Dopo l’antibest… il “best of”. Se era già più abbordabile l'opera di cernita tra le “chicche” meno note del repertorio, è ovviamente impresa impossibile stabilire quali siano le 30 canzoni migliori di una band come gli U2. Quella che segue è, dunque, solo una delle innumerevoli selezioni possibili, filtrata dal gusto di chi scrive. Si è cercato, comunque, di rappresentare tutte le fasi principali della formazione irlandese, dagli esordi post-punk alla stagione più classic rock fino alle sperimentazioni elettroniche più audaci avviate a partire da “Achtung Baby”. Una selezione in cui in alcuni casi abbiamo preferito scegliere le versioni live dell’incandescente (e memorabile) “Under A Blood Red Sky” rispetto a quelle in studio, anche per celebrare l’incontestabile statura live del gruppo dublinese, almeno nel suo periodo migliore. Sempre con la speranza che – come dice Bono – dalle nuove session in studio con Brian Eno gli U2 trovino “le ragioni per esistere ancora come band”.
Ecco, qui sotto, la nostra playlist e, a seguire, tutti i commenti brano per brano, dal n.30 a salire fino al n.1.
30. Magnificent
Nella inesorabile discesa post-Duemila della band irlandese, salva la faccia – seppur parzialmente - questo “No Line On The Horizon” del 2009. Un album che, pur senza sussulti, assicura quantomeno ai fan più irriducibili un bel tuffo nel passato con questo singolo, in cui le tastiere liquide lasciano presto spazio alla chitarra tintinnante di The Edge, che ritrova traiettorie epiche ormai antiche su cui Bono si fa raffinato interprete. “Sono nato per cantare per te/ Non avevo altra scelta che sollevarti”, canta il frontman usando un registro insolitamente più basso e caldo, sopra le scintille della chitarra di The Edge e il tappeto metallico del bassista Adam Clayton e del batterista Larry Mullen Jr.. Quindi la voce di Bono si libra in volo a preannunciare il refrain, chiuso solo con la parola “magnificent”, ripetuta con gusto, scandendo le sillabe.
29. Miracle Drug
Proseguiamo con un estratto dall’ultimo (tutto sommato) decoroso lavoro degli U2, “How To Dismantle An Atomic Bomb” del 2004, dove Bono & C. recuperano anche il vecchio produttore Steve Lillywhite. Oltre al singolo “Vertigo”, a svettare è questa seconda traccia, che – come scrive Paolo Sforza nella nostra recensione – “farà fare un salto sulla sedia a qualche vecchio fan, sin dal primo tintinnio della chitarra di The Edge, fino all'esplosione della sezione ritmica nell'epico ritornello, dove la voce di Bono recupera il timbro passionale che lo rese, giustamente, uno dei più amati frontman di sempre, e il basso di Clayton disegna le sue linee elementari ma così efficaci”. Come scrive ancora il nostro recensore, “la voce di Bono tradisce lo sforzo nel cercare di ripetere le prestazioni di un tempo, ed è esemplificativa dell'approccio degli U2 tutti, dalla sezione ritmica, alla chitarra di The Edge, teso a recuperare il pathos dell'inizio carriera; un effetto nostalgia che traspare anche dall'atmosfera, spesso malinconica e riflessiva, delle musiche e dei testi”. Speriamo ora che gli U2 possano assumere una “Miracle Drug” in grado di risvegliarne l’ispirazione perduta.
28. Beautiful Day
Dopo aver raccolto il meglio dei primi dieci anni d'attività in “The Best Of 1980-1990 & The B-Sides”, nel 2000 gli U2 tentano un (parziale) ritorno al passato con “All That You Can't Leave Behind”, ovvero "tutto quello che non puoi lasciare indietro". Nelle undici tracce, la band irlandese tenta di recuperare la semplicità delle origini, dispersa negli ultimi anni tra show futuristi e incursioni in discoteca. Ma in realtà il furore degli esordi è un lontano ricordo, e si ha l'impressione che la deriva pop di Bono e compagni sia ormai irreversibile. C'è comunque qualche felice eccezione, come questo singolo, che racconta della banalità di come un uomo possa perdere tutto, ma essere ugualmente felice. Con tanti ringraziamenti agli a-ha di "The Sun Always Shines On Tv", cui ruba allegramente la melodia.
27. Staring At The Sun
Pubblicato nel 1997, all'apice della popolarità mondiale, “Pop” deluderà molti fan degli U2, ripudiando il rock, in nome di una miscela impazzita di atmosfere ipnotiche dance e di ritmi accelerati techno e jungle, di un elettro-pop che oscilla tra Depeche Mode e Chemical Brothers. Una incursione nel mondo luccicante ed effimero delle discoteche, che si sposa a testi apparentemente meno impegnati, ma che in realtà, nelle intenzioni di Bono e soci, vogliono rappresentare "l'industria della musica", il pop come un grande supermarket che vende e brucia musica alla velocità della luce. A parziale consolazione dei fan nostalgici, giungono gli assoli di chitarra di questa struggente ballata con lo sguardo fisso al sole: "Staring At The Sun", impreziosita in formato 45 giri da una chicca come “Your Blue Room” dei Passengers nel lato B.
