Nell'ambito metal ci sono molti validi gruppi in numerosi generi e correnti differenti, ma sono pochi i nomi (nel bene e nel male) davvero incisi a caldo nell'immaginario collettivo, gruppi la cui fama riesce a trascendere il pubblico degli ascoltatori metallici, simboli dell'intera scena o di periodi precisi. Per esempio, gli anni 70 sono immediatamente associati a gruppi come Judas Priest, Black Sabbath o Motörhead, mentre gli anni 80 sono il decennio in cui sono posti sotto la luce dei riflettori Iron Maiden, Mötley Crüe o Metallica. Negli anni 90 vedono raggiungere il picco di popolarità, fra alti e bassi, nomi come Pantera o Dream Theater. Negli anni 2000 e in generale nel nuovo millennio, un gruppo che honoris causa merita non solo di essere considerato tra i più rappresentativi ma anche uno dei vertici del metal contemporaneo, proviene da Atlanta: i Mastodon.
La loro musica viene definita progressive-sludge-metal dalla stampa, per la capacità unica di unire riff granitici e brucianti, virtuosismi sempre contestuali, melodie epiche e spirito indomabile: come una valanga metallica o una carica di elefanti che man mano che si avvicinano, durante l'ascolto, diventano sempre più grandi, stagliandosi giusto davanti i nostri occhi. Ma sarà poi soprattutto dal 2009 in poi che cresceranno le raffinatezze progressive, gli spunti hard-rock e i riferimenti agli anni 70, rinverditi al punto da suonare freschi e attuali. La musica dei Mastodon - selvaggia ma melodica, immediata ma tecnica, legata al passato ma proiettata nel futuro - è un gioco di contrasti che non suonano mai in conflitto e, anzi, rappresenta forse il lato più affascinante e memorabile del gruppo.
Curiosamente, però, i Mastodon non si considerano metal. Troy Sanders ha dichiarato così a Loudwire nel 2014: "Non pensiamo di essere un gruppo metal. Ammettiamo che c'è molto di metal nella nostra musica, ma vogliamo credere anche che ci sia molto di rock'n'roll, e che abbiamo molto progressive rock, pezzetti di thrash e di punk, e una sorta di psichedelicità spruzzata sopra. Molte volte a me sembra un po' limitante vederci assegnata l'etichetta metal, perché apprezziamo molto tutti gli stili e ci piace incorporarli nelle nostre canzoni. Ma comprendiamo anche che ci siano tutti i differenti sottogeneri e le milioni di volte che la gente dice, 'oh, come suonano?', e tu rispondi qualcosa, lo capisco. Ma questo non influenza affatto il modo in cui creiamo musica". Non a caso, i membri del gruppo hanno avuto in passato anche esperienze ben lontane dal metal, in particolare Brent Hinds diede vita a un progetto psychobilly, i Fiend Without A Face.
Il nucleo del gruppo viene formato il 13 gennaio, 2000 quando il batterista Brann Dailor e il chitarrista Bill Kelliher si incontrano, durante un concerto degli High On Fire, con il bassista Troy Sanders e il chitarrista Brent Hinds. I quattro scoprono immediatamente di essere accomunati dalla passione per lo sludge, un genere nato dall'incontro tra il doom-metal e l'hardcore-punk (in particolare, apprezzano gruppi come Melvins e Neurosis), e per l'hard-rock degli anni 70 (su tutti Thin Lizzy, Black Sabbath, Rush). Così formano un gruppo a cui si aggiunge Eric Saner alla voce, che però, dopo un demo, lascia subito per impegni personali. Invece di rimpiazzarlo, i quattro decidono di suddividersi loro le prove vocali. Per la precisione sono Sanders e Hinds ad alternarsi al microfono, mentre gli altri due sostengono con delle backing vocals.
