KAROSHI - Cosmic Latte (Seahorse, 2019)
alt-rock, indietronica, electro
"Cosmic Latte" è un disco dalle numerose sfaccettature. Il primo termine di paragone è senz'altro altisonante, quasi scomodo, quello con i Radiohead, influenza identificabile in maniera netta sin dallo svolgimento dell'iniziale "Golden Hour" e ancor più della successiva "Alone Together" quasi sovrapponibile alle atmosfere di "Myxomatosis" (da "Hail To The Thief", per i meno esperti di Thom Yorke e soci). Ma stupisce anche la prossimità di "I'm Awake" al Bon Iver che ci piacerebbe ascoltare più spesso, quello meno soporifero, e alle derive electro proposte dalle due sezioni di "Taiga", dentro le quali si riscontrano notevoli affinità con i suoni tanto cari a Trentemoller. C'è molta carne al fuoco nelle dieci tracce di "Cosmic Latte", e tutta molto ben calibrata. Un secondo capitolo che dimostra una volta di più la ferma intenzione da parte della formazione vicentina di comporre ottima musica in grado di volare al di là di qualsiasi confine stilistico. Unendo radici alt-rock, attitudine indie e propensioni electro (Claudio Lancia, 7/10)
JENA LU - Le dita nelle costole (I Dischi Del Minollo, 2019)
songwriter
Il progetto solista Jena Lu nasce dall'idea del cantante e chitarrista di Teramo Mirko Lucidoni dopo aver realizzato di avere un impatto artistico maggiore in modalità acustica. "Le dita nelle costole" è infatti un album estremamente intimo, ma allo stesso tempo dannatamente nichilista, eppure tutt'altro che scarno sul piano produttivo, con una cura maniacale delle basi ritmiche, delle poche note al piano e delle sfumature da contorno. "E fermerai il tuo tempo e niente finirà", canta Lucidoni in "Barad-dûr", ad aprire le danze di quello che si potrebbe definire come un concept sulla sofferenza interiore. "E pensare che ieri volevo farla finita, ma poi ti ho baciata, sei più calda del fuoco. Non mi sazio mai di te, e non so perché non mi sazio di te": è il cuore caldo de "La sera", mentre un crescendo pianistico possiede lemme lemme l'anima afflitta del musicista, con refrain tanto doloroso quanto epico. C'è anche l'amico Edda nell'unico brano non scritto da Lucidoni, "Spaziale", ballad lunare sul tempo e l'amore, con la voce di Lucidoni afflitta e parimenti raggiante. Tra cieli neri e virtù da decantare, il cantautore avanza imperterrito nel proprio amplesso con il dolore e i richiami del cuore. Si susseguono qui e là scomode verità trattate con opportuna semplicità e un'ottima capacità di scrittura, tra melodie a tratti avvolgenti e sentite bordate ("Chiara Ferragni non allatta ma mi allatta, mentre la penso mi disturbo con fatica", da "Tutto è bello"), il tutto sorretto da una verve interpretativa densa di imprecazioni e squarci canori. Un esordio da scoprire. (Giuliano Delli Paoli, 7/10)
ZAC - Zac (Damaged Goods, 2019)
quirky pop
Lorenzo Moretti (Giuda) alla chitarra, Tiziano Tarli (The Family, Gli Illuminati, Sweepers) alle tastiere, Emanuele Sterbini (Sterbus, No Spoiler, Gli Illuminati) al basso e Pablo Tarli (figlio di Tiziano) alla batteria: insieme sono gli Zac, coloratissimo quartetto dal cuore pulsante di Torpignattara. Un supergruppo, insomma, come quelli che andavano forte negli anni d'oro del rock. E i riferimenti del loro "quirky pop", manco a dirlo, sono ben centrati a cavallo tra 60 e 70: carica power pop, ribalderia pub rock, candore beat e una corroborante spruzzata di glam, il tutto con un'irresistibile nostalgia da "schoolyard days". Sapida e birbante, la scaletta corre all'impazzata tra scintille Joe Jackson-iane ("Not Anymore"), capricci alla Sparks ("What If You Don't"), caricature AOR ("Wild Love"), il melodismo "duro" dei Cheap Trick ("Count On Me") e quello più gommoso dei Jellyfish ("Stay Up All Night"). Se "When You Go To Bed" gioca l'asso psichedelico, "Girl On The Train" è la ballatona che non ti aspetti, mentre il singolo "I Got Something In My Mind" non si fa scrupoli a tirare in ballo "Be My Baby" e "Getting Better". Esecuzioni tirate il giusto, caldi intrecci vocali e fragrante produzione analogica curata dallo stesso Moretti insieme a Danilo Silvestri, collaboratore abituale dei Giuda. Smercia la londinese Damaged Goods. Sfrontato, frizzante, contagioso (Ossydiana Speri, 7/10)
