abbia voglia di suonare forte, ma quel che ne risente è l'assenza dell'ariosità di certe atmosfere più dilatate e sognanti.
Sono belli da vedere, con le loro barbe, i capelli lunghi e l'immagine di una foresta imponente alle loro spalle. La grinta non manca, ma molti brani suonano didascalici e senza una vera vitalità. Non è ben chiaro cosa possa conquistare un pubblico ora più ridotto, se i pezzi dal tiro punk o le classicissime ballatone country: con le prime non premono abbastanza sull'acceleratore, con le seconde si attestano su un livello di scrittura e arrangiamento troppo poco personale. Forse il problema sono proprio le canzoni, perché negli ultimi dieci minuti l'accoppiata "Is There A Ghost"/"Funeral" fa tornare la voglia di battere i piedi e scuotere la testa, appena prima che il prato si svuoti definitivamente.
La terza serata è risultata la più riuscita, eccezion fatta per l’indimenticabile show di PJ Harvey della prima giornata, ma l’intero TOdays Festival si conferma un appuntamento di richiamo indispensabile per la città di Torino, forte di un'organizzazione impeccabile e di un cartellone ricco e vario, che mira alla qualità internazionale più che al trend locale. Trovata la formula vincente, non ci resta che aspettare i primi nomi dell’edizione 2018…