La prima pubblicazione ufficiale per il gruppo è un Ep nel 2001 per la Relapse, intitolato Lifesblood. Qui è evidente sia l'influenza forte dei Neurosis, sia una matrice figlia dei Voivod e del post-thrash degli anni 90, ma soprattutto il contributo dato dai dischi "In The Eyes Of God" del gruppo noisecore sperimentale Today Is The Day (1999) e "It's Hard To Write With A Little Hand" del complesso mathcore/technical-death-metal Lethargy (1996). Questo perché Bill Kelliher e Brann Dailor vi hanno suonato: nei primi furono chiamati dal leader e compositore Steve Austin (dal quale hanno acquisito i tratti più massimalisti ed "eccentrici" che poi svilupperanno a modo proprio), nei secondi furono invece proprio membri fondatori, contribuendo così a un sound che poi rielaboreranno, unendolo allo sludge. E molti tratti peculiari dei primi Mastodon sono anticipati dal disco a nome Lethargy, tanto che Lifesblood suona quasi come un'unione di questi con i Neurosis.
È un mini che mostra già un gruppo solido e maturo, impeccabile nelle esecuzioni, violentissimo e bestiale.
Ma è l'anno successivo con il primo Lp, Remission, che il quartetto dello stato della Georgia cristallizza il proprio stile raccogliendo lo sludge-metal e il filone estremo degli anni 90 e condensandolo in una formula nuova. Già il primo brano, "Crusher Destroyer", ha un titolo che è tutto un programma ed è introdotto da un campionamento del ruggito realizzato per il T-Rex del primo "Jurassic Park" prima di una sequenza di riff e batteria tritaossa, come a mettere in chiaro il carattere animalesco della musica.
È anche un semi-concept, primo della serie sui quattro elementi, incentrato sul fuoco.
Lo stile del gruppo è lampantemente più furibondo e veloce della media dei gruppi sludge. Gli americani elaborano con piglio personale uno stile che allo sludge (tanto quello più raffinato dei Neurosis quanto quello più barbarico di High On Fire o Eyehategod) unisce ritmiche micidiali di derivazione thrash-metal (Metallica), technical-thrash (Voivod), groove-metal (Pantera, Nevermore) e post-hardcore (Black Flag), condendo il tutto con alte dosi di tecnica, atmosfere suggestive e aperture melodiche vicine all'hard & heavy degli anni 70. Effettivamente, lungo tutta la loro discografia, la loro musica non dimentica, soprattutto nella seconda metà di carriera, il retaggio dei classici del rock e del primo heavy-metal, che impreziosiscono con riferimenti alla psichedelia (Hawkwind), al southern-rock (Lynyrd Skynyrd) e anche alla cerebralità dei gruppi progressive-rock. La tecnica è padroneggiata alla perfezione da tutti i componenti, ma ci sentiamo di fare un plauso in particolare al batterista Brann Dailor, che fin da giovanissimo si è formato studiando i maestri del prog e anche del jazz, e che inserisce spesso e volentieri ritmi insoliti, irregolari e complessi nella struttura delle canzoni.
Questo spirito di tributo verso il passato viene amalgamato con genuinità, in un sound intricato ed emozionante, che suona freschissimo dall'inizio alla fine. La possanza dei Mastodon non è circoscritta solo alla furia elegante di cui sono capaci, ma anche all'immaginario che deriva dal loro nome. Protagoniste dei loro testi sono spesso creature preistoriche, mitologiche e della letteratura; le atmosfere dei dischi suonano barbariche e primitive, come se i quattro affrontassero di persona queste bestie feroci.
È nel secondo album Leviathan, loro capolavoro e apice del metal degli anni 2000, che questa profondità concettuale diventa ormai evidente. Oltre a proseguire la serie dei quattro elementi, ovviamente passando all'acqua, il concept-album è ispirato dal "Moby Dick" di Herman Melville. Tutto il disco è intriso di un furore monolitico, dalla rabbia del capitano Ahab ("I Am Ahab") alle onde del mare in tempesta (riprodotto per tutto l'album dagli strumenti), dalla furia degli elementi alla frenesia della Balena Bianca – il “Santo Graal”, come il gruppo ama chiamarla nella traccia di apertura del disco ("Blood And Thunder", semplice, nervosa e devastante allo stesso tempo, creando un contrasto dolceamaro poi con "Seabeast", digressione meditata e più melodica).