26. 11 O'Clock Tick Tock
Nel 1980 il manager Paul McGuinness procura agli U2 un contratto con la Island (l'etichetta di Bob Marley) per 100.000 sterline: tanto basterà a Bono e compagni per pubblicare il proprio secondo singolo, ovvero proprio “11 O'Clock Tick Tock” e partire per un tour in Gran Bretagna come spalla dei Fashion. Illustre è però il produttore chiamato per l'occasione: Martin Hannett, già dietro la consolle per il mitico “Unknown Pleasures” dei Joy Division. È un brano forse ancora ingenuo, ma già pervaso da quella euforia innocente dei primi U2. Con un titolo ricavato da un appunto che Gavin Friday, leader dei Virgin Prunes amico di Bono, aveva lasciato sulla porta di casa del frontman una sera, ha invece un testo ispirato dall’esperienza vissuta da Bono durante un concerto dei Cramps all’Electric Ballroom di Londra. In quell'occasione restò colpito dalla fauna gotica che affollava il parterre: “Con quel trucco sepolcrale, volti bianchi, occhi scuri... sembrava la fine del mondo". La sezione armonica della chitarra nel finale incorpora il rintocco del Terzo Quarto del Westminster Quarters, proveniente dalla torre dell’orologio del Big Ben, al Palazzo di Westminster di Londra. Qui in versione live da “Under A Blood Red Sky”.
25. Stay (Faraway, So Close!)
Nella babele cibernetica di “Zooropa”, “Stay” rappresenta una pausa emotiva, il ponte ideale tra la prima e la seconda parte del disco. Nato durante le sessioni di “Achtung Baby” con il titolo provvisorio “Sinatra”, essendo ispirato proprio al leggendario The Voice, il brano viene ripreso e completato per volere di Wim Wenders, che lo include nel suo film “Così lontano così vicino”, sequel spirituale de “Il cielo sopra Berlino”. Da questa collaborazione nasce una osmosi tra cinema e musica che accompagnerà gli U2 per un intero decennio, con il regista tedesco a fare da guru al volto più cinematografico della band. Musicalmente, “Stay” si muove in bilico tra malinconia e sospensione. Le sue armonie sottili, la linea vocale spezzata, la tensione trattenuta nelle chitarre e nei synth minimali costruiscono un senso di attesa e distanza: il brano vive in una dimensione onirica, notturna, quasi fantasmagorica. È una ballata solo in apparenza tradizionale, che scava però nei sottosuoli emotivi del dolore e della disconnessione. Con un testo, ambiguo e poetico, che pare raccontare di un amore impossibile, forse da parte di un angelo che osserva impotente la persona amata prigioniera di una relazione tossica. Versi come “And when I touch you, you don’t feel a thing” o “You say when he hits you, you don’t mind” suggeriscono un legame segnato dalla violenza, dall’alienazione e da un disperato bisogno di salvezza.
24. All Fall Down
Un soffice piano - a cura di The Edge - affiora per la prima volta in un brano della band dublinese. Ma sono sopratutto le pulsanti frasi di basso di Adam Clayton e la potente batteria di Larry Mullen jr a lasciare il segno su quasi tutto l'album "October" e in particolare in questa traccia. Un brano intimista, dolente. Spiega Bono: "Questa canzone parla del tentare, anche del fallire forse, ma almeno tentare". Il ritornello, però, è adrenalina pura, nel solco dei grandi classici della formazione irlandese. Non a caso diventerà uno dei momenti chiave dei primi concerti, resistendo nelle scalette anche all'avvento delle hit di "War".
23. One
Inflazionata quanto si vuole, terribilmente coverizzata – in alcuni casi – ma scriverne, di ballate così! Il lento per antonomasia di “Achtung Baby”, è un brano assieme evocativo e spirituale, interpretato da Bono con la devozione di una preghiera. "One" è l'instant classic nato per sbaglio, o meglio per caso da una sessione di prove sugli accordi di "Mysterious Ways". È una dichiarazione d'amore ambigua: esalta l'unicità e la sopportazione che verte in necessità per elevarsi e annientare allo stesso modo i sensi di colpa: “Have you come here for forgiveness/ Have you come to raise the dead/ Have you come here to play Jesus to the lepers in your head/ Did I ask too much, more than a lot/ You gave me nothing, now it's all I got”. “Le parole di “One” sono cadute dal cielo, un vero dono - ricorderà Bono - Il Dalai Lama ci aveva chiesto di partecipare a un festival chiamato Oneness, ma secondo me quell’evento aveva un carattere troppo hippy. Gli spedii un biglietto con scritto ‘uniti – ma non uguali’”. Ed era proprio quello il nuovo spirito da cui volevano ripartire gli U2: uniti nonostante le differenze. Verrà presa fin troppo alla lettera, “One”, al punto da diventare perfino un classico delle colonne sonore dei matrimoni. “Una forzatura del testo – spiegherà ancora Bono – perché la canzone parla di tutt’altro e quel verso, ‘We get to carry each other’, ci ricorda solo che non abbiamo scelta”. Ma il rock vive anche di simboli e slogan. E “One”, pur con quelle chitarre elettriche graffianti che grondano sofferenza e con il canto straziato di Bono che grida “un amore, un sangue, una vita", si trasformerà presto in una sorta di inno buonista universale.
