SABRINA NAPOLEONE - CRISTALLI SOGNANTI (Lilith, 2023)
songwriter
Per il suo terzo “Cristalli sognanti” l’autrice genovese Sabrina Napoleone, qui per certi versi anche compositrice tout-court, si serve di interventi mirati da parte di Salvatore Papotto e della conterranea Cristina Nico, degli archi di Alice Nappi e Osvaldo Loi, di registrazioni ambientali a cura di Cristina Cavalli. Ma perlopiù questo è un suo progetto personale tendente all’estremo. Il singolo “Critone”, una dedica a tempo techno irregolare e cori gravi, espone il fianco al lato commerciale dell’operazione. Il fatto artistico si tasta altrove, a cominciare dal breve prologo di “Gardur”: una ninnananna che bonifica un brodo primordiale di microsuoni e a sua volta svanisce in un adagio campestre per viola. Il suo flusso di coscienza talvolta si inceppa verso la fine del suo corso, come in uno stato di trance, e si lascia semplicemente affogare in un altro flusso. Al suo meglio questo avviene in “Palazzo”, dove una meditazione sobria, quasi danzante, e al contempo ferma e lapidaria, si slarga ad libitum in una cantilena senza parole fino a sovrapporsi in un monologo interiore degno del “Cielo sopra Berlino” (Wenders). In “Stupidi disperati” il suo flusso ha invece un accento di schizofrenia agrodolce (anche nell’arrangiamento spezzato da un brutale beat rimbombante). Quando si riscopre cantrice apocalittica, vedi “Come 7/4”, si fa sventrare da un funk pesante e ronzii vaganti. Più che ne “La visione dell’occhio di Dio”, recitazione in una soundscape dissonante che non trova grande affondo, la creazione più ficcante dell’album sta in “Chimera”, una Nada riarrangiata dai Sunn O))) e remixata da Burial. Napoleone chiude tutto con un numero senza canto, gli 8 minuti di “Mevidda”, la sua idea di caos finale: strati di synth impressionisti, sottofondo di cori tribali, battito da rave, incalzare di percussioni povere. Non tanto canzoni (peraltro attaccate una all’altra in forma-suite) quanto tasselli di un’invettiva, un grido attutito all’umanità e uno scavo di moralità imbevuto di miti e dottrine platoniche, cristologia evangelica e la nota disputa tra patristica e scolastica, e brillantato da uno zapping snervante tra codici e registri. Seguito dei già interessanti “La parte migliore” (2014) e “Modir Min” (2016) e loro superamento in fatto di libertà creativa con cui le si perdonano volentieri ammaccature di scrittura e slanci poco calibrati. Il titolo omaggia il classico di T. Sturgeon. Co-prodotto con La Stanza Nascosta (Michele Saran, 7/10)
ANIELLO PERDUTO - CADE LA NEVE SOVRANA, VICINA È LA STELLA LONTANA (Setola Di Maiale, 2024)
avant-jazz
Guai a dar troppo credito alle copertine. Abruzzese ricollocato a Bologna, eretico di estrazione conservatoriale, il batterista/sassofonista Roberto Di Blasio si cela dietro un mosaico dalle suggestioni bucoliche, tra i Pavlov’s Dog e Iron & Wine, ma ammicca a un avant-jazz nevroticamente metropolitano, dalle ricorsive nervature minimaliste. Nulla a che spartire, in ogni caso, con la nuova vulgata acchiappa-classifiche di fine anno: il pentagramma dell’autarchico compositore-esecutore ricalca più Eric Dolphy, Jimmy Giuffre o Anthony Braxton che Matana Roberts, Camae Ayewa o Jaimie Branch, con la dotta “achab, bartleby, primigeni” che non avrebbe sfigurato su “The Shape Of Jazz To Come”. La parola d’ordine è destrutturazione, ma gentile: docilmente sincopati e ossessivi, concisi come i jingle di “Commercial Album”, i 16 brani non cedono terreno al caos, prediligendo una dimensione sommessa, quasi sottovoce. Fa eccezione “crescete e moltiplicatevi”, oltre 10 minuti all’insegna di un drone oppiaceo, direttamente dalla pipa di La Monte Young. I titoli bizzarri, tra il fiabesco e il proverbiale, al pari dell’intro e dell’outro (rispettivamente affidati alla field recording acquatica di “che gorgo ti aiuti” e alla sinistra nenia infantile di “rilucere”) suggeriscono un impianto concettuale, da jazz-opera, ma l’autore si è guardato dal fornire ulteriori dettagli, puntando a un laconico ermetismo che lascia vagare la fantasia. Un buon acquisto nella sporta griffata Setola di Maiale, che giusto l’anno scorso ha tagliato il traguardo dei 30 (Ossydiana Speri, 7/10)