I brani si fanno più brevi e immediati, ad eccezione dell'epica suite di quasi 14 minuti di "Hearts Alive", una intricata e ferale cavalcata tra cambi di tempo e riffing al fulmicotone. Da segnalare anche la partecipazione di Scott Kelly dei Neurosis in "Acqua Dementia", veloce, pestatissima e straordinariamente elegante allo stesso tempo.
Leviathan è un album implacabile e al tempo stesso un esempio di metallo "pensante" oltre che pesante. Significativo e gradito anche il fatto che la performance vocale di Brent Hinds e Troy Sanders si faccia più calma e curata, rendendo le loro urla sguaiate più pulite e comprensibili per meglio seguire la progressione tematica dei testi, nonché contribuendo a rendere il lavoro meno "rumoroso" del predecessore, pur senza perdere in potenza.
Dopo l'uscita dell'album, i Mastodon si impegnano in un lungo tour tra Nord America ed Europa con gli Slayer e i Lamb Of God, cioè l'Unholy Alliance. Questo lungo concerto segna anche la definitiva consacrazione presso il pubblico, che inizia col passaparola a interessarsi sempre più al quartetto di Atlanta. Un po' di aiuto lo fornisce anche il boom del metalcore melodico di questi anni, ma i Mastodon lo superano ampiamente in quanto a portata innovativa e caratterizzazione degli album.
Nel frattempo la compilation Call Of The Mastodon chiude il contratto con la Relapse raccogliendo brani dei demo iniziali del gruppo, reincisi per l'occasione. Il gruppo la considera il proprio terzo album effettivo, perché "suona diverso dai precedenti album". Dopodiché gli americani vengono immediatamente scritturati dalla Reprise, una divisione della Warner.
L'esordio su major rappresenta per il talentuoso combo di Atlanta la conferma della sua maestria e delle innate doti compositive di cui dispone. Blood Mountain, che introduce il terzo elemento (la terra), segna un propulsivo e rilevante passo in avanti nel sentiero evolutivo intrapreso dai Mastodon. Ancora più caotico e massimalista, al punto che le parti prog forse sono un po' eccessive nell'insieme, da un lato perde leggermente rispetto al più concettuale e compatto Leviathan, ma dall'altro mostra anche più grinta.
Così, pur mantenendo un'invidiabile personalità e freschezza nel songwriting, gli americani paiono notevolmente cambiati nell'arco di soli due anni. In primis, si sono accentuati i tratti che li legano con doppia mandata all'heavy-metal tradizionale, accrescendo le sovrapposizioni "di terza" delle due chitarre, ora intente a ricamare riff davvero epici e maestosi ("Crystal Skull", in cui si rinnova la collaborazione con Scott Kelly dei Neurosis), ora tessendo trame densissime e intricate (il country iper-cinetico nella parte centrale di "Capillarian Crest"). Spaventose le elaborazioni ritmiche del batterista Briann Dailor attraverso smottamenti tellurici perpetrati senza sosta per tutta la durata del disco, dalle bacchettate iniziali della convulsiva "The Wolf Is Loose" fino ad arrivare a "Siberian Divide"; si concede una pausa solo nel placido andamento di "Pendelous Skin", in cui compare come ospite Ikey Owens, il tastierista dei Mars Volta - la cui influenza oltre a questo episodio è nelle note di colore schizoidi ed efferate ma sempre virtuose.