22. A Sort Of Homecoming
“The Unforgettable Fire”, uno degli album più amati degli U2, è una sequenza di forti passioni e inni incandescenti. Un lavoro caratterizzato da una forte vena sperimentale, dove il contributo di Brian Eno, che non entra nel processo di scrittura ma il cui apporto è troppo peculiare e vigoroso per essere relegato alla mera definizione di "produzione", si sentirà eccome. Ne esce un sound etereo, vaporoso, impalpabile, un disco "impressionista", come verrà definito. "A Sort Of Homecoming" è uno shock in questo senso. Ci si ricordava degli U2 per "Sunday, Bloody Sunday" e per il piglio "macho" e guerresco delle loro live performance al fulmicotone, e invece l'opening track ha un tiro dolce, trasognato, e per di più si ispira a un poeta ebreo di origini romene, Paul Celan. "Tonight we'll build a bridge across the sea and land", canta un Bono elegiaco e orientato ai nobili ideali di apertura e comunanza. Del resto, la stessa "Pride" e "MLK", la traccia conclusiva (più che una canzone, un'invocazione sottesa da un tappeto sonoro drone), sono dedicate alla figura di Martin Luther King.
21. Christmas (Baby please come home)
Tra i numerosi brani di valore degli U2 che non figurano in album ufficiali c’è anche l’unica canzone natalizia della band irlandese, che in realtà è una cover di un grande classico interpretato da Darlene Love nel 1963 e firmato da Ellie Greenwich e Jeff Barry con Phil Spector. “Christmas (Baby Please Come Home)” è stata anche nominata da Rolling Stone “la miglior canzone natalizia rock di sempre”. Gli U2 ne registrano una cover nel 1987 durante un soundcheck del Joshua Tree Tour a Glasgow, in Scozia. Darlene Love contribuisce con i suoi vocals e la canzone viene incisa sulla compilation “A Very Special Christmas”. La resa è spettacolare: un numero di purissimo soul-rock senza tempo, che consente a Bono di esaltarsi in un’altra prova vocale da brividi.
20. Red Hill Mining Town
Gli U2 in America prima della svolta americana. “The Joshua Tree” nasce in una di quelle magiche terre di mezzo che nella storia del rock hanno spesso rappresentato l'humus dei capolavori. In migrazione verso la Terra promessa di Giosuè, all'ombra di quel cactus gigante che cresce nella Death Valley, ribattezzato proprio Joshua dai primi mormoni giunti in America. “The Joshua Tree” è il pellegrinaggio degli U2 verso l'eldorado del rock: “Outside it's America”, annuncia Bono in “Bullet The Blue Sky”. Ma sarebbe improprio parlare di strappi: gli U2 non rinnegano i loro umori europei, semmai coronano un percorso coerente che, dall'irruenza post-adolescenziale dei primi dischi e dalla consacrazione live sotto il cielo rosso-sangue del Colorado (l'epocale “Under A Blood Red Sky”) e nell'arena londinese di Live Aid (1985), li aveva condotti verso un rock più complesso, che rinunciava in parte alla frenesia chitarristica degli esordi, in favore di canzoni più calibrate e sperimentali, con testi sempre più infarciti d'impegno sociale e politico. È il caso di questa splendida “Red Hill Mining Town”, gemma nascosta tra le tante hit dell’album, che scende in campo al fianco dei minatori britannici bersagliati da Margaret Thatcher, sulle note di un'accorata ode elettrorock (“Le file sono lunghe/ E non c'è ritorno/ Attraverso mani d'acciaio/ E cuori di pietra/ La nostra giornata di lavoro è giunta ed è andata/ E ci lasci ad aspettare/ A Red Hill Town”). Altra performance vocale da brividi di Bono.
