2009-2024: 15 anni di vaporwave
A prima vista può sembrare strano che il genere musicale internettiano per eccellenza, nato su 4chan, Reddit, Tinychat, condiviso esclusivamente su Youtube, Bandcamp, Soundcloud, una musica che oltre a riflettere sulla musica stessa è stata espressione e analisi della Rete, non abbia ricevuto una sistematizzazione da parte della critica musicale, da diversi anni ormai ripiegata in buona parte dalla carta stampata al web.
E invece è proprio nella natura della vaporwave l’aver raggiunto una estesa diffusione rimanendo esclusiva di una nicchia, separata dal resto della musica popular, sia per volontà della propria comunità che per la perplessità della maggioranza, anche per via di alcuni luoghi comuni, come il suo supposto carattere satirico/parodistico, l’idea che vada apprezzata ironicamente, in un parallelismo coi meme e la cultura trash.
Se al di fuori della critica musicale non è difficile imbattersi in tentativi di comprenderla teoricamente, a mancare è una guida che possa tracciare un percorso di orientamento nell’oceano dispersivo delle produzioni intorno a qualche decina di “dischi fondamentali”, attraversandone le evoluzioni dalla sua forma classica nei diversi sottogeneri, fino agli approdi più recenti.
L’idea alla base di questo approfondimento è allora quella di fornire una chiave e un percorso di introduzione al fenomeno per chi, pur avendo anche dimestichezza con le musiche ambient ed elettroniche, ne è rimasto fuori; ma anche di darne un’interpretazione di fondo, seppur nella sua molteplicità, per chi ne è già all’interno.
Si parte dal 2009: Daniel Lopatin, appassionato archivista musicale, per niente noto come adesso, dal 2006 aveva già fatto uscire a nome Dania Shapes e Oneohtrix Point Never (oltre che in un paio di altre collaborazioni) alcuni lavori di ambient drone progressivo sulla scia dei Tangerine Dream. Il 19 luglio e nei giorni seguenti decide di caricare su un canale YouTube a nome sunsetcorp quattro video. YouTube aveva solo 4 anni di età, ed era in pieno boom: mai come prima era diventato possibile recuperare filmati Vhs (o Betamax, Super8 etc.) di vecchie trasmissioni tv o amatoriali e avere potenzialmente sempre a disposizione un archivio senza fine.
Il mese successivo stava per essere coniato da David Keenan il termine hypnagogic pop per certe categorie di musica, alcune di ascendenza psichedelica, altre noise/drone, altre synth-pop (per cui verrà poi utilizzato il termine chillwave), che da almeno un paio d’anni trafficavano coi ricordi sgranati e deformati dei decenni 70 e 80, utilizzando tecniche di registrazione a bassa fedeltà per ottenere un effetto nebuloso e sognante, come a mettere in scena la percezione sfasata di un ricordo collettivo, o il ricordo di un ricordo, non sperimentato consapevolmente: l’idea di quei decenni da parte di chi li non li ha vissuti, o da chi li ha vissuti inconsciamente; dalle parole di James Ferraro “come suoni infiltrati nella coscienza dei musicisti all’epoca in cui erano ancora bambini, nel dormiveglia: quando i genitori ascoltavano i dischi (o la tv) in soggiorno, la musica arrivava in camera da letto ovattata e smorzata dalle pareti”.
Sul piano visivo quest’idea di rielaborare e ricontestualizzare filmati di vita quotidiana, in particolare di momenti associati al benessere (vacanze, spiagge, palme, skyline notturni o al tramonto) o di pubblicità dimenticate, in particolar modo di tecnologie informatiche dalla carica utopica sorpassata, evidenziando e anche esasperando la loro grana consumata, si era appunto diffusa grazie a YouTube (esemplare un video realizzato già nel 2006 da un fan dei Boards of Canada per la loro Roygbiv).
In quest’ottica possiamo comprendere allora i video di Lopatin, pubblicati un mese dopo nel Dvd “Memory Vague”, insieme ad altri suoi brani di new age dal suono saturo, combinati a grafica vettoriale e video art anni 80. Le parti visuali si collocano sulla scia di quell’estetica ipnagogica aggiungendo una dose più misteriosa, disturbante ed esotica.