L'organicità del sound del gruppo appare ora liberata dal sostrato post-hardcore, retaggio che da sempre è emerso in maniera preponderante. Se ne individuano lievi strascichi nei cenni di grind rumorista in "Bladecatcher", nelle esplosioni impetuose di "Siberian Divide" (che anticipa già qualcosa del successivo album) e "Circle Cysquatch". Troy Sanders tende a tingere di melodie più intelligibili le sue linee vocali, appassionanti ed evocative in "Sleeping Giant" (dove il progressive-rock anni 70 rivive in rinnovate e terse vesti), vibranti e avvincenti in "Capillarian Crest" e "Hunters Of The Sky", prendono il totale sopravvento in "Colony Of Birchmen". Addirittura soffici e impalpabili in passaggi di "This Mortal Soil".
Nel frattempo, in Georgia, sta nascendo una vera e propria ondata di gruppi che danno la loro interpretazione del progressive-sludge-metal a partire dalla lezione impartita dai Mastodon, poi rielaborata a modo proprio dalle varie formazioni nate soprattutto nella città di Savannah e nel parco artisti dell'etichetta Relapse: nomi come Baroness, Kylesa, Black Tusk, ad esempio. Ma anche al di fuori dalla Georgia, vari gruppi sludge (chi più psichedelico, chi più hardcore e chi più hard-rock) salgono alla ribalta o evolvono il loro stile verso questo genere, come Torche, Anciient, Red Fang o Lair Of The Minotaur.
Crack The Skye completa la quadrilogia elementale dei Mastodon, con un concept stavolta dedicato all'aria e all'etere, affrontato tramite un'intricata e fantasiosa narrazione comprendente citazioni al distacco dell'anima dal corpo, alla Russia zarista e Rasputin, alla teoria dei wormhole come passaggi dimensionali, alle faustiane tentazioni del demonio. Il titolo è anche una dedica personale del batterista Brann Dailor a sua sorella Skye Dailor, suicidatasi all'età di 14 anni.
Il disco è stato composto principalmente dal cantante e chitarrista Brent Hinds durante la sua guarigione da un serio incidente alla testa e minimizza ulteriormente il lato post-hardcore e post-thrash, aumentando invece spropositatamente le influenze dai momenti meno violenti dei primi Metallica e dal prog-rock alla Genesis e Rush (ma in misura molto minore anche King Crimson, Pink Floyd del periodo centrale e Tool). Nell'operazione si fanno anche contagiare più del solito dagli eccessi prog "freak" alla Mars Volta, sempre presenti nella personale ricerca di un nuovo tipo di sound prog-metal. Il risultato è un disco molto variegato ma anche non molto potente, che trova il suo punto di forza nella solita impressionante capacità tecnica e onnivora del quartetto, e il suo punto di debolezza nella carenza di coesione e forza di sfondamento che a volte caratterizza i pezzi.
L'iniziale "Oblivion" espone in breve molti di tali pregi e difetti: apre il lavoro con una melodia chitarristica arabeggiante in crescendo alla Tool, detonando in una tipica strofa post-thrash ma stavolta con ritmiche più rilassate e il batterista Dailor alla voce, la quale a sua volta cozza però violentemente con uno sgraziato pre-chorus in stile Ozzy Osbourne cantato da Troy Sanders, e si eleva di nuovo solo tramite un'apertura melodica con splendido ritornello catchy e psichedelico cantato da Brent Hinds, chiudendosi in una serie di assoli chitarristici prog-rock un po' derivativi. La meno originale "Divinations", anche singolo di lancio, viene introdotta da poche note di banjo, per poi rivelare un improvviso aumento della velocità ritmica, sotto a una strofa digrignata sul palm-mute proveniente alla lontana dai primi dischi, ma ancora una volta si evolve verso pre-chorus e chorus melodici e catchy, ricordando le melodie vocali più emo-core e dirette del predecessore, per poi aggiungere un assolo heavy-metal tempestoso con shredding Slayer-iano in versione più pulita e blues.
