Sulle orme dei Pink Floyd

The Cover Side of The Dark Side Of The Moon

Fiumi di inchiostro, di parole, di celebrazioni e di critiche anche feroci: il 2023 verrà ricordato, volente o nolente, per il cinquantenario del disco più iconico e divisivo della storia del rock: “The Dark Side Of The Moon” dei Pink Floyd. Che sia l’album più venduto della storia o l’apoteosi produttiva del fenomeno rock è in verità materia per discussioni da social o di libri destinati a rimpolpare il già cospicuo numero di trattati storici, sociologici e artistici. Quel che è storicamente certo è che il disco rappresentò per la band inglese un punto di svolta, frutto di un periodo complesso. Le difficoltà nel gestire l’attività live e quella discografica imposero al gruppo un cambio di prospettiva. Nacque così il progetto più fortunato della loro carriera.
I Pink Floyd si riunirono a Camden nella casa a Sant’Augustine Road di Nick Mason, poche idee e una serie di riff e residui di melodie incompiute erano tutto quello che Roger, Nick, David e Rick avevano tra le mani. I quattro musicisti decisero di gettare giù un elenco dei problemi derivanti dalle tensioni sociali che affliggevano l’umanità, dando a Roger Waters il compito di elaborare una serie di testi che affrontassero in modo organico le varie problematiche: il lavoro, i soldi, le malattie mentali, la solitudine, la paura di volare, la morte. I testi messi a punto da Waters sono eccellenti, chiari e definiti come non mai, al punto che la band per la prima volta decide di inserirli nell’album, le musiche nascono spontanee, stimolate dalla grande forza visionaria delle parole di Roger Waters, l’album prende forma con il titolo provvisorio prima di “Eclipse” poi di “Dark Side Of The Moon, A Piece For Assorted Lunatics”.
Nel febbraio del 1972, al Rainbow Theatre di Londra, i Pink Floyd presentano per la prima volta il loro nuovo album, il resto è storia.
A rinverdire ulteriormente l’interesse della stampa e dei media ci ha pensato il buon Roger Waters con la notizia della pubblicazione di “The Dark Side Of The Moon – Redux”, progetto concepito con l’intento di rimettere al centro il messaggio politico ed emotivo del disco. Una vera e propria riscrittura che il musicista inglese afferma essere frutto solo della sua abilità di compositore. Alcune anticipazioni critiche comparse sulla stampa britannica ad opera di qualche giornalista, il seguente rinvio della pubblicazione e il continuo botta e risposta tra Waters e la moglie di David Gilmour hanno creato ulteriore attesa per il remake di “The Dark Side Of The Moon”, oltre a una moltitudine di discussioni e critiche. Anche se non è la prima volta che l’album dei Pink Floyd diventa oggetto di rivisitazione e rilettura da parte di altri artisti, appare comunque naturale che uno degli autori originali voglia dire la sua.
In occasione della pubblicazione del disco di Waters abbiamo pensato di offrire una breve panoramica sui progetti di cover version incentrati sull’iconico album del 1973: tre versioni nate da prospettive diverse e culturalmente dissimili, due abbastanza note, ovvero quelle realizzate dai Flaming Lips e dai Dream Theater, e una meno famosa ad opera della ex-vocalist degli October Project, Mary Fahl. Uno speciale che arriva a ridosso della vittoria di "The Dark Side Of the Moon" nel nostro recente sondaggio lanciato per scegliere il miglior disco dei Pink Floyd secondo i nostri lettori. Buona lettura.

Flaming Lips - ...Doing The Dark Side Of The Moon (2009)

fl_01Viene da chiedersi cosa sia passato per la testa di Wayne Coyne, del nipotino Dennis, leader degli Stardeath and White Dwarfs, di Henry Rollins e della canadese Merrill Beth Nisker, aka Peaches. Ma soprattutto, perché verso la fine dei primi anni Duemila tutta questa bella gente abbia sentito l'esigenza di rimodellare un'opera deturpata fino all'inverosimile nel corso degli ultimi trent'anni. E come dimenticare l'orribile trasfigurazione "Dub Side Of The Moon" del gruppo reggae Easy Star All-Stars, le triturazioni di "Money" nelle piste da ballo, e finanche le scopiazzature pseudo-omaggio del celebre triangolo-laser posto in copertina? Perché riproporre l'ennesima lettura di un disco come "The Dark Side Of The Moon" potrebbe apparire quantomeno un azzardo, persino un inutile oltraggio.
Di certo Wayne Coyne e soci non sono affatto nuovi a provocazioni e sterzate improvvise. In tal senso, non occorre girare indietro le lancette dell'orologio. Basti pensare all'ultima fatica della band di Oklahoma City, "Embryonic", per comprendere appieno lo stato di forma e constatare l'innata capacità del gruppo di reinventarsi a ogni singola uscita, spiazzando puntualmente critica e platea, e destando non poco clamore in chi ne aveva già ampiamente sancito (e ne aspetta ancora) la fine. Così come "Zaireeka" rimarrà una delle istigazioni produttive più affascinanti del secolo scorso, al di là delle singole composizioni (?) contenute nell'opera. Ne converrete, dunque, che forse al giorno d'oggi solo i Flaming Lips possono permettersi il lusso di riprendere un simile capolavoro, suscitando anche un'insolita curiosità e un vivo interesse nell'ascoltatore.

