Ci si era capito gran poco, dei Bloc Party, ai tempi del loro album di esordio. Era il 2005, e da un po’ si faceva un gran parlare di “ritorno del rock”. Diciamo dal 2002-2003. Come se prima di quel momento Queens Of The Stones Age e Muse, System Of A Down o At The Drive-In avessero suonato che so, mazurke. Comunque sia, la cornice era quella e a quello si tendeva a ricondurre un po’ tutto, senza neanche andar troppo per il sottile e distinguere sempre fra scapestrati garage-rocker e nuovi virgulti wave. Vines e White Stripes, Hives e Libertines, Strokes e Yeah Yeah Yeahs erano celebrati come alfieri di un nuovo suono improntato sì al revival, ma dotato di una grinta giovanile che lo destinava a svettare sui rimasugli del grunge, sui patemi post-britpop e (in una visione senz’altro irrealistica del mercato musicale) anche su tutto il resto che il panorama pop avesse da proporre.
Quando dunque i quattro londinesi iniziarono a dare alle stampe i primi dischi (l’Ep “Bloc Party” nel 2004 e una manciata abbondante di singoli, in buona parte poi confluiti nel primo Lp), parve naturale inserirli insieme agli altri nel cestone nu wave. Con entusiasmo (il New Musical Express li pose in cima alle sue preferenze del 2005) o con un certo sussiego – che si dessero una mossa, dopotutto: gente come Strokes e Franz Ferdinand, per non dire di Interpol, Kills o Rapture, era ormai in giro da un tot, e la coolness insita nel riprendere i suoni del post-punk che fu iniziava a risultare un po’ sbiadita.
Furono accolti così, Kele Okereke, Matt Tong, Russell Lissack e Gordon Moakes, da quel mix di popolarità e snobismo che spettò anche ad altri late-comer poi rimasti impressi come simbolo del loro genere – Genesis e Talk Talk, Blink-182, Linkin Park. Nel loro caso, le analisi furono particolarmente pressapochistiche. Il Guardian li trattò come dei Franz Ferdinand meno sexy e meno funk (“ma con un’influenza dei primi Cure”), l’Independent affermò che l’album “avrebbe potuto essere registrato nel 1985” (paragonandolo al contempo all’emo dei Thursday). Più allineato all’hype attorno alla band, Mojo accostò il sound a Joy Division e Killing Joke e riconobbe il carattere “notevole – ancorché imperfetto” dell’album. Un po’ meglio se la cavarono Pitchfork (“ascoltare i Police o gli Xtc a inizio anni Ottanta avrebbe potuto essere così”) e l’Nme, con riferimenti eclettici ma quasi preveggenti a Prince, Kate Bush e ai Manic Street Preachers di “The Holy Bible”. Il commento più a fuoco, quantomeno col senno di poi, fu forse quello di Stylus, che chiamava in causa i Buzzcocks e i Radiohead, i Long Fin Killie e i New Order, i Disco Inferno (“prima che trovassero un campionatore”), i Gang Of Four.
Purtroppo, di questo inquadramento passò giusto “Gang Of Four”, e a lungo le impressioni sulla band da parte dei cultori nu wave coprirono la ristretta gamma fra “ottimi cloni” e “scialbi cloni” dei paladini del punk-funk. Non che l’accostamento non fosse pertinente – d’altra parte, con buona pace del Guardian, i Bloc Party erano senz’altro i più ritmicamente avventurosi della scena a cui furono collegati – ma la prospettiva del puro revivalismo era senz’altro limitante. Effettivamente, visti come frizzanti reinscenatori del vibe early Thatcher, non erano davvero niente di che. Il punto è che erano oltre.
Qualcuno, fra i fan, se ne accorse. Chissà, però, se ne comprese le ragioni. A guardarlo oggi in prospettiva – difficile crederlo, ma sono passati diciott’anni! – è più facile scorgere i segnali di ciò che quel che ne nascerà, e l’unicità che darà le basi a Vibe Music per definire in uno sponsored content “Silent Alarm” “l’album più importante della sua generazione”.