In realtà non è presente una sola traccia di bassa qualità, e l'insieme riesce a non superare quasi mai la soglia dell'eccesso barocco (con la notevole eccezione della confusa canzone conclusiva "The Last Baron", a causa delle influenze alla Mars Volta più forti del solito, delle improvvise impennate jazz-rock barocche, che però ricalcano eccessivamente i Rush di "YYZ", e del finale con assolo blues-prog). Si giunge al vero stand-out solo nelle tre tracce della sezione centrale: "Quintessence" inanella una strofa cantata in maniera dissonante su melodia chitarristica mitragliata, parentesi psichedeliche ariose con sintetizzatori space-rock, chorus metalcore esplosivo poi tramutato in declamazione epica su riff aperti, bridge con nuovo squarcio chitarristico, chiusura heavy-sludge. "The Czar", suite in quattro movimenti per un totale di 11 minuti, è indubbiamente il miglior momento dell'album: introduzione hard-prog con organo atmosferico e arpeggiato distorto, strofa sludge rallentata in un panorama dilatato e onirico, che tramite una scossa distorta balza a un chorus heavy e catchy elettrizzato da un flusso continuo di elementi sonori (rimbombi di basso, intrecci vocale tra Sanders e Hinds, successione di riff folgoranti) per poi distendersi in una pioggia di assoli su accordi aperti e ritmica rallentata (introdotta brevemente da un'ottima melodia vocale di Hinds), e conclusione con una ripresa della strofa iniziale stavolta arrangiata in maniera più massiccia e barocca. "Ghost Of Karelia" mostra invece la più stretta parentela con i momenti melodici meno violenti del predecessore, orientandosi su suoni decisamente più personali e già abbozzati in passato dalla band, grazie a ritmiche molto più fitte e tecnicamente impressionanti, flussi chitarristici implacabili, melodie liquide e sciolte, stacchi aggressivi equilibrati da immediate dilatazioni psichedeliche.
I restanti pezzi risultano spesso e volentieri troppo poco fluidi, lineari e privi di reale impatto; il concept "etereo", riflesso nell'ariosità prog delle composizioni e nella soffocata produzione di Brendan O'Brien, blocca in parte l'originalità della band, che sapeva esprimersi anzitutto tramite sound più sanguigni e anarchici. Si tenta di compensare questo freno in sede compositiva tramite ulteriori stratificazioni e maestosi arrangiamenti, ma spogliando mentalmente il suono degli eccessi post-produttivi, saltano all'orecchio con facilità la minor coesione e la maggior superficialità. Il songwriting, per quanto elaborato e apprezzato da critica e pubblico, è un esperimento ambizioso ma limitato da minor coerenza umorale e melodica, e dall'eccessiva evidenza di cliché del passato, tutti difetti portati dal cambiamento stilistico; tale risultato diviene evidente anche considerando quanto i momenti più simili ai trascorsi album convincano sempre, mentre le "novità" si inseriscano spesso in maniera claudicante nel flusso.
Nel 2011, però, i Mastodon ancora una volta riescono a stupire il proprio pubblico con un'ulteriore svolta stilistica. Grazie a The Hunter (titolo dedicato al fratello del chitarrista Brent Hinds, morto durante una battuta di caccia mentre la band era impegnata nelle registrazioni del disco) i quattro non solo tornano a un maggior numero di tracce, tutte dal minutaggio breve, ma utilizzano strutture più classiche e vicine alla forma-canzone, eliminano molti degli eccessi prog e molta della pesantezza metal, e addirittura si concedono alcuni pezzi in chiave maggiore. I Mastodon hanno evidentemente deciso di minimizzare gli elementi più ambiziosamente prog e di prestare una maggior cura al flusso melodico, scrivendo pezzi molto più coesi, "selvatici" e scorrevoli.