MARCO FRACASIA - ADELAIDE (42, 2023)
alt-pop, songwriter
Cantautore torinese, Marco Fracasia si è affacciato per la prima volta all’attenzione nazionale grazie a un Ep pubblicato nel 2022, “Adesso torni a casa”: cinque tracce passate troppo inosservate, ma che lo hanno comunque posto nelle condizioni di incrementare il numero di date utili per portare la propria musica sui palchi della nostra penisola. “Adelaide”, la sua opera seconda, porta in dotazione altri sei brani (un paio dei quali già anticipati come singoli) che confermano il processo di crescita di Marco, un talento puro e irregolare, confermatissimo su 42 Records e distribuito da Sony Italia. Prodotto da Marco Giudici (già a fianco di Any Other, Rares e Generic Animal), “Adelaide” propone ballate intime ma allo stesso tempo nervose, che partono spesso da un giro di chitarra acustico, melodico e rarefatto, per poi aprirsi alle soluzioni più inattese, inglobando riferimenti che vanno ben oltre il classico pop italico, spaziando dall’alt-country di Wilco e Father John Misty al lo-fi di matrice statunitense, con crescendo che raccolgono anche beat dritti e qualche deriva psichedelica (specie in “Funerale”, il momento più rock del progetto). Un prodotto di alt-pop chitarristico (In “Mamma e Papà” si scorge anche qualche influenza dei Verdena) che non intende mai rinunciare a quel velo di malinconia in grado di mantenerlo come saldo riferimento nell’underground. Al banchetto, dopo i concerti, troverete anche un box a tiratura limitata, con copertina alternativa, contenente entrambi gli Ep sin qui diffusi. Potrebbe rivelarsi un ottimo investimento (Claudio Lancia, 7/10)
VONNEUMANN - JOHNNIAC (Ammiratore Omonimo, 2023)
avant-rock
Indefessi sperimentatori “free-rock” sulla breccia ormai da più di due decadi, i capitolini Vonneumann hanno proceduto per frequenti pause che ne hanno rilanciato di volta in volta la carriera. Non fa eccezione lo iato che intercorre tra l’ultimo “NorN” (2017) - invero uno dei loro album più facili - da un “Johnniac” proteso invece a farli tornare repentinamente alla loro vena felice, pure fregiandosi di una spinta inventiva aliena. L’insistenza con i remix dei precedenti progetti (“DorD”, 2017, su tutti) qui serve a impreziosire una jam post-tutto a rapida combustione come “El Carinebo”: con il medesimo passo svelto muta in senso post-post-dub(step) avvicendandosi con un concertino di inceppamenti e schegge elettroniche. Analoga “Il Daughter Brother”: da una musique concrete Pierre Henry di cigolii a un’esilarante coda di esilarante isteria spagnoleggiante. Le variazioni frammentarie, le evoluzioni tortuose King Crimson-iane e i relativi crescendi spezzati di “Oblivioli” sono tallonate dalla grezza vibrazione del synth. “Zinci Theme” è una creazione elettronica di rimessa basata su un loop ciondolante, ma anche questa rivela meccanismi cibernetici e una dinamica instabile. Forse un po’ troppo tirato via e incoerente è il balletto di nuovo cibernetico ma pure scalcagnato di “AsciugaDramm”, ma “Fußecurity” inventa dal nulla una cadenza di sbuffi techno, contrabbasso swing, chitarra gorgogliante e “drill” elettronici. Grazie alla registrazione “buona la prima” in presa diretta e la produzione senza ritocchi d’editing, il disco suona arruffato, nevrotico, pieno di ipnotici, incantevoli cambi di passo e allo stesso tempo glacialmente cervellotico. Più che per la devastata atmosfera convince per il bilanciamento istintivo tra composizione - più gesti folli che composizioni - e invenzione a getto. Arcigna risposta contro la nuova avanzata dell’AI. Il “Johnniac” del titolo fu la prima applicazione computeristica delle progettazioni di J. Von Neumann (Michele Saran, 7/10)
METIDE - EREBOS (Black Lion, 2023)
prog-metal