In particolare “Nobody Here” è costruita su un breve loop vocale di “The Lady In Red” di Chris De Burgh e un’animazione grafica computerizzata chiamata Rainbow Road, presa dal viedogioco “Laser Granprix” del 1983, una rampa di luce fluorescente multicolore che si sposta avanti e indietro contro un fondale di grattacieli.
Dalle parole di Simon Reynolds in “Retromania”: “Lopatin era rimasto colpito da quell’ ‘oggetto visivo’ trovato, perché lo ‘skyline urbano gotico’ scardinava le ‘associazioni sdolcinate e sentimentali degli arcobaleni’, oltre a incarnare l’alienazione della vita metropolitana. Da qui la dolente carica simbolica del loop: “There’s nobody here”“. Il video raccoglie sorprendentemente centinaia di migliaia di visualizzazioni (adesso sono 3 milioni), dando corpo a un sentimento generalizzato di malinconia e abbandono sperimentato nel contesto del tardo capitalismo e della sua ricostruzione online.
“Demerol” è una sorta di sinistro tributo a Michael Jackson, morto da poche settimane. Sulla scorta di uno dei primi artisti plunderphonic, John Oswald, che nel 1989 aveva già campionato e deformato “Bad”, Lopatin distorce, allunga e rende evanescente il segmento di “Morphine” in cui MJ cita il farmaco oppiode di cui era dipendente, come a simularne l’ultima fase ipnagogica prima di morire.
In “Angel” vengono invece frammentati e ripetuti in maniera scordinata i Fletwood Mac di “Only Over You”, su immagini - che ritroveremo massicciamente nella vaporwave - ispirate alla vita giapponese quotidiana e alla sua tecnologia anni 80.
Questi tre pezzi confluiranno nell’agosto del 2010 in versione completa in Eccojams vol.1 a nome Chuck Person, in cui tra gli altri vengono campionati i Toto, Janet Jackson, Marvin Gaye, i Tears for Fears. Le “marmellate di eco”, diventate “ecco” in onore al delfino dei videogiochi – riferimento sempre a una computer grafica ormai superata – rappresenteranno lo standard da cui prenderà lentamente avvio il genere.
Sempre da “Retromania”: “Lavoravo dalle 9 alle 17 e mi annoiavo a morte, e quello era il tipo di musica che potevo fare al lavoro, prendendo cose da YouTube. All’epoca non lo facevo per nessuno, era solo una scappatoia catartica dalle umili attività dell’ufficio”. Una volta isolati i microframmenti che gli interessano, Lopatin li ricopre con “una tonnellata d’eco”. Inoltre, non essendo “un animale da party”, rallenta la musica: una tecnica appresa dal leggendario dj Screw di Houston, i cui mix “sbronzi” contenevano brani gangsta rap decelerati fino a ritmi narcotici. “È davvero semplice. Non mi piace l’idea di essere autore di questo materiale. In realtà partecipo solo a cose che succedono su YouTube, ovunque ci sono persone che fanno cose simili”.
Prima di arrivare allora a queste altre persone soffermiamoci su un’altra traccia eccojam caricata nel luglio 2010 da Lopatin (che dopo questi esperimenti tornerà a sviluppare la sua idea di elettronica progressiva e hi-tech, impiegando comunque sample di vecchie pubblicità con “Replica” nel 2011). “END OF LIFE ENTERTAINMENT SCENARIO #1” combina, ripetendoli all’infinito o quasi, una breve immagine di un adventure game per pc del 1988, “Manhunter”, a un frammento di “Emotions” di Roger Troutman e nuovamente di “Lonely” di Janet Jackson. Il risultato è ipnotico e straniante. L’impressione è di essere finiti in uno spazio liminale, all’interno di un link interrotto, ai confini di Internet e forse alla fine della musica e della vita stessa.
È dunque online che si sviluppa una comunità di millennial prosumers, allo stesso tempo consumatori e produttori di un genere in cui chiunque con una connessione internet e Audacity può cimentarsi, incidendo facilmente su un numero limitato di cassette. La cassetta del resto era il formato degli anni 80, mezzo di diffusione per le scene underground, già recuperato anche per via del potere rievocativo del fruscio del nastro dagli esponenti della musica hypnagogic.