Le tracce di The Hunter sono ognuna una sintesi basilare di varie caratteristiche tipiche della band, con in più un'incrementata attenzione per l'orecchiabilità e gli hook melodici. La base su cui i Mastodon hanno deciso di costruire il disco non è il prog-rock, e nemmeno lo sludge, ma ancor più indietro nel tempo il classico hard-rock dalle tinte calde, blueseggianti e southern in stile 70's; tale fondamento viene poi trasformato completamente grazie ai vari innesti di prog-rock, hardcore-sludge e thrash-metal, e fatto suonare bizzarro dal solito lavoro densissimo alla batteria di Brann Dailor e dalle parti vocali di Brent Hinds, ma resta comunque riconoscibile come tale. Il fatto che rende l'album un esperimento, sebbene meno ambizioso, a conti fatti più riuscito di Crack The Skye, è che ognuna delle 13 tracce sfoggia un grandioso talento nel costruire brani fluidi, coesi, fulminanti, grazie a melodie memorabili e a una grande varietà di stile.
Ci sono cavalcate metal pesanti simili ai primi dischi ("Spectrelight" con ospite alla voce Scott Kelly dei Neurosis, ormai guest fisso su ogni lavoro), ci sono pezzi heavy-rock a tinte futuriste (la malinconica "Octopus Has No Friends" e "Bedazzled Fingernails", il cui epilettico giro d'apertura sembra un bluegrass in versione metal, entrambe con parti vocali effettate alla Cynic), mix di stoner e hardcore ("Dry Bone Valley", cantato ottimamente dal batterista Dailor nella vena dei migliori Queens Of The Stone Age), l'heavy-psych ("Thickening", con fraseggi di chitarra tra hard-rock e blues e cori vocali alla Josh Homme), thrash melodico ("Black Tongue"), hardcore ("Blasteroid"), viaggi spaziali soft in salsa pinkfloydiana (il lento crescendo di "Creature Lives", "Stargams" e l'onirica conclusione poetica di "The Sparrow", a metà tra power-ballad e ballata pura).
The Hunter rischia di essere rifiutato dai fan del primo periodo perché privo della pesantezza metal e delle schizofrenie strumentali più violente, ma è essenziale per comprendere come i Mastodon non si siano prestati a stili musicali modaioli o trendy per rendersi appetibili: puntano tutto sulla concisione e sul proprio talento melodico, restando al contempo ben attenti a variare approccio da traccia a traccia, senza mai ripetersi. La svolta di quest'album è pertanto da classificarsi non come una svendita, ma come una genuina evoluzione verso territori differenti.
Il sesto album dei Mastodon, Once More 'Round The Sun, uscito sempre per la Reprise, riflette allo stesso tempo un ulteriore cambio di rotta stilistico, una volontà di conquistare nuovi tipi di pubblico al di fuori del'arena metal, ma anche una maturazione personale dei quattro, che mai come ora hanno una visione consapevolmente positiva nei confronti della vita. Quella dei Mastodon è un'operazione di svecchiamento delle formule metal, prog-rock e alternative-rock, che si mescolano assieme in un calderone sempre ispirato e altamente personale, dunque riuscendo sempre a spiccare sul resto del panorama musicale ad essi contemporaneo e risultando sempre soddisfacente.
Stavolta, a differenza di The Hunter, la parte del leone la fanno gli arrangiamenti (non solo chitarre, anche tocchi di synth e sample in un paio di punti), mai così ricchi, rifiniti, ma allo stesso tempo non soffocanti nei confronti dell'orecchiabilità finale dei pezzi (come in buona parte di Crack The Skye). Il lavoro è di una complessità e ricchezza di dettaglio perfettamente rappresentate dalla cover del disco, opera dell'artista Skinner, di Oakland. Essenziali sono infatti le melodie e la vena catchy di tutti i pezzi. Come sintesi delle varie influenze della band, l'album funziona anche meglio di The Hunter, che non era altrettanto cesellato, upbeat e scorrevole, e senz'altro meglio di Crack The Skye, nel quale l'ambizione di costruire un concept in stile prog 70's aveva preso completamente il timone. Si possono trovare infatti riff sludge che rimandano ai loro lavori più vecchi ("Asleep In The Deep", "Chimes At Midnight" e "Aunt Lisa" con coro di cheerleader finale), che poi evolvono in melodie "alternative" stilisticamente simili a quelle dei pezzi meno metal di Blood Mountain. Ma compaiono anche fusioni tra strofe di hardcore melodico alla Hüsker Dü (il cui approccio all'hardcore negli anni 80 ricorda molto ciò che hanno fatto e stanno continuando a fare oggi i Mastodon nei confronti del metal) ed escursioni prog-metal, come nella title track e in "Halloween".