19. Spanish Eyes
Inspiegabilmente esclusa dai solchi di “The Joshua Tree”, questa canzone viene pubblicata solo come lato B del singolo “I Still Haven't Found What I'm Looking For” il 25 maggio 1987. Impregnata di una forte carica erotica, “Spanish Eyes” anticipa certe tematiche a sfondo sessuale che saranno al centro del successivo “Achtung Baby”, sposandole a un nuovo inno rock vibrante, con i riff taglienti di The Edge ad assecondare un’altra ottima prestazione vocale di Bono. Proprio il chitarrista ha ipotizzato chi fosse la protagonista del brano: “Credo che quegli ‘occhi da spagnola’ si riferiscano ad Ali (moglie di Bono, ndr). Penso che Bono avesse in mente proprio quello”. Il pezzo sarà eseguito spesso durante il Joshua Tree Tour, poi solo sporadicamente, soprattutto nei concerti spagnoli. L’importanza di “The Joshua Tree” è dunque testimoniata anche solo da tutti i brani che alla fine sono stati tagliati dalla sua scaletta e riproposti in gran parte come B-side dei singoli. Sarebbe potuto tranquillamente essere un album doppio senza perdere un grammo della sua qualità.
18. Like A Song
Il terzo album degli U2 è quello del definitivo ko. “War” (1983) convince anche i più scettici che Bono e compagni sono il presente e il futuro del rock. E detronizza nientedimeno che “Thriller” di Michael Jackson dalla vetta della Uk chart (primo n.1 per gli U2 nel Regno Unito). Merito dei due instant classic (“New Year’s Day” e “Sunday Bloody Sunday”) ma anche di una compattezza e di una continuità senza precedenti che la band irlandese mette in campo, svelando tutta la bellezza di tracce anche meno appariscenti. Proprio come questa “Like A Song”, con il suo incedere frazionato di batteria e chitarra che sostiene il canto di Bono, sempre appassionato e coinvolgente, nel dar vita a un’invettiva post-punk contro la guerra e le ingiustizie del mondo: “And in leather, lace and chains, we stake our claim/ Revolution once again”. (“E in pelle, pizzo e catene, ecco la nostra rivendicazione: rivoluzione ancora una volta”). Un inno generazionale alla mobilitazione, pervaso da quel senso di speranza che ritroveremo tre anni dopo nei Rem di “These Days”.
17. Mysterious Ways
Ad alzare i giri di “Achtung Baby” è il secondo singolo estratto, “il più funky dei martelli pneumatici”, secondo la definizione di Bono. Intitolato inizialmente “Sick Puppy” e ispirato al dramma di Oscar Wilde “Salomé”, “Mysterious Ways” si sviluppa attorno all’inconfondibile wah-wah di The Edge, puntellato dalla linea di basso granitica di Clayton e dal drumming impetuoso di Mullen che non risparmia anche bonghi dal sapore africano. Tra spezie mediorientali e aromi neopsichedelici di marca baggy (Stone Roses e Primal Scream in primis), Bono inscena una danza misteriosa e sfrontata, incalzato dalle tastiere pulsanti e dai clangori metallici della chitarra, per un inno alla sensualità femminile, degnamente rappresentata in formato videoclip da alcune danzatrici del ventre, una delle quali diverrà la seconda moglie di The Edge. “Johnny, fatti una passeggiata con tua sorella Luna, lascia che la tua camera si riempia della sua luce pallida. Stai vivendo sottoterra, cerchi di scappare da ciò che non capisci”, è l’esortazione che Bono rivolge a un ragazzo che vive chiuso in casa, intimorito dal confronto con le ragazze. Un’esortazione a vivere appieno le emozioni della vita che suona quasi come una premonizione del triste fenomeno hikikomori dei nostri tempi.
16. Sunday Bloody Sunday
I temi sociali e politici dominano il terzo album, “War” (1983), soppiantando le tematiche adolescenziali degli esordi. In copertina, il viso sconvolto e inquietante di Peter Rowen, il bambino di "Boy". Ma ora lo sguardo è severo e le labbra sanguinano: è l'atto d'accusa dell'infanzia contro la guerra. L'hit da ko è questa marziale rievocazione di uno dei drammi dell'Ulster: l'uccisione a Derry, nel 1972, di tredici civili da parte dei paracadutisti britannici. Introdotta dal pattern rullato di batteria su cui si inseriscono l'immortale riff di The Edge e i vocalizzi di Bono, con filigrana di violino elettrico folkeggiante in controluce, "Sunday Bloody Sunday", come sottolinea Bono presentandola live, “non è una canzone di ribellione, ma un inno di pace”. Ed è proprio la splendida versione dal vivo di “Under A Blood Red Sky” quella che abbiamo scelto. Adrenalina e commozione per una delle più celebri colonne sonore della tragedia irlandese dei Troubles.