La prima cosa che conta è trovare il loop adatto: se i primi brani vapor partono da tracce pop famose e da elementi vocali riconoscibili, deformandoli però al punto da rendere l’esperienza d’ascolto particolarmente irreale, buona parte delle produzioni tenderanno a dissimulare le proprie fonti, mandando in loop un hook melodico spesso introduttivo, tagliando spesso le parti vocali. A essere utilizzate sono musiche in qualche maniera periferiche, incidentali, raramente intese per un ascolto conscio: musica che incontriamo nei non luoghi come aeroporti, centri commerciali, o durante presentazioni lavorative, che subiamo quando siamo in stand-by al telefono, musica il cui scopo è intorpidirci e calmarci nell’attesa che ci venga venduto qualcosa: easy listening, smooth jazz, new age sdolcinata, contemporary r&b, soft rock.
Andare a ritroso a recuperare le fonti originarie, seppur rese misteriose ed esoteriche, diventa parte integrante dell’esperienza d’ascolto (indispensabile in tal senso il sito whosampled.com) e anche uno dei motivi per cui è rimasta una scena chiusa, per iniziati.
Il punto non è tanto parodiare quella muzak plasticosa, ma distorcerla per depurarla dalle sue caratteristiche smodatamente melense, dall’ingenuità kitsch; camuffarla salvandone solo alcune parti (turnisti e produttori del resto ci sapevano fare) per modificarle; un buon pezzo vaporwave non dovrebbe insomma perdere il confronto con l’originale (o almeno dovrebbe renderlo difficile).
Il loop viene principalmente compresso e rallentato, cambiato di tonalità (pitch), dandogli un effetto riverberato (l’eco di un tempo perduto), e ripetuto allo sfinimento, spesso in maniera innaturale, fuori tempo, aggiungendo glitch, giocando sul rallentamento della voce che a volte arriva a sfasare il senso di una frase del testo originale (in “Fountain” di 骷 (“Skeleton” in mandarino), il loop vocale da “How Long?” di Dionne Warwick sembra ripetere “Oh, the baby child still fighting frighting”; nell’iconica “リサフランク420 / 現代のコンピュー”(“Lisa Frank 420 / Modern Computing”) di Macintosh Plus, cioè Ramona Xavier (più nota come Vektroid), la Diana Ross di “It’s Your Move” sembra dire “do you understand, it’s all in your hands head”); oppure ancora con il loop che si incanta, interrompendosi a inizio battuta sull'attacco della voce (per esempio in “Lay On Me” o in “Drive Home Thru The Stars For You”, da Black Horse di esc 不在 (fuzai, “assenza”), altro alias di Vektroid, che trasforma sempre Chris De Burgh in una sorta di spirito che infesta i nostri apparecchi elettronici).
L’errore va inteso allora come un modo per non immergersi totalmente nel suono, per prendere coscienza che è in atto anche un discorso metamusicale, che c’è un inganno da svelare.
Skeleton a fine 2010 aveva già cominciato seguendo in parte il Lopatin hypnagogic e rallentando i sample allo spasimo con l’esordio omonimo, sperimentando un’ambient rantolante, dagli echi industriali; oppure in Holograms, con brevi eccojams oniriche a partire da brani meno riconoscibili, smooth jazz/soul o space disco, che contribuiranno a definire i meccanismi classici di détournement vapor, che puntano a trasformare il sentimentalismo o buonismo delle fonti originarie in una sorta di malinconia surreale, sottilmente inquietante.
Nel 2011 Vektroid, già attiva da diversi anni in ambito chillwave, comincia a perfezionare questo nuovo linguaggio, prima citando gli esperimenti di Lopatin nell’Ep “Telnet Erotika”, poi pubblicando ad agosto diversi file: oltre alle ecojams di Black Horse (in cui campiona anche lo startup sound di Brian Eno per Windows95) e di New Dreams Ltd Initiation Tape part one (tre anni dopo rimaneggiato ed esteso con alcune tracce di origine new age prese dal file Midi Dungeon), Ramona seleziona diverse pubblicità della tv giapponese in Prism Genesis col monikerFuji Grid TV, e avvolge in una nebbia ipnotica alcune musiche per il “Sega Saturn”, con l’alias Laserdisc Visions. È forse in riferimento alla vaporosità di questi suoni che Robin Burnett, in arte Internet Club, conia ufficialmente il termine, storpiando anche “vaporware”, la categoria che racchiude tutti quei software o hardware che vengono annunciati ma alla fine non escono, come finte promesse, vendita di fumo, ma anche come segnali di una virtualità altra, non ancora esplorata.