Geometria e grandeur
Ad aprire “Like Eating Glass” e l’intero disco è un loop lancinante della chitarra di Russell Lissack, a cui strato dopo strato si aggiungono: chitarra in tremolo, piatti (sempre più aperti), cassa e rullante. Quando finalmente entra in gioco anche il riff principale della chitarra del frontman Kele Okereke, il sound è ormai mutato da scheletrico a larger than life. Altro che Joy Division e compagnia tardo-Seventies: non è trascorso nemmeno un minuto, e qua siamo già agli U2 e ai Simple Minds. Ma la costruzione procede. Ecco la voce di Okereke, urgente, avvolgente. E il basso di Gordon Moakes, che attende la seconda strofa (per inciso: totalmente differente dalla prima!) per arrampicarsi su una linea che è a tutti gli effetti una seconda melodia e un secondo ritmo, incastrata a metà strada fra il cantato e i beat spezzati di Matt Tong. Ritorna il tema iniziale, la batteria comincia a cercare evoluzioni e apre a uno stacco centrifugo – triplo colpo coordinato basso-batteria e tutto si risincronizza. Una macchina. Un puzzle. Sul ritornello (ammesso che sia corretto chiamarlo così) il ritmo si fa più quadrato, e al tempo stesso il suono più espanso: è il momento di liberare la tensione accumulata, per sprigionarla nelle battute strumentali e ricondensarla infine nella coda quasi esclusivamente chitarra-voce. Non la si chiama suite solo perché dura quattro minuti e poco.
“Helicopter”, il primo singolo a entrare nella top 30 britannica, a novembre 2004, è ancora più spinta in fatto di incastri e concitazione. Una raffica di stop’n’go che balza dall’indie-rock più ispido alle sezioni in levare giusto a un passo dai Madness. E, ancora una volta, chiude su una cattedrale di effetti e sovrapposizioni chitarristiche che, più che a ogni legittimo paragone ottantiano, fa pensare agli Explosions In The Sky e alla loro scuola soft/loud.
Ma spigoli e stratificazioni sono la quintessenza geometrica dell’intero disco. Emergono irresistibili nei botta-e-risposta di “Banquet” (disco di platino nel Regno Unito e pezzo più ascoltato della band sulle principali piattaforme di streaming) e prendono il sopravvento nel crescendo impetuoso di “She’s Hearing Voices”, esplodendo in un assolo zigzagante e incendiario. Incalzano in “Price Of Gasoline” sommando handclap, basso percussivo, pugnalate di chitarra ritmica e figure batteristiche costantemente ahead of the beat.
Forti di un incontenibile impulso dance, e di una maestria negli scatti che farebbe invidia a fior fior di musicisti math, i Bloc Party danno vita a una formula inedita e ricombinante, che afferra l’ossessione neworderiana per i beat folgoranti e le costruzioni strato-su-strato, la ibrida al piglio decostruzionista degli Xtc di “Making Plans For Nigel” e ne fa la base per nuove e inaspettate possibilità guitar-rock.
La critica tardò a rendersene conto, ma il sottobosco musicale britannico fu più rapido a cogliere l’intuizione. Di lì a poco, il panorama si sarebbe popolato di formazioni il cui quid risiedeva in un inafferrabile indie/dance/punk dal taglio progressivo. Gli esordi di Foals, These New Puritans, ma anche il math danzereccio dei ¡Forward, Russia! e degli irlandesi Bats, o quello decisamente poppizzato dei fantasiosi Hot Club De Paris e dei più ruvidi Tubelord. Parallelamente, testate come l’Nme iniziarono a spingere il caleidoscopico nu rave di Klaxons e Late Of The Pier, la cui discendenza dai Bloc Party era ben riscontrabile anche da prima che band come Delphic, Friendly Fires e gli australiani Cut Copy palesassero la connessione. Al volgere del decennio, questi stili sarebbero confluiti nella proposta dirompente degli Everything Everything – e a quel punto, pochi avrebbero potuto negare la nascita di una nuova declinazione del pop progressivo (oggi volendo c’è un'espressione apposita: jigsaw-pop). Ma a saperli scorgere, i semi erano già tutti in “Silent Alarm”. E a ben vedere pure qualcosa di più che i semplici semi.
"Per ballare, e per pensare"
Alcune delle celebrazioni postume dell’album hanno tuttavia a che fare con un altro elemento, più poetico, più generazionale. “'Silent Alarm' è uno degli album più profondamente stratificati e ponderati della sua epoca”, osserva lo sponsored content di Vibe Music, rimarcando l’eccezionalità rispetto alla gran parte dei contemporanei nu waver e garage-rocker. La recensione di The Interns per il decennale del disco argomenta: “'Silent Alarm' trattava temi come la privazione del sonno, la consunzione e l’amore. Non è mai dispregiativo, né si vanta di comportamenti negativi. Non sentirete nulla che richiederebbe di essere gridato in un megafono; al contrario, tutto è delicatamente sottile. Okereke è gay, ma l’amore è trattato soltanto come amore. Nessuno dei testi confina le questioni a uno specifico tipo di persone”.