15. October
Dopo l’euforia dell’esordio, la riflessione crepuscolare dell’opera seconda. Uscito nel 1981, “October” approfondisce in modo più consapevole e introspettivo i temi già affrontati su “Boy”, dall’adolescenza alla crisi sociale e alle tensioni politiche in Irlanda. È il disco di “Gloria”, con cui gli U2 dichiarano apertamente la loro religiosità (questione che aveva anche minato la serenità del gruppo, per via della partecipazione di Bono e The Edge alla setta religiosa Shalom). Ma a regalare un tocco ancor più magico all'album è proprio la title track, pezzo lento e caratterizzato dal suono del pianoforte – suonato da The Edge - che sprigiona tutta la malinconia tipica dell'autunno. Poco più di due minuti, per un episodio prevalentemente strumentale, marchiato da sparuti e spiazzanti versi: “October/ And the trees are stripped bare/ Of all they wear/ What do I care?/ October/ And kingdoms rise/ And kingdoms fall/ But you go on/ And on”.
14. Party Girl
Il “lato B” è da sempre parte integrante – e spesso ugualmente significativa – del repertorio della band irlandese. Una delle loro prime B-side è inserita sul retro del singolo “A Celebration”, uscito nel 1982, a cavallo tra gli album “October” e “War”. Si trattò essenzialmente di una mossa della casa discografica per tenere accesi i riflettori sugli U2 in assenza di singoli da estrarre dall’album precedente. Ma alla fine mentre “A Celebration” sarà praticamente dimenticata da tutti, il suo retro diventerà un classico delle loro scalette dal vivo. Si chiama “Trash, Trampoline And The Party Girl”, ma resterà poi abbreviato in “Party Girl”, a partire dal leggendario album live “Under A Blood Red Sky”, registrato a Red Rocks, così come l’omonimo film. Ed è proprio in questa emozionante versione dal vivo che abbiamo scelto questa ninnananna rock, che racconta la storia di una ragazza che ha bisogno di liberarsi di una triste nomea. Una perla dei primi U2, tutta giocata sugli arpeggi elettroacustici delle chitarre e su un basso cadenzato ad assecondare la vibrante interpretazione di Bono.
13. Where The Streets Have No Name
Al perfezionamento del magistrale incipit di “The Joshua Tree” - secondo Brian Eno - furono dedicate metà delle registrazioni dell'intero album. Una intro da antologia del rock - l'organo in dissolvenza, l'arpeggio di sei note in delay di The Edge, la batteria marziale di Larry Mullen - prepara il terreno a una delle performance vocali più memorabili di Bono, al quale si deve anche lo spunto del testo (un viaggio in Etiopia con la moglie dopo il Live Aid). Lo stesso leader ne ha però rivelato un altro significato: "A Belfast, a seconda della via dove qualcuno abita si può stabilire, non solo la sua religione, ma anche quanti soldi guadagna - addirittura a seconda del lato della strada dove vive. Così cominciai a scrivere di un posto dove le vie non hanno nome". Contribuirà alle fortune di “Where The Streets Have No Name” anche un videoclip-documentario che mostra un'esibizione a sorpresa del gruppo sul tetto di un edificio a Los Angeles, con il traffico impazzito e la polizia in panne.
12. Love Comes Tumbling
La title track di “The Unforgettable Fire”, uscita come secondo singolo, nascondeva un altro gioiello sul lato B. Ovvero, questo brano sofferto, intimista e struggente, incentrato ancora una volta su una storia d’amore. Una splendida canzone venata di disillusione ma anche di romanticismo, con versi come “L’amore non ha bisogno di trovare una via/ Tu troverai la tua via/ Io dimentico di non poter restare/ E così dico che/ Tutte le strade portano dove sei tu”. Parole che però feriscono profondamente, nascondendo tutta l’amarezza che aleggia tra i protagonisti. E il brano sembra descrivere un incontro d’amore proibito, calandoci in un’atmosfera fatta di silenzi e riflessioni sottovoce: “Il seme è versato, il letto profanato/ Per te, una sposa vergine/ Io sono te in qualcun’altro/ Non cercare te stessa in me/Io non posso risollevarti ancora/L’amore crolla giù ancora”. Il tutto giocato sul suono delle parole, sull’armonia della pronuncia, sulla calda vocalità di un Bono ammalato di malinconia, che lotta costantemente con l’interpretazione, calandosi interamente nella sofferenza amorosa. A supportarlo, arrangiamenti raffinati in cui le tastiere e un basso pulsante si sposano al fraseggio chitarristico. Pubblicato anch’esso sull’Ep “Wide Awake In America”, resta uno dei capolavori nascosti degli U2. Anche nei loro concerti, dove purtroppo non ha mai trovato posto.
11. Zooropa
Apice della vocazione sperimentale degli U2 negli anni 90 è lo spiazzante “Zooropa”, che esce nel 1993, co-prodotto da the Edge, Brian Eno e Flood. Bono Vox definirà l'esperimento “un album pop surreale”. A dare il titolo al disco è questo formidabile brano, che dopo la lunga intro atmosferica scandita dal piano con tonalità quasi ambient tra voci ronzanti, esplode al minuto 2 con il wah-wah cibernetico di The Edge a far da contrappunto alla voce di Bono, che ormai sembra restare l'unico elemento umano tra il basso di Clayton e la batteria di Mullen, caricate elettronicamente da Eno. Gli U2 riprendono in mano il telecomando multimediale e sulla loro tv planetaria appare un nuovo futuristico canale di nome Zooropa.