Lo stesso Internet Club pubblica diversi esperimenti nella seconda parte del 2011, dei quali il più riuscito è Webinar, in cui a volte i loop, spesso di stock musicanni Zero per slide Powerpoint, non si riavvolgono esattamente ma saltano fuori tempo in avanti o all’indietro (per esempio in “Optimization”), dando l’illusione di una progressione quando in realtà il tempo è sospeso; è come se la musica fosse abitata da una forza che gira a vuoto, che tenta di uscire dal loop senza riuscirci, finendo col creare un’atmosfera opaca, instabile, distante (come in “Digital Team Building”, che ricorda col suo incedere affaticato i Boards of Canada, o come nella labirintica new age di “Office Online”).
Burnett ha le idee chiare, nonostante la sua incredibile precocità: l’anno dopo, a 16 anni, spiegherà in un’intervista a Dummy che la sua è “una defamiliarizzazione di elementi a cui siamo così abituati da non accorgercene neanche più”; “volevo tentare qualcosa di molto debordiano, che riguardasse il modo in cui la società capitalista, con la ‘cultura corporate’, ha dato vita a un’iperrealtà deumanizzante, focalizzandosi su un’infinita generazione di ideali veicolati attraverso la merce”; a essere sotto processo sono le grandi aziende informatiche, che ci hanno illuso con le utopie di progresso umano della prima era di Internet, quella della condivisione della cultura “dal basso” (che paradossalmente Burnett non ha vissuto in prima persona); l’iperrealtà è la realtà illusoria dei media ormai indistinguibile dalla realtà originale, quando invece con l’Internet iniziale, e in parte con le tecnologie precedenti, si poteva ancora mantenere una distanza – sia oppositiva che riflessiva – dal reale.
Tra le altre uscite datate 2011 di questa prima fase carbonara, in cui gli artisti si influenzavano tra loro trovandosi su Tinychat e Turntable.fm (e dal 2012 trasmettendo anche live stream col collettivo SPF420), oltre al già citato Skeleton, è giusto nominare l’influenza nell’ambiente dell’omonimo di Computer Dreams, pubblicato già in giugno; le uscite di matrice chillwave di 18 Carat Affair, Ferrari Jackson e Dreams West, punti di avvio di un sottogenere più pop, in cui vengono recuperati elementi funk associandoli all’immaginario delle Vhs e delle passioni vacanziere.
È però con Floral Shoppe che Vektroid porterà nel tempo la vaporwave a una notorietà anche eccessiva (“merito” di una videostroncatura di Anthony Fantano fatta un anno dopo), finendo per essere travisata come meme satirico, anche per via del successo del suo immaginario visivo, che invece è funzionale a metterci in uno stato di surrealtà, di “familiare estraneità”.
La copertina ha un che di metafisico: i riferimenti all’obsoleto Macintosh e al negozio di piante (finte?) tramite ideogrammi giapponesi per dare quel tocco di esoticità iniziatica, pavimento a scacchi rosa, la testa del dio greco Helios, e sullo sfondo lo skyline di New York con ancora le Torri gemelle, simboli di età dell’oro o di passati perduti: abbiamo tutti gli elementi base di una “aesthetic” che ricombinandosi imperverserà per anni, finendo per appiattirsi come fosse un filtro da applicare in serie per ironizzare o universalizzare la propria realtà, arrivando persino a essere sfruttata da frange alt-right.
Il disco alterna una prima parte eccojam, in cui un loop di Sade si incanta annaspando come fosse sott’acqua, la voce di Diana Ross si espande diventando iperreale per sfilacciarsi sublimandosi nel finale, e il moog di due brani yacht rock dei Pages si incarta su se stesso, in un caso in una spirale sempre più rallentata, nell’altro stemperando l’enfasi del ritornello di “You Need A Hero”; e una seconda parte più ambient e criptica, una sorta di tributoscolorito alla new age ottimistica dei Dancing Fantasy.