I QUARTIERI - ASAP (42, 2019)
it-pop, indie-rock, songwriter
Ben sei anni per dare un seguito all'apprezzato "Zeno": i motivi ci sono tutti per scherzarci su e intitolare "ASAP" il secondo album del trio romano formato da Fabio Grande (nel frattempo produttore per Maria Antonietta, Colombre e tanti altri), Paolo Testa e Marco Santoro. Nel menù di "ASAP" si scorgono agilmente malinconie battistiane e influenze della scuola romana (in primis qualcosa che ci riporta a Riccardo Sinigallia), ma determinanti rifrazioni arrivano anche da oltre confine, grazie agli ascolti ripetuti di Radiohead (occhio ad esempio all'incipit di "Vivo di notte") e Grizzly Bear. "ASAP" esce marchiato 42 Records, inequivocabile certificazione di qualità per una band che si era nel frattempo messa in mostra anche per un paio di tracce finite nella colonna sonora della serie televisiva "Suburra". Un ritorno convincente per I Quartieri, una formazione che se non si fosse eclissata per così tanto tempo, sarebbe oggi ritenuta con molta probabilità fra i portabandiera della scena it-pop contemporanea. Ma a pensarci bene, forse è stato meglio svincolarsene. Saranno magari meno famosi di tanti colleghi, ma ora possono puntare a slanciarsi oltre uno scomodo steccato (Claudio Lancia, 7/10)
ALICE TAMBOURINE LOVER - Down Below (Go Down, 2019)
psych-folk, alt-rock
Tra pigri abbandoni neo-Paisley stile Mazzy Star/Cowboy Junkies e più ispide carezze in odor di Mark Lanegan, il ritorno del duo bolognese a quattro anni da "Like A Rose" conferma una formula ormai collaudata, arricchita da una maggiore enfasi sulla componente psichedelica, pur preservandone l'asciuttezza folkeggiante. Meno spiritata rispetto al passato, anzi più propensa a una sognante dolcezza, la voce di Alice Albertazzi vaga come in trance tra le misurate chitarre di Gianfranco Romanelli, occasionalmente trapuntate da e-bow, leslie e armonica a stemperarne i tratti più ruvidi. Polvere e miele si mescolano in uno scuro omaggio ai 90 lisergici, paesaggio umorale in cui il deserto allucinato dei Meat Puppets sfuma nella spoglia brughiera dei Mojave 3. Incisione, rigorosamente su bobina, a cura di Luca Tacconi, che non fa rimpiangere i fasti albiniani degli Alix, precedente incarnazione della coppia. Distribuisce, al solito, la romagnola Go Down. Per nostalgici con i piedi per terra (Ossydiana Speri, 7/10)
IL PESO DEL CORPO - Le Metamorfosi (autoproduzione, 2019)
songwriter
Ben cinque anni dopo: il seguito di "Le cose vanno usate le persone vanno amate" (2014), in cui estrapolava nome e cognome, Andrea Arnoldi. Per "Le Metamorfosi" il cantautore bergamasco invece si reincorpora nella sua sigla favorita di sempre, Il Peso Del Corpo, una scelta significativa in primis per gli arrangiamenti coloristici delle sue nuove serenate: l'esotica "L'amore ti fa bene", con temporale di percussioni parente di "Tusk" dei Fleetwood Mac, la rarefatta e cullante "Passato remoto", la docilmente Cohen-iana "Tentativi di avvicinamento" e una commossa "Canto orfico" con chitarra battente a voci basse. Eppure sotto i riflettori sta come mai prima la sua persona, voce e chitarra acustica, contesa tra "Eccomi" coniugata