Cercare di addentrarsi in un album dei Lips, coverizzazioni incluse, è un po' come rincorrere il coniglio bianco. Non ci sono coordinate e un'assidua lunaticità regna sovrana nelle continue metamorfosi del suono. Pertanto l'umore è costantemente ubriaco. Di conseguenza, le trasparenze e le policromie produttive dell'originale vengono ripetutamente messe a soqquadro dalla volontà sfacciata di rilanciare virtualmente il dado in territori strettamente barrettiani (!). Una provocazione che tende a disorientare la memoria, mostrata sia nell'incedere sgraziato e graffiante di "Speak To Me/Breathe", sia nei vocoder fracassati di una rude "The Great Gig In The Sky", svestita del suo mantello di velluto e abbassata di ph dalle accelerazioni electroclash di Peaches, sia nel gigioneggiare cosmico di "Time/Breathe (Reprise)".
In netta contrapposizione, le luci basse di "Us And Them" e di "Brain Damage", cantate in coro da un trasognato Rollins, placano solo momentaneamente qualsiasi altra forma di velleità interpretativa, prima che il luminosissimo cazzeggio tritatutto (in tenuta rigorosamente lipsiana) di "Any Colour You Like" e della conclusiva "Eclipse" mostrino l'anima più svagata del sabba inscenato da Coyne.
"The Flaming Lips And Stardeath And White Dwarfs With Henry Rollins And Peaches Doing The Dark Side Of The Moon" non è solo un banale divertissement, ma è anche una piccola e geniale analisi retro-futurista di uno dei dischi più significativi della storia del rock.
(Giuliano Delli Paoli)

Mary Fahl - From The Dark Side Of The Moon (2006)
 