I quattro Metide di Bergamo riprendono grossomodo da dove finiva “Circadians” (2022) per espanderne la portata in altre tre corse progressive post-metal che si prendono il loro tempo. “Acheron” muove da registri marcianti a schiacciasassi Neurosis-iano, avvegnaché perda potenza anziché guadagnarla (a parte qualche picco di distorsione nucleare). Il ritmo rallenta considerevolmente nella “Lethe” di palese ispirazione Isis, nobilitata comunque da una sezione strumentale in crescendo lirico e aspro. Maggiormente diretta dalle chitarre anziché dal canto, la processione mossa e scenografica di “Styx” fa sentire glissandi tremolanti, accordi lapidari e stridori espressionisti. Stoica, tutta d’un pezzo ma anche superflua suona poi “Phlegethon”. Concept dedicato alle cinque formazioni fluviali dell’Ade, una promenade per le arterie degli inferi mitologici di veemente monumentalità che ha il miglior acume nelle introduzioni elettroniche ai pezzi (pugno del leader Carissimi), momenti dissonanti, sanguigni, a tratti quasi estremi, una fucina di suono che si richiude subito ma che in chiusa forgia il bozzetto pianistico-industriale di “Erebos”. Il resto mostra limiti compositivi nel tener fede e sostanza a tanta ambizione, ma si erge grazie al meditato equilibrio tra solidità d’esecuzione, growl dosato e produzione tersa (Enrico Baraldi, garanzia) (Michele Saran, 6,5/10)
YOU’VE BEEN CROCODILED - ROLLERCOASTER (autoprod., 2023)
punk-rock, garage-punk
Punk-rock in giostra con sferzate di matrice garage e rock‘n’roll, elementi jazz, sfumature pop e molto altro, è la ricetta offerta dagli You’ve Been Crocodiled, band bresciana guidata da Silvia Giangrossi, all’interno del loro debutto “Rollercoaster”. La strada intrapresa a livello di sound rimanda parzialmente a progetti come quello dei giovani Bobby Lees, Stiff Richards, e dei poliedrici Screaming Females. A fare da traino sono i dinamismi dell’irresistibile “Tie-Wearing Bitches”, continuando con le strofe sprechgesang e il ritornello martellante a-là “Dig Your Hips” di “You've been crocodiled”, e la bassline in primo piano nella grintosa “Undermined”. I cori di “Mr. Soup” mostrano un lato pop rétro a cui fa seguito una coda strumentale arricchita da fraseggi di chitarra e tromba, quest’ultima protagonista anche dell’intermezzo jazzato nella successiva “Secret Show”. I passaggi pseudo-rap di “Shepherd Of Black Sheep” mettono in luce ulteriormente la varietà di registri vocali sfruttati dalla frontwoman lungo il percorso, mentre la valida stoccata “Right-Wing Manifesto” riprende parte delle sonorità dell'opener, rallentando improvvisamente a metà per lasciare spazio ad atmosfere bluesy rette da guitar-riff languidi e lontani. Il crescendo di “Candy Striper” e i passi decisi di “Third-Order Enclave” si avviano verso la chiusura nel segno del surf-punk con la strumentale “Crimson Gale”, lasciando calare il sipario su accenni di tromba e batteria. Un progetto eclettico e divertente che con un pizzico di coraggio in più potrebbe riservare buone soddisfazioni; da tenere d’occhio in attesa del prossimo giro di boa (Martina Vetrugno, 6/10)
M.ARMO - SALITE LIBERE (Seahorse, 2023)
alt-pop
Formati a Bologna nel 2020 come ipotetico trio e poi completati a quintetto, i M.armo debuttano con “Salite libere”. Punti forti sono i folk-rock che s’impennano a furore crescente importando anche qualcosa dal cosmo prog, da “Sogni Adolescenza”, a “Atene”, all’eponima “Salite libere”, fino a una “Catene” già più anomala, dei Sun Kil Moon a tripla velocità. Via via serpeggia il sospetto che la band possegga qualità strumentali superiori rispetto a quanto appare dai pezzi cantati, e questo difatti dimostrano piccole fantasie come “Se camminando” e “La strada per il mare”. Qualche sbaffo in questa raccoltina di umili canzoni d’autore dal passo vispo e dal calibrato senso della melodiosità: uno scadimento pop come “La macchina del tempo”, una voce da crooner italico alla Nek non sempre funzionale, un riempitivo evitabile (“Atene” rifatta all’ukulele). Produzione appropriata (Fausto De Bellis), mainstream ma non troppo, aguzza sui medio-alti per esaltare un convintissimo “guitar sound” che ha solo un’eccezione di pianola e mellotron, timida che sembra persino una svista, nell’intermezzo di “Io non so chi sei”, altro apice a un soffio dal roots (Michele Saran, 6/10)
KOMAROV MAGNIFICENT BACKFLIP - FINGERBLAST (autoprod., 2023)
garage-punk