A differenza dell'album precedente, si avverte una certa "distanza" tra la musica e l'ascoltatore, dovuta alla cura maniacale con cui il sound è stato reso ricco e scintillante; nonostante le maggiori dilatazioni pinkfloydiane, il suono era più essenziale e terrestre in The Hunter, mentre qui tutto viene compresso in uno spazio minore, con un maggior lavoro di sovrapposizione e contemporaneamente un effetto "onirico" e ipnotico, quasi un parallelo al dream-psych-indie che ha avuto successo nell'ultima decade (con gruppi come i Deerhunter).
Once More 'Round The Sun è anche un ottimo esempio di come si possa suonare prog, e anche chiaramente in stile settantiano, senza "fare" prog: tutti i momenti in cui i pezzi lasciano spazio a parti strumentali mostrano infatti evidenti influenze e omaggi al rock progressivo dei 70's, ma scorrono su ritmi upbeat, si intrecciano e sciolgono in maniera vivace e rapida, e non durano un secondo più del necessario. Questo disco mostra una capacità di riassorbire e rinverdire le sonorità prog in maniera molto più fresca e convincente rispetto a cose come gli ultimi lavori targati Opeth, che vivono invece molto più di nostalgia che di innovazione. Resta tuttavia impossibile non notare somiglianze con alcuni pezzi di The Hunter; ciò conferma anche l'idea, esplicitata alla stampa dalla band, che il disco sia una continuazione, anche se con stile rinnovato, del suo predecessore.
C'è stavolta anche un "quinto Mastodon", il produttore Nick Raskulinecz, che si è probabilmente trovato di fronte a uno dei compiti più complessi della sua carriera, dovendo bilanciare l'orgia di arrangiamenti e rifiniture messa in pista dal gruppo e allo stesso tempo il chiaro desiderio di non suonare pesante quanto nei primi album, con la necessità di non perdere nel processo aggressività e potenza; un obiettivo molto difficile, e il giudizio sul fatto che sia riuscito o meno dipende largamente dalle aspettative del singolo ascoltatore.
Il 31 marzo 2017 viene pubblicata l'ultima fatica degli americani, intitolata Emperor Of Sand. Stavolta il gruppo sembra mettere da parte la sua versatilità e voglia di cambiare le carte in tavola, nonché la vena più fangosa e sludge, per fare opera di consolidamento del proprio lato più melodico. Il problema principale è che il lavoro si mostra discontinuo, alternando pezzi con poche idee ormai abusate (emblematico il singolo d'anteprima "Show Yourself", un hard-rock radiofonico abbastanza scialbo che sembra imitare i Tesla) ad altri molto più caratterizzati ed espressivi (come l'altro brano messo in anteprima, "Andromeda", oppure l'impetuosa ed evocativa "Roots Remain" che ricorda in parte gli ultimi Baroness).
Stavolta i momenti più ispirati sembrano proprio quelli che si aprono maggiormente a raffinatezze compositive, atmosfere dense e giochi sonori, mentre gli episodi più diretti appaiono meno energici e meno adrenalinici che in passato. Purtroppo non viene mai raggiunta la ricchezza compositiva e la cura certosina negli arrangiamenti dei precedenti lavori. Anche la prova vocale non suona fresca e vivace come in passato. La produzione radiofonica, inoltre, annacqua l'energia del gruppo. Per contro, il lato lirico è concettualmente semplice ma poeticamente evocativo: il concept di un condannato a morte che si perde nel deserto e riflette sulla natura dell'uomo e del tempo.