mfdConfrontarsi con uno dei dischi più venduti della storia della musica rock è non solo un azzardo ma anche un’operazione rischiosa che può segnare un’intera carriera. Se l’album in oggetto è “The Dark Side Of The Moon” dei Pink Floyd, la storia assume contorni interessanti e perfino inquietanti, un disco le cui cifre statistiche e di vendita sono ancora soggette a revisione e aggiornamento, un disco che a distanza di 50 anni dall’uscita è ancora presente nelle classifiche di vendita, un disco che costrinse la Emi a dedicargli un intero settore produttivo per la stampa del compact disc.
La storia ha già consegnato alcune rivisitazioni del classico dei Pink Floyd, qualcuna già nota – la succitata "The Flaming Lips And Stardeath And White Dwarfs With Henry Rollins And Peaches Doing The Dark Side Of The Moon", oltre al progetto di Easy Stars All-Stars “The Dub Side Of The Moon” del 2003, a "Return To The Dark Side Of The Moon: A Tribute To Pink Floyd" del 2006 e al tributo di Phish “Dark Side Of The Moon” – altre contraddistinte da particolari soluzioni d’arrangiamento - Mandol’in Progress - “The Dark Side Of The Mandolin” (2017), “Savoldelli Casarano Bardoscio - "The Great Jazz Gig in The Sky” (2016) – alle quali vanno aggiunte innumerevoli versioni più o meno ufficiali ad opera di artisti in cerca di un minimo di visibilità e fortuna.
Storia a sé, quella che ha visto Mary Fahl protagonista della più ardita e riuscita rilettura del pluridecorato album dei Pink Floyd, realizzata nel 2006 e pubblicata ufficialmente anni dopo, a causa di problemi economici che coinvolsero l’etichetta discografica V2.
La carriera di Mary Fahl inizia nei primi anni 90 con gli October Project, una band da molti assimilata stilisticamente ai Clannad, scioltasi nel 1996 dopo le pesanti accuse di appartenenza a una setta satanica, equivoco nato in realtà unicamente dalla presenza scenica del gruppo. Nel 2003 Mary Fahl ritorna in scena con l’album “The Other Side Of Time”, ma l’occasione di una potenziale svolta si presenta quando, grazie al nuovo manager Steven Saporta, entra in contatto con Mark Doyle (qualcuno lo ricorderà alla corte di Andy Pratt) e David Werner, due musicisti con i quali l’artista trova una fulminea e spontanea sintonia.
Per Mary, Mark e David l’album dei Pink Floyd “The Dark Side Of The Moon” rappresenta più di una semplice passione giovanile: i temi portanti del progetto - le tensioni causate dai conflitti sociali e dalla religione, il perenne dialogo tra la vita e la morte, e la visione di un’umanità sull’orlo di un baratro fisico e mentale – non hanno perso d’attualità. Cimentarsi con l’iconico progetto per i tre artisti è dunque un’eccitante sfida.
Sono non pochi gli imprevisti che segnano il destino di “From The Dark Side Of The Moon”. Prodotto in stereo e in surround 5.1 dal celebre Bob Clearmountain, distribuito agli addetti stampa e ai promoter, il disco non viene pubblicato a causa del fallimento dell’etichetta V2. Nel frattempo, le poche copie fisiche in possesso dell’artista e i cd omaggio distribuiti prima del tracollo dell’etichetta e fanno la loro comparsa su eBay, alimentando un vero e proprio culto (le copie originali dell’album hanno raggiunto quotazioni a tre cifre).
Qualche anno dopo Mary Fahl entra in possesso dei diritti del disco e ne pubblica una versione in formato digitale, ma la svolta avviene quando Mark Doyle, in possesso dei master stereo originali, viene incoraggiato dall’amico Rik Pepe a riprendere in mano il progetto per una versione in Hi-res. Purtroppo le registrazioni originali della V2 sono andate distrutte in un incendio e Mark, dopo aver contattato Bob Clearmountain (unico possessore della versione 5.1 surround del disco), decide di recarsi a New York per rielaborare un nuovo master in alta risoluzione stereo.
Dopo un’accurata operazione chirurgica, che non altera la versione originale, il 24 marzo del 2020 la versione Blue Ray/Multichannel esce sul mercato internazionale, rinnovando il culto per l’album della cantante e attrice americana. Unico artefice dell’intero tessuto strumentale, Mark Doyle approfitta dell’occasione per piccoli ritocchi, chiamando in soccorso qualche musicista esterno (Josh Dekaney alle percussioni e alla batteria, Peter McMahon all’armonica) senza modificare la natura degli arrangiamenti, anche se a un orecchio attento non sfuggono le nuove sfumature offerte da brani come “On The Run” o “Breathe”. La scelta di intitolare l’album “From The Dark Side Of The Moon” è indicativa dell’enorme rispetto che i musicisti nutrono per l’opera originale, anche la decisione di sostituire in “Speak To Me” la frase “Sono stato matto per fottuti anni" con dei versi di Dante, “Nel mezzo del cammino della mia vita, mi ritrovai in una selva oscura, perché la retta via era smarrita”, ha un senso, lo scopo è quello di rinnovare il valore simbolico del disco e il profetico monito sulla spietatezza della società moderna.

L’atmosfera è lievemente più mesta, oscura, la voce profonda e baritonale di Mary Fahl ha il fascino di una moderna dea dell’Ade, ed è senza dubbio l’elemento più caratterizzante dell’intero progetto. Dal canto suo, Mark Doyle evita accuratamente richiami eccessivi all’originale, aprendo spazi pianistici più tipicamente jazz in “On The Run” o rielaborando l’assolo chitarristico di “Time”, uno dei brani più potenti del disco, rivisitato con inedite sonorità cupe e grevi che in converso brillano per definizione e lucentezza.
Alle prese con il brano più pop del disco, “Money”, i musicisti osano ancor di più, strappando un vigoroso applauso: la base viene reinventata con un mix di hip-hop e reggae in chiave blues, che graffia e alza la tensione, grazie a una performance vocale eccellente e a un tocco chitarristico decisamente più rock.
Il test più difficile resta comunque la mitica “The Great Gig In The Sky”: synth e chitarre si elevano verso dimensioni ultraterrene, lasciando alla voce di Mary Fahl lo spazio necessario per una performance che sposta l’asse più sull’atmosfera dell’insieme che sull’inarrivabile virtuosismo vocale della versione originale, affidata alla voce di Clare Torry, scelta intelligente che se da un alto sembra affievolire il pathos, dall’altro ne conferma l’intelligente rilettura.
La delicatezza e raffinatezza più acustica di “Us And Them” è senz’altro più adatta alle qualità vocali di Mary Fahl: l’intreccio strumentale cresce senza mai implodere, l’aggiunta al testo originale di un canto sanscrito offre ulteriori spunti di riflessione sulla profondità dei messaggi racchiusi nell’opera dei Pink Floyd, spesso sacrificata dall’eccessiva attenzione al solo versante sonoro.