“She’s Hearing Voices” ritrae in maniera distaccata i comportamenti di una persona affetta da schizofrenia paranoide, astenendosi dal giudizio (ma citando l’Hemingway di “Per chi suona la campana” nel verso “Did the earth, did the earth not move?”), ma balzando in soggettiva per il finale: “I'm walking on eggshells/ Walking on glass/ Burnt by the mirror, burnt by the light/ Feeling rejection, I'll burn down your house/ Tearing down posters, I was never, never alive”. “Positive Tension” mette invece al centro la noia esistenziale, il desiderio di sfuggirne attraverso qualcosa di indimenticabile, e la frustrazione che l’occasione per farlo non arrivi mai: “Things replace things/ Days replace days/ Things replace things […] Run, run, run, run, run, run/ Something glorious is about to happen […] Why'd you have to get so hysterical? / Why'd you have to get so fucking useless?”.
Altre canzoni, come “The Pioneers” e “So Here We Are”, esplorano sensazioni più positive, ma sempre con un retrogusto amaro. La prima suona come un inno ottimistico alla possibilità di risolvere ogni situazione problematica (“If it can be broken then it can be fixed/ If it can be fused then it can be split […] All you need is time, all you need is time”) ma chiarisce nel ritornello la sua disillusione (“We promised the world we'd tame it/ What were we hoping for?”), la seconda cela sotto immagini positive il racconto dell’esaurimento degli effetti dell’ecstasy, e lo svanire con il “ritorno nel mondo” dell’ingannevole senso di illuminazione (“I caught a glimpse/ But it's been forgotten/ So here we are, again”).
Autore di tutti i testi, Okereke spiegò a Pitchfork nel 2005: “Credo che il punto centrale dell’album sia tutto riguardo ai teenager. […] Una cosa che ho sperimentato in prima persona è stata l’egoismo adolescenziale occidentale. Nell’Occidente, sei portato a credere che sei il centro dell’universo. […] Non c’è niente in cui credere, quando sei un teenager”. Fra i suoi modelli di scrittura c’erano Thom Yorke e Björk, ma negli anni passati al King’s College di Londra a studiare letteratura inglese il cantante aveva sviluppato una passione per la poetessa Anne Sexton e altri esponenti della “poesia confessionale” statunitense degli anni Cinquanta-Sessanta – una delle prime forme di postmodernismo letterario, incentrata sulla connessione fra esperienza individuale e temi sociali di più ampio raggio, vista in un’ottica di libertà interpretativa e mai di legami assoluti. Analizzando il testo di “Like Eating Glass” per un articolo del Guardian, il docente di letteratura inglese contemporanea John Sutherland dell’University College of London osservò: “Somiglia davvero a Sylvia Plath [un’altra esponente della ‘poesia confessionale’, ndr], mi colpisce che chiunque abbia scritto queste parole debba aver letto qualche suo lavoro. Ha lo stesso genere di immagini sorprendenti e spezzate. Potrebbe tranquillamente essere incluso in un’antologia di poesia”.
Diverse canzoni dell’album sono state interpretate in chiave politica, e Okereke non negò che le canzoni “operassero nell’ambito della politica culturale”. Ma prese le distanze dalle interpretazioni forzate e riduzioniste: “Che ‘Helicopter’ riguardi George Bush Jr. è un equivoco comune, ma abbastanza paternalistico”, illustrò a Pitchfork, aggiungendo anche: “In ‘The Price Of Gas’ [sic] cerco di dare uno sguardo alla vita delle persone. Deve esserci di più del semplice dire: ‘Non votate Bush’. Lasciamo spazio alle persone perché possano trarre le proprie conclusioni”.
Personalità in Technicolor
Nonostante le molte connessioni musicali e letterarie – o forse proprio grazie a quelle! – “Silent Alarm” ha una voce che è soltanto sua. La si sente in tutte le sue sfumature soprattutto nelle tracce dalla maggiore gamma di intensità. “So Here We Are”, “Blue Light” e “This Modern Love” sperimentano atmosfere dolci e luminose, pur esplorando contrasti lirici significativi (la fine di un amore e la riscoperta della propria intimità in “Blue Light”, un ardito parallelismo fra prostituzione e inizio di una relazione in “This Modern Love”). Tutti e tre i brani allestiscono una dinamica in crescendo, pescando dal bagaglio espressivo dei Mogwai senza tuttavia cadere nei cliché. “This Modern Love” dà movimento al ritornello alternando sequenze da quattro battute a sequenze “interrotte” da tre, mentre “Blue Light” accosta una riuscita “fase calante” al climax ascendente che raggiunge il picco nel bridge. La conclusiva “Compliments”, su toni più ombrosi, combina invece elettronica e post-rock per dar vita a un’apatia prossima ad alcune “untitled” di “()” dei Sigur Rós, e la sfrutta per rimuginare sullo scorrere piegante della routine (“So right, so clued-up, we just get old/ And all the while, been torn asunder/ Nicotine and bacteria”).