Sudore e poghi fuori controllo sono i primi elementi evocati da “Fingerblast”, esordio dei Komarov Magnificent Backflip. Il quartetto di stanza a Bologna prende le mosse da sonorità garage-punk, incorporando alternativamente scalmanate note surf, dettagli synth-punk, e qualche deviazione in ambito krautrock e post-rock. Ad aprire l’album, oscillando tra influenze che comprendono gli Agent Orange di “Living In Darkness”, i primissimi Mudhoney, e l’hardcore-punk dei Black Flag, sono le stilettate di basso e le schitarrate veloci di “MB”, proseguendo con i giri di batteria della forsennata “Pet Me”, traccia in territorio egg-punk à-la Gee Tee. L’intro tremolante di “Repo”, uno dei pezzi cardine del disco, riporta la testimonianza frammentaria di una serata di ordinaria follia nella città felsinea, e prosegue nel solco tra garage-punk, guizzi sintetici e surf delirante. Le arie rock‘n’roll conferite dai ritmi e i guitar-riff di “Ballad'ines” precedono il lungo brano strumentale “Icoma”, che intervalla barlumi seventies tipici del krautrock a sentori hard-rock, per poi sfumare verso atmosfere post-rock e progressive (con qualche memoria floydiana) nella seconda parte. Un ulteriore riflettore è puntato sull'efficace doppietta distruttiva “40” e “S.M.Y.T.”, dove le possibili citazioni scorrono a fiumi, con un assolo di tastiera conclusivo dal sapore anni Settanta nel primo caso, e parziali richiami al post-hc dei Fugazi nel secondo, ma con un risultato credibile, poiché sapientemente rielaborate. La conclusione è affidata alla strumentale “Sunker”, i cui riffrimandano a un classico garage-rock sixties come “Stroll On”, in chiave stravolta e allucinata. Nulla di troppo pretenzioso, sebbene con ottime potenzialità; la sicurezza matematica è quella di una dimensione live dove ci si diverte, e si prende (e restituisce prontamente) anche qualche legnata (Martina Vetrugno, 6/10)
TOTI POETA - TUTTA QUESTA MERAVIGLIA (Viceversa, 2023)
songwriter
La carriera di Toti Poeta, siculo (Barcellona Pozzo di Gotto), sembra interrompersi dopo il trittico dei suoi “Toti Poeta” (2006), “Lo stato delle cose” (2008) e “L’ora di socialità” (2012), nel segno del più classico (ma in qualche canzone anche spumeggiante) cantautorato folk italico. Ben undici anni dopo tuttavia ricompare con un quarto “Tutta questa meraviglia” trasformato, plasmato ma anche plagiato dal fenomeno it-pop frattanto occorso nella musica indie italiana. C’è comunque una certa voglia - pur in sottopelle - di farsi ispirare dal maestro conterraneo Battiato, soprattutto quello techno-pop degli 80: “Qualcosa per cui essere contento”, “Le promesse che mi faccio al buio”, “La vita passata” (qui anche qualcosa del Venditti pop). Energia d’hit radiofonica la possiede “Piramidi”, ma Toti trova sé stesso soprattutto in “Siamo briciole”, musicalmente arretrando al lento da balera e, con un contrasto abbastanza netto, liricamente ampliandosi con un canto universalistico. Non una grande mossa farsi produrre dal genietto pop retrò Gianluca De Rubertis: le canzoni suonano sciolte nel loro stile domestico-ma-collettivo ma spesso si azzuffano da sole per uscire dalla derivazione autoimposta e scolpire melodie originali. Un de profundis per le amene introduzioni di piano - forse la cosa migliore - subito corrivamente schiacciate, piegate al battito ballabile, senza respiro (solo per “In assenza di iodio” durano un soffio di più), e un encomio per il lavoro di asciugatura (niente riempitivi) (Michele Saran, 5,5/10)
TRISTITROPICI - MAGICAL ANIMAL EP (Slowth, 2023)
post-rock
Dall’opus secondo del quartetto bolognese desunto in parte dai Machweo (e con Giulio Stermieri), l’Ep “Magical Animal”, spicca facilmente il singolo di punta, “Posthuman”, d’un lavorio luminescente metafisico di chitarra Peter Green (Dario Martorana) che, difatti, capitola in un catastrofismo esotico analogo all’“End Of The Game”. Sia pur molto valida, è però solo un’intuizione, forse persino un’ipotesi, che non trova alcun seguito. L’unico pezzo cantato, “Molle mare”, una nenia tropicalia alla Jobim in un contesto di fusion improvvisata, è anche uno di quelli col maggior corpo (ma sempre meno di 4 minuti). Il resto spazia dalla timidezza (“Opening Theme”, “Cowboys”) alla pura e semplice mancanza d’idee (la discomusic di “Car Sharing” e “Lemongrass”). Passo indietro all’insegna di una mollezza insicura bisognosa di stampelle (I Hate My Village dietro l’angolo) rispetto al primo omonimo “Tristitropici Ep” (2021) (Michele Saran, 4,5/10)