10. Love Is Blindness
“Achtung Baby” resta in ogni caso lo snodo sperimentale per antonomasia nella carriera della formazione irlandese. Bono e compagni inaugurano la svolta tecnologica degli anni Novanta scegliendo Berlino come loro nuova mecca e confermando alla produzione il duo Eno-Lanois. La confusione ultrasonica si erge al posto del Muro che è crollato due anni prima. E Berlino diventa il centro del mondo con il suo tempio rock degli Hansa Studios By The Wall, i celebri studi nei quale David Bowie registrò, sempre con Eno, la sua "trilogia berlinese". I suoni si fanno futuristi, elettronici e cupi, anche nelle hit (se si eccettua la malinconica ballad “One”). E anche il commiato finale, apparentemente tranquillo, è in realtà carico di paura e angoscia, con Bono che canta “Love Is Blindness” (“l'amore è cieco”), suggerendo un parallelismo tra l'amore e un incombente senso di morte, mentre The Edge si concentra su organo e tastiere, appoggiandosi sulle note flebili di Clayton e sui battiti sottili di Mullen. L'ironia e il frastuono della modernità si ritirano per fare spazio a un'amara – e splendida - riflessione sul disincanto.
9. One Tree Hill
Spesso (fin troppo) celebrato per i brani della prima metà, “The Joshua Tree” svela però una seconda parte ancor più sorprendente, con tracce meno celebri, ma spesso anche più suggestive. Canzoni in cui l’emozione scaturisce col minimo degli orpelli, come in questa meravigliosa ballata in crescendo intitolata "One Tree Hill" e dedicata - insieme all'intero disco - a Greg Carroll, roadie della band, morto in un incidente in moto a Dublino. La collina di One Tree Hill nei pressi di Auckland (Nuova Zelanda), terra nativa del giovane maori, fa da sfondo a un commosso ricordo dell'amico scomparso, con i vocalizzi struggenti di Bono a impreziosire un testo personale, colmo d'emozione e lirismo: “The moon is up/ And over One Tree Hill/ We see the sun/ Go down in your eyes/ You run like a river/ On like a sea…”.
8. The Unforgettable Fire
La traccia che dà il titolo a uno dei dischi più amati degli U2 è ispirata da una mostra di quadri eseguiti dai superstiti della bomba atomica di Hiroshima (6 agosto 1945), anche se poi il testo mescola altre situazioni: istantanee da una storia d'amore ma non solo, in un collage di impressioni solo apparentemente slegate fra loro. “E se la montagna si sbriciolasse – canta Bono - O scomparisse nel mare. Non una lacrima, no non io. Resta in questo tempo. Resta stanotte”. Il terrore dell'olocausto nucleare è un tema molto dibattuto negli anni 80, specie in ambito new wave, non a caso è al centro anche di un altro rilevante album del 1984, "Lament" degli Ultravox.
Dopo l’intro, affidata ad arpeggi di chitarra immersi in riverberi e delay, che definiscono un clima di sospensione onirica, mentre le tastiere si insinuano con timbri eterei, quasi ambientali, il brano costruisce un crescendo progressivo e misurato, che non esplode mai ma si consolida lentamente, accumulando tensione emotiva, con la sezione ritmica che guadagna dinamismo, ma senza mai sopraffare l’impalpabile delicatezza dell’arrangiamento. Bono guida questa ascesa con un’interpretazione vocale superba, che da timbri sommessi e meditativi evolve in frasi più accese, mantenendo una tensione lirica e spirituale che non si risolve mai in vero sfogo. Unforgettable.
7. In God’s Country
Per chi scrive, la vetta emotiva di “The Joshua Tree”. Torna l'epopea degli spazi sconfinati e del deserto americano in tutta la sua potenza evocativa tra i riff incandescenti di questa splendida ode al lato oscuro del sogno a stelle e strisce, con piglio rock'n'roll e intro molto simile a quella di "Where The Streets Have No Name" - e forse non è una coincidenza: il demo iniziale dell'opening track, di cui parla The Edge nel documentario "It Might Get Loud" (2009), pare suonasse all'incirca in quel modo. Anche qui la band irlandese ricorre al suo classico espediente di una partenza più morbida – qui con chitarre acustiche arpeggiate – cui subentrano le scudisciate elettriche di The Edge e l’irruzione della sezione ritmica. Riemerge la nobile vena rock della band, pur filtrata attraverso la maturità sonora acquisita nel periodo della collaborazione con Brian Eno e Daniel Lanois. The Edge è protagonista assoluto, con la sua ragnatela di riff circolari e scintillanti, sorretti da un uso sapiente del delay che amplifica la percezione di uno spazio desertico; Clayton e Mullen Jr. imprimono una spinta propulsiva costante, mentre Bono plasma la sua ugola appassionata con linee melodiche anthemiche, che accentuano la natura di denuncia del brano. Il "God’s Country" è una terra di promesse disattese, dove la bellezza dei paesaggi sconfinati si scontra con la povertà spirituale e le contraddizioni sociali.