È un album che richiede più ascolti per essere assimilato e cresce col tempo, ma che potrebbe deludere chi cercava sperimentazione e poliedricità. Ciò non gli impedisce di sfoggiare la consueta classe di fondo, anche quando passa dalla psichedelia all'hard-prog, dall'heavy-rock al metal. Mancano, però, le armonie, gli hook, le chiavi maggiori; i pezzi più immediati non trascinano mai come nei momenti più impetuosi e viscerali del gruppo. Altre formazioni, come i Baroness nei loro ultimi dischi, partendo da idee stilistiche simili, le hanno sviluppate meglio, con più inventiva e gusto. Il risultato di questo disco è qualcosa che, in parallelo e in maniera analoga, ricorda ciò che è successo ai francesi Gojira l'anno prima con "Magma".
Nel settembre 2017 i Mastodon ritornano con un Ep intitolato Cold Dark Place. I brani che lo compongono provengono tutti dalle sessioni di registrazione di Once More ' Round The Sun del 2014, tranne per la canzone "Toe To Toes" che invece proviene dall'ultimo Emperor Of Sand. Tutti sono farina del sacco di Brent Hinds, che li aveva inizialmente scartati per poi volerli ri-registrare meglio, rendendo di fatto l'Ep praticamente un suo lavoro solista. È evidente l'influenza del progressive-rock e dello space-rock: e nonostante manchino i guizzi creativi del passato, gli umori crepuscolari contribuisono a rendere l'atmosfera malinconica e avvolgente. Nel mentre gli americani ci mettono del loro per dare anche un tocco psichedelico in più che rende l'ascolto onirico, anche dove emergono più frequenti richiami ai Rush, atmosfere pinkfloydiane, armonizzazioni maideniane o attacchi stoner degni dei Clutch.
Hushed And Grim (2021) si presenta subito come un disco monolitico, suonato con una perizia tecnica decisamente superiore alla media, con quindici brani per ottantasei minuti di musica piena di riff taglienti e aggressivi. Un album che pesca a mani basse da un'infinità di generi senza apparire affatto derivativo, ma riuscendo sempre a mantenere l’idea di un'evoluzione o di una interpretazione personale dell'ascolto dei classici (da Rush ai Led Zeppelin, dagli Iron Maiden ai Dream Theater).
Dagli assoli vintage carichi di passione (“More Than I Could Chew”, “The Crux”) ai riff hard-psych-rock in stile Motorpsycho (“The Beast”), dai ritmi spericolati di “Teardrinker” alla velocità quasi petrucciana di “Pushing The Tides”, la band mostra uno stile ormai consolidato (riff massiccio iniziale, canto, assolo e ripresa del riff) che non mostra segni eccessivi di derivatismo stucchevole, piaga assoluta di varie altre band. In quais un'ora e mezzo di musica i momenti più memorabili sono comuqnue i synth tipicamente prog del finale di “Skeleton Of Splendor”, i ritmi hard-rock di “Globbers Of Dregs” e le cavalcate di chitarra di “Pain With An Anchor”, seppur l'ascolto dell'intero Lp non fa cedere alla stanchezza.
Contributi di Valerio D'Onofrio ("Hushed And Grim")
Lifesblood (Ep, Relapse, 2001) | 7 | |
Remission(Relapse, 2002) | 8 | |
Leviathan(Relapse, 2004) | 9 | |
Call Of The Mastodon (Relapse, 2005) | ||
Blood Mountain(Reprise, 2006) | 8 | |
Crack The Skye(Reprise, 2009) | 7 | |
The Hunter(Reprise, 2011) | 7 | |
Once More 'Round The Sun(Reprise, 2014) | 7 | |
Emperor Of Sand(Reprise, 2017) | 6 | |
Cold Dark Place(Ep, Reprise, 2017) | 6,5 | |
Hushed And Grim(Reprise, 2021) | 7 |
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