“From The Dark Side Of The Moon” è un’esperienza d’ascolto quasi trascendentale, un’interpretazione sentita che rimette al centro dell’ormai iconico album il tema della deriva della società contemporanea, in preda alla follia e alla sete insaziabile di denaro. E' tuttavia strano e insolito che proprio la rilettura esteticamente più attraente e amata, anche dai cultori dell’alta fedeltà, sia anche quella più coerente e rispettosa delle tematiche originali. Un disco che funziona nel suo insieme al di là delle possibili critiche di alcuni puristi, ai quali risulterà quantomeno difficile non apprezzare alcune delle versioni (“Time”, “Money”) e il riuscito trittico finale (“Any Colour You Like”, “Brain Damage”, “Eclipse”).
Senza dubbio Mary Fahl con “From The Dark Side Of The Moon” riesce nel non facile compito di rinverdire il fascino di un disco che, volenti o nolenti, conosciamo tutti a menadito, un caso unico di album di cover che non odora di muffa. Con buona pace di Roger Waters.
(Gianfranco Marmoro)

Dream Theater - Dark Side Of The Moon (2007)

dtNon dev'essere semplice intimorire musicisti del calibro di John Petrucci, Mike Portnoy o Jordan Rudess. Spavaldamente tecnici, orgogliosi dei propri studi in uno dei Conservatori più prestigiosi degli Stati Uniti, i Dream Theater non hanno mai fatto mistero di quanto la tecnica sia al centro della loro musica. Proprio in virtù di questa maniacale peculiarità, sono certamente da ascoltare con interesse i live che - tra la fine degli anni 90 e i primi anni del 2000 - hanno proposto le versioni integrali di alcuni degli album che più hanno influenzato la loro formazione giovanile. Pubblicati in quattro bootleg ufficiali. Tra questi abbiamo “Master Of Puppets” dei Metallica, “The Number Of The Beast” degli Iron Maiden e “Made In Japan” dei Deep Purple, tre album fondamentali per la storia, rispettivamente, del thrash metal, dell’heavy metal e dell’hard rock. Per completare il cerchio e omaggiare tutti i generi che hanno influenzato la carriera della band non poteva mancare il progressive, e tra tutti gli album possibili viene scelto “The Dark Side Of The Moon”, autentico monumento del rock anni 70, talmente importante da non poter essere neppure identificato in un genere preciso.

Se per gli altri tre live i Dream Theater sembrano divertirsi e suonare con assoluta tranquillità, provando anche versioni alternative di alcuni brani, le cose cambiano con i Pink Floyd. Al cospetto di un album tanto simbolico, il timore di paragoni riduce al minimo la spavalderia della band che registra un live cercando di evitare ogni virtuosismo per una versione assolutamente sovrapponibile all’originale, ponendosi quasi come degli alunni di fronte ai maestri. Il bootleg di “The Dark Side Of The Moon” è quindi, in primis, un atto d’amore per una band che ha influenzato e continua a influenzare generazioni su generazioni.
Inutile sottolineare quanto Petrucci riesca a essere perfetto in ogni circostanza, a "diventare” Gilmour per quarantacinque minuti, come anche la voce di Labrie, forse quello che poteva avere maggiori difficoltà, riesca a essere convincente. L’unico momento che potrebbe definirsi più vicino ai Dream Theater, dove si deborda dai confini della versione originale è “Any Colour You Like”, dove Rudess torna coi suoi consueti giochi di prestigio con la tastiera (guardate il video dal minuto 33) e Petrucci che si lancia in un lungo assolo, comunque tipicamente gilmouriano.
Probabilmente il più significativo album di cover dei Dream Theater, questo bootleg è un sincero grazie della band di Petrucci ai Pink Floyd, senza i quali tanta della musica che oggi conosciamo semplicemente non esisterebbe.
(Valerio D'Onofrio)