6. I Will Follow
La prima vera hit degli U2. Ma soprattutto i primi riff di The Edge a lasciare il segno. Due semplici accordi fanno esplodere il brano, tra un beat pulsante, percussioni metalliche e un ritornello d’amore reiterato come un mantra (“If you walkaway, walkaway/I walkaway, walkaway/ I will follow”). Con la voce ancora acerba di Bono a donare un senso di esuberante freschezza giovanile a un brano ispirato però da una circostanza triste, la scomparsa della madre del frontman. Grazie anche alla produzione calibrata del fido Steve Lillywhite, il suono degli U2 svetta subito per energia e carica emotiva, coniugando la lezione post-punk dei Joy Division. È il singolo trainante di “Boy”, il debutto su Lp, marchiato in copertina dal viso innocente di Peter Rowen, fratello minore di Guggi dei Virgin Prunes, altra grande band del periodo che seguirà strade più sperimentali e sotterranee. Il brano è sostenuto dalla solida chitarra di Edge che intesse un riff tagliente, che fa già instant classic: “Quando arrivò ‘I Will Follow’ – ricorda il chitarrista – capii che avevamo sfondato con qualcosa di speciale”. Eppure quello storico riff nacque di getto, creato da Bono in un momento di rabbia: “Ricordo che per provare a riprodurre un suono che avevo in testa strappai la chitarra dalle mani di Edge e ci diedi sotto”. Quando si dice l’urgenza espressiva…
5. Gloria
Riuscire a far breccia in ambito rock con un inno religioso dal ritornello in latino: solo agli U2 poteva riuscire l’impresa! Merito di questo fantastico brano di “October” in cui Bono e compagni dichiarano apertamente la loro religiosità. “Gloria... in te domine, Gloria...exultàte”, canta Bono. Una preghiera laica, certo, ma anche la testimonianza delle perplessità per il crescente successo che gli U2 stanno vivendo e del difficile modo di conciliarlo nell'ambito di una concezione cristiana della vita. "Gloria" è uno stupefacente condensato di energia e melodia rock: la strofa trascinante e sorretta dal riff di The Edge ci conduce all'epico ritornello dove Bono ha libertà di spaziare con la propria voce sui ricami effettistici della chitarra. Un perfetto condensato di furore ed epicità, di ansia e spiritualità, concentrate in un formato canzone sì tradizionale, eppure capace di rinnovare il vecchio rock’n’roll con le suggestioni e le fascinazioni tipiche del post-punk e della new wave.
4. Walk To The Water
Un altro capolavoro nascosto, realizzato in quello che resta probabilmente il periodo di massima ispirazione e prolificità della formazione irlandese. Resta un mistero il motivo per il quale sia rimasto fuori dalla scaletta finale di “The Joshua Tree”. Forse anche per gli stessi U2. Non a caso The Edge racconterà: “A me pareva venisse fuori così bene, ma ci mancò il tempo per prepararlo prima della fine dell’album”; mentre poco prima dell’uscita del disco, Bono aveva confidato a Hot Press: “L’album è quasi incompleto. ‘With Or Without You’ non ha molto senso senza ‘Walk To The Water’. E ‘Trip Through Your Wires’ non ha molto senso senza ‘Sweetest Thing’”. Si tratta quindi, probabilmente, di uno dei capitoli di una stessa storia presente nel disco. Fatto sta che la camminata sulle acque di un divino Bono resterà relegata solo a lato B del singolo “With Or Without You”, benché lo stesso cantante avrà modo di definirla – a ragione - “la sua miglior performance vocale di sempre” (ascoltare per credere il climax che esplode sul verso “Let me love you”). Inizialmente intitolata “Present Tense”, “Walk To The Water” riprende per larghi tratti uno stile narrativo in spoken word alla Patti Smith, con Bono intento a narrare in chiave poetica l’incontro tra i suoi genitori su un fondale sonoro psichedelico, dove i rintocchi stonati del piano si abbinano agli arpeggi struggenti della chitarra di Edge, mentre il basso di Clayton regge il gioco e Mullen accompagna il tutto con calma apparente.
Tra i vertici assoluti degli U2.