All’altro estremo dello spettro emotivo, “Luno” e “The Pioneers” esplorano le gradazioni dell’epico, la prima con synth torvi e un assolo fulminante al centro della canzone, e la seconda mettendo a frutto il potenziale dei backing vocals e l’inesauribile inventiva di Matt Tong nell’escogitare beat da chiodo fisso. L’intero arco di possibilità espressive della band si dispiega in “Plans”, in cui Okereke abbandona la sua deliberata astinenza dal giudizio per un’esplicita esortazione all’azione, benedetta dalla scelta coraggiosa di un finale con doppio assolo sovrapposto suo e di Lissack. “Wake up, dreamer/ Stop being so laissez-faire/ We're all scared of the future/ It's happening without you […] We make plans for big times/ Get bogged down, distracted […] So kiss me before/ It all gets complicated”.
Qui come un po’ ovunque nel disco – nonché nei non-album singles inclusi nella riedizione di ottobre 2005, “Little Thoughts” e “Two More Years” – il contributo in cabina di regia del produttore Paul Epworth si mostra fondamentale. Ascoltando i live della band precedenti all’uscita del disco, balza immediatamente all’attenzione quanto gli stessi brani poi incisi su disco suonassero più irruenti e privi di respiro. Allora alle prime esperienze produttive dopo circa un decennio come ingegnere del suono e tecnico del missaggio, Epworth intuì la necessità di creare profondità attorno agli strumenti ed escogitò il metodo più efficace per ottenerlo. Rallentamento, innanzitutto. Poi pulizia sonora, ma echi e riverberi – e uno stuolo di microfoni per aumentare la spazialità del suono. La massima cura fu destinata alla batteria, e il suono incredibilmente poderoso e presente di Matt Tong è effettivamente un nuovo standard di fragorosità per lo strumento, quasi un aggiornamento del gated drum stile Phil Collins onnipresente una ventina di anni prima. Okereke definì “Technicolor” il sound finale del disco, dirompente ma anche cristallino, e riconobbe il valore delle scelte del produttore. Questo nonostante qualche attrito in fase di registrazione, specialmente riguardo all’inserimento del mandolino in “This Modern Love” (“Nessuno nella band lo voleva. […] Ci fu questa sorta di standoff in cui insistevamo che ‘No, non lo vogliamo’. Non ricordo come risolvemmo ma alla fine il mandolino fu messo e andava davvero bene così”).
“Silent Alarm” fu incasellato come album wave ma produttivamente, liricamente, costruttivamente era altrove. Fra le sue tracce scorrono tanti Radiohead quanti Television, e ben più math, post-rock, shoegaze di quanto se ne riconobbe all’epoca. D’altra parte, lo sguardo della band era solo in parte orientato al rock e ai suoi mostri sacri. A proposito di un’eventuale collaborazione con Liam Gallagher, Okereke affermò: “No, è una delle ultime persone con cui vorremmo lavorare. Ci siamo formati in reazione a band come gli Oasis. Sono stati un’influenza su di noi ma nel renderci consapevoli di che cosa non volevamo fare”. E ancora: “Ho un vero problema con la musica rock […] Quando cresci, ti viene detto che il rock’n’roll è l’unico modo autentico per esprimere te stesso. Strumenti dal vivo, cantante, batteria live. Ti dicono che è la via migliore per comunicare […] Vorrei davvero proporre i Bloc Party come una band postmoderna. […] C’è troppo rock che si basa sul feticismo e la nostalgia dei vecchi tempi. Si tratta di un atteggiamento nemico della musica. Bisogna sempre guardare avanti”.
Molti osserveranno, non senza ragioni, che gli Lp successivi dei Bloc Party, tolto giusto il secondo “A Weekend In The City” di due anni dopo, non abbiano dato seguito alle aspettative generate dall’album di debutto. Già l’album di remix “Silent Alarm Remixed”, senz’altro in linea con l’idea di “avanzamento” profetizzata da Okereke, risultava poco entusiasmante, nonostante i tanti e solidi nomi coinvolti. “Silent Alarm” resta dunque un unicum, ma non solo nella discografia della band. Uscito al culmine della foga nu wave, è forse l’ultimo grande album di una specie e il primo di una nuova. E, potenzialmente, il migliore di entrambe.
31/12/2023