all'imperativo con un tono da chansonnier disilluso e una "Medusa", ampliata a intersecare per sottrazione tutte le meditazioni dell'opera, con quel tono misto di pacatezza e tensione alla "The End": entrambe però trovano drammaticamente una morale negli slanci finali del fido concertino, di nuovo nutrito (archi e legni, percussioni, cori). A parte la raffigurazione d'esplosivo menestrello folk in "Ex voto", proprio alle maestranze al servizio di Arnoldi si devono i veri tocchi di classe del disco, la mezza citazione in allegretto della "Yankee Doodle" in "La costruzione di un guscio", la jam di jazz da camera dissonante di "Lamerica", e il trambusto cacofonico di fiati e nastri che accompagna il rap d'introduzione a "Kitsunetsuki". Tutto in presa diretta, ma questo disco, ben meno maestoso del predecessore ma non privo di nuove complessità armonico-letterarie, è il frutto di un meticoloso periodo di ripensamento di Arnoldi, di trasformazione appunto, ricolto poi dalla società in accomandita con Andrea Manzoni. Insieme creano un nucleo di parole, visioni e stati d'animo che incrocia quasi in maniera disorientante la molteplicità delle suggestioni: musica leggera, arte kitsch, Django Reinhardt, istinti latinoamericani, Lambchop, blues del Delta, improvvisazione. E folk, ovviamente. Undici copertine diverse da parte di undici artisti, una per canzone (Michele Saran, 6,5/10)
CADORI - Emisfero Australe (Sussidiaria, 2019)
synth-pop
A cavallo della distinta esperienza con i Torakiki ("Avesom", 2016), il bolognese Giacomo Giunchedi prova e rafforza via via il suo status di solista elettronico a nome Cadori. "Emisfero Australe" è un progetto a tutto campo che ne fa il suo zenit, a partire dall'uso del canto: canto-sospiro inudibile ridotto spesso a pochi versi da haiku, spersi e galleggianti in forme espanse degne del post-rock o del rock progressivo. La costruzione monumentale di "Rosae" (ben otto minuti) parte dal ciclico ribattere di Steve Reich e dalla grandeur elettro-sinfonica di Vangelis, con un momento da brivido di fiati sinfonici attutiti. Una canzone-eco uterina e umbratile come "Emisfero australe" sembra discendere da canzoni-mantra chitarristiche come "Ombre facili" e "Speciale". I sette minuti in crescendo di "Elena" danno quasi una poesia di vagiti androidi. Anche se i brani minori espandono appena il battito verso il corpo (comunque in maniera ben più degna dell'italo-disco commerciale), perlopiù questo disco - il terzo dopo "Cadori" (2014) e "Non puoi prendertela con la notte" (2017) - rimane un'accurata traduzione di un tumulto interiore. Sulla scia del migliore Felpa, ma con la regia (ri)modellante di Justin Bennet (Skinny Puppy), ben visibile, e anzi troppo scoperta in certe pulsazioni (su tutte "La nostra piccola guerra nucleare"). Singolo: "D'estate". Co-edito con Cane Nero Dischi (Michele Saran, 6,5/10)
BASEMENT3 - Permafrost Walkers (autoproduzione, 2019)
psych-rock
I bresciani fratelli Alberto e Achille Giulio Manfredini, chitarra e basso, una volta privati della batteria di Franco Braga, da Narcovand'agio diventano Basement3. Il terzo elemento è qui Andrea Fusari dei Guru Banana, una chitarra elettrica aggiunta che spazzola via il post-hardcore del power-trio d'origine e muta l'assetto secondo l'indole del folk cosmico di Syd Barrett. "Your Winter, My Summer", l'introduzione del loro primo "Permafrost Walkers", suona maestosamente gravosa, costruita tra strimpellio sospeso e radiazione elettronica. La parte centrale i tre la dedicano tanto a ballate stralunate ("Poose On The Loose", mentre artefatta suona "Captain Sail Home") quanto, e per la maggior parte, a una breve scorsa di stomp creativi: patafisico, ottenuto con loop "umani", quello di "Ping Pong Paddle", classico ma anche più squisitamente rimbalzante quello di "New Shoes". Prima di concludere in maniera dimessa il terzetto si permette di alzare la posta, proseguendo il folk-blues gassoso e rifratto, come un liquido spanto nella stratosfera, di "Three Polaroids" in "Terminal #1", espandendolo con appena più senso della struttura e delle tinte chitarristiche. Pur mantenendo coerenza in una vispa spontaneità da jam improvvisata tra amici, il disco rende anche qualcosa di più, batte talvolta il sentiero dell'inconoscibile anche con sicurezza, fantastica di tanto in tanto sul piano armonico, s'imbeve a macchia di leopardo di quel succo visionario che diventa linfa nei maestri (non solo Barrett, anche Kevin Coyne). Intenzioni fredde, copertina a tema (scatto del 1911), sostanza calda. Nomi di battaglia: A Buzzer, A Fuzzer, A Jizzer (Michele Saran, 6,5/10)
DOMOVOI - Domovoi (Filibusta, 2019)
alt-rock
Come dei Bud Spencer Blues Explosion in indigestione di vaudeville. Esemplificativi di "Domovoi" dei romani fratelli Failla, Daniele (voce, chitarra, slide) e Matteo (voce, batteria, tastiere) sono i ritornelli a toni altissimi di "Un duello infinito", "Marinetti" e "Qualunque scelta", montati, ed eccitati, sopra l'ennesima cartolina dal desert-rock dei "Generator Parties" di Kyuss e compagnia. Più che i riff conta la loro capacità di piccole jam, Pink Floyd-iana in "Questa fortuna", rarefatta e dimessa quella di "La tua innocenza", guidata da una slide rabbuiata in "Come ieri" (anche la migliore ballata) e persino da un pianoforte dissonante-horror in "Superficiale". Completato dal basso di Andrea Colicchia (poi Valerio Cascone) e le tastiere aggiuntive di Fabrizio Boffi. Tipico caso di singolo di traino fuorviante ("Marinetti"): è invece un vago concept sulla crisi di coppia con un pezzo baricentrico che, in merito, non potrebbe suonare più didascalico, "Blues". Buone capacità tecniche rendono notevoli sprazzi di fantasia in un'intelaiatura risaputa di melodramma-canzone. Un disco nient'affatto tragico ma comunque di lotta: le parole urlano e spiegano mentre la musica incalza, quasi ad annullarle, spazzarle via. Nascosto traguardo del rock italico medio (Michele Saran, 6/10)
BOB AND THE APPLE - Wanderlust I-II (autoproduzione, 2019)
psych-pop
I trentini Bob And The Apple debuttano con un "Rouge Squadron" (2012) cantato in italiano. Una volta imposti anche in veste live i cinque espatriano nelle capitali europee di spicco, Londra, Parigi e Berlino, internazionalizzando l'idioma come pure il proprio sound, per far maturare e sofisticare la propria arte. Il risultato di questo processo orientato allo studio di registrazione anziché al palco è una coppia di Ep. Il primo, "Wanderlust I" (2018), contiene l'incantata "Sgt Pepper"-iana "Wanderlust", la stentorea iperstratificata "Desolina III", e il cantilenante crescendo folkish di "Big Sky". Le migliori del secondo "Wanderlust II" (2019) sono "Soanne", pop progressivo di stile invecchiato, una filastrocca Donovan-iana come "Sitar" e un'esotica sincopata "Strangers", con chiusa ad effetto. La qualità media dei due si equivale e insieme, uno di seguito all'altro, danno il loro secondo album effettivo, "Wanderlust I-II", d'un revivalismo neopsichedelico estetizzante la cui produzione pianifica, livella, slava registri di genere, e qua e là pure tentenna senza convinzione sulla pista da ballo. Però il suo certosino sovrarrangiamento va visto anche in positivo: mitiga la carenza di tattica per puntare a deliziare. Unica strenua cacofonia in chiusa a "Desolina III", un sax quasi free (Paolo Guolo) davvero sottoutilizzato. Registrato in sei studi, oltre alle dimore (Michele Saran, 5,5/10)