3. Pride (In The Name Of Love)
Inflazionata? Forse sì, ma pazienza. “Pride (In The Name Of Love” sono gli U2 al massimo della potenza: epica, lirica, vocale. Il singolo trainante di “The Unforgettable Fire” resta uno degli inni più vibranti dell’intero decennio 80, con l’urlo a ugola spiegata di Bono (“In the name of love”) a suggellare la commossa dedica a Martin Luther King, il reverendo leader del movimento nero e profeta della pace, che Bono & C. omaggeranno anche con un brano del disco, che porta solo le sue iniziali: MLK. Bono sfoggia qui il suo registro più epico e disperato, ma a sorreggere “Pride” è anche il memorabile fraseggio chitarristico di The Edge, che condensa al meglio il suo stile, ricco di powerchords e delay. Il rock forte e intenso dell'esordio acquista una patina magica, colorandosi di tonalità sempre più solenni ed epiche. Ma tutto è ancora perfettamente calibrato e autentico.
2. Until The End Of The World
Su “Achtung Baby” gli U2 vogliono scrollarsi di dosso l’immagine di salvatori del mondo. Così, dopo aver indossato i panni del diavolo, Bono può tornare anche alle sue amate parabole bibliche, seppur molto distanti da quei primi ferventi salmi dell’era di “Gloria”. In “Until The End Of The World”, infatti, l’ipotetico dialogo tra Giuda e Gesù in cui il primo cerca di scusarsi per il suo tradimento è calato in un’atmosfera torbida e blasfema. Un’idea ispirata a Bono dalla visione di un film potente come “L'ultima tentazione di Cristo” di Martin Scorsese (con le straordinarie musiche di Peter Gabriel), ma anche dalla lettura di “The Book Of Judas” di Brendan Kennelly, raccolta di poesie sul tradimento ai danni di Gesù, contenente un verso - “Il modo migliore per trattare la propria età è tradirla” – che suona come una sorta di manifesto per l’intera operazione “Achtung Baby”. Originata da un riff di chitarra che Bono aveva composto in un demo del 1990 (“Fat Boy”), “Until The End Of The World” riaccende l’antico furore dei primi U2, sull’abbrivio di quell’intro martellante scandita dai tamburi a mo’ di danza maori: l’irruzione del riff di The Edge è una scudisciata elettrica, il canto pacato, quasi recitato, di Bono non rasserena, ma aggiunge semmai un ulteriore senso di straniamento, mentre rievoca l’ultima cena degli apostoli: “Last time we met was a low-lit room/ We were as close together as a bride and groom/ We ate the food, we drank the wine/ Everybody having a good time/ Except you/ You were talking about the end of the world”. Poi, tra le plettrate pungenti di The Edge, la rivelazione del tradimento nel giardino del Getsemani: “Ho baciato le tue labbra e ho spezzato il tuo cuore”. Con la coda arroventata di Clayton e The Edge a scatenare il caos attorno ai vocalizzi di Bono. Una prodezza che da sola vale quasi il prezzo dell’intero disco. Non sfuggirà a Wim Wenders, che la vorrà nella ricchissima colonna sonora del suo omonimo film del 1991.
1. New Year’s Day (live)
Uno degli indiscussi capolavori dell’U2, che incidentalmente è anche il preferito di chi scrive. “New Year’s Day” nasce da uno spunto curioso: Clayton stava cercando di suonare "Fade To Gray" dei Visage (la band new romantic con Billy Curie e Midge Ure degli Ultravox, oltre al duo Steve Strange-Rusty Egan e tre quarti dei Magazine), quando ideò l'incredibile linea di basso che avrebbe poi fatto da architrave al brano, in combutta con il sognante giro di piano suonato da The Edge e il ritmo incalzante del drumming. Su questo tappeto sonoro si stende la voce di Bono, in un nuovo saggio della sua straordinaria estensione da soulman mancato. Il singolo entrerà dritto nella Uk Chart, forte anche di un efficace videoclip, girato nei ghiacci della Svezia. Il testo, invece, nato inizialmente come "semplice" canzone d'amore scritta da Bono per la moglie Ali, acquisì presto un messaggio più ampio, finendo per parlare della rivolta popolare polacca guidata dal movimento del sindacato indipendente dei lavoratori Solidarność, fondato in Polonia in seguito agli scioperi nei cantieri navali di Danzica e guidato da Lech Wałęsa, premio Nobel per la pace nel 1983.
È uno dei capisaldi di “War”, ancora una volta, però, abbiamo scelto la versione live da “Under A Blood Red Sky”, in cui il brano acquista più dinamismo e intensità, a partire da quel grido iniziale rotto dall’emozione (“Yeaaah”) di un Bono nel pieno della sua consapevolezza di rockstar eppure ancora incredibilmente “puro” e quasi naif nella sua irrefrenabile esuberanza. Impossibile per chiunque abbia amato i veri U2 restare insensibile alla carica emotiva di questa performance.
La playlist completa
18/05/2025