Per comprendere meglio questo senso di nostalgica inquietudine torniamo ancora a citare Reynolds oltre a Mark Fisher, toccando anche Derrida e Freud, per considerare sia il concetto di “hauntology” che quello di “unheimlich”, l’uncanny, il perturbante. In estrema sintesi, per Freud il perturbante è la rivelazione di un qualcosa di estraneo che in qualche modo suona allo stesso tempo familiare perché in realtà ha attraversato un processo di rimozione. Negli ultimi decenni questo concetto è stato accostato alla sensazione di disagio provata quando ci troviamo di fronte a qualcosa che si situa in una zona di confine tra l’essere vivo e l’essere meccanico.
Hauntologie invece è un termine che Derrida usa in opposizione a ontologia per intendere lo studio di ciò che non è presente ma non è neanche assente, che stando a cavallo tra i vivi e i morti permette alla realtà di esistere. Come un fantasma che ci perseguita, da haunt, come un lutto che non si estingue, o un trauma, qualcosa che abbiamo rimosso. Possiamo ritrovare questo concetto in musica già nei Boards of Canada, che creavano atmosfere sognanti e bucoliche recuperando suoni da registrazioni di documentari naturalistici anni 70 dalla tv canadese e vecchi filmini di famiglia, deperendo queste fonti sempre per via analogica per dar loro un carattere nostalgico ma anche sinistro, di un passato perduto. Derrida, riprendendo la celebre formula di Marx “uno spettro s’aggira per l’Europa – lo spettro del comunismo”, definì lo spettro di Marx come un qualcosa che infesta e terrorizza l’Occidente. L’idea cioè di un futuro che non è stato che perseguita il presente (a proposito di Marx, è sua anche la frase “Tutto ciò che è solido si scioglie nell’aria” in riferimento alla rapida obsolescenza dei prodotti del capitalismo).
In “Spettri della mia vita”, Mark Fisher vede nella musica dei BoC e in quella successiva di qualche anno della label Ghost Box il tentativo di ricreare un’era di modernismo popolare: “La Ghost Box presiede su un mondo alternativo in cui il Radiophonic Workshop era più importante dei Beatles. i Beatles occupavano la scena centrale dello Spettacolo Pop, mentre il Radiophonic Workshop infiltrava i suoi jingle, i suoi temi ed effetti speciali nella trama della vita quotidiana. Il Workshop era realmente unheimlich, perturbante, legato in modo indissolubile a un ambiente domestico che era stato invaso dai media. Naturalmente alcuni hanno accusato le produzioni della Ghost Box di nostalgia, e ovviamente quest’elemento gioca un ruolo nella loro attrattiva. Ma la loro estetica trascina in primo piano la discronia: le giunte tra le diverse parti sono troppo evidenti, i campionamenti troppo frastagliati per far sì che le tracce suonino come artefatti restaurati, come revival postmodernisti. La Ghost Box evoca un passato che non è mai esistito partendo da frammenti dei 70” (cioè prima dell’americanizzazione della società inglese).
Come si è detto all’inizio lo stesso hypnagogic pop e la chillwave hanno seguito questa logica, sperimentando la creazione di un passato alternativo a partire dagli ultimi anni dell’era analogica, e di una nostalgia artefatta, ovattata. La vaporwave allora rappresenta una sorta di evoluzione paradossale e perturbante, e quindi surreale, di queste musiche: i suoi spettri non sono quelli di un possibile futuro a cui è stata sbarrata la strada e che viene immaginato da una distanza che sembra incolmabile; ma sono proprio quelli dell’era appena successiva che il futuro l’ha svenduto; sono direttamente i prodotti di consumo dell’era edonista del capitalismo che occupano il nostro inconscio; gli scarti del passato a cavallo tra analogico e digitale, che hanno avuto un ruolo nel plasmare la società odierna.
Il mondo dei supporti analogici conservava il senso di perdita, consentiva il processo del lutto e la possibilità di ricordare il passato comprimendolo, inserendolo nella Storia. Se pensiamo all’hauntology di artisti come William Basinski o The Caretaker, i loro suoni sono ricordi che svaniscono pian piano: facciamo i conti con la labilità della nostra memoria e delle nostre vite.
L’arrivo del digitale e della Rete, e delle loro utopie ottimistiche di benessere, ha scardinato questo processo: nell’infinito archivio di Internet diventa impossibile consegnarne una parte all’oblio per recuperare un’idea di storia; si fa ormai esperienza dello spettacolo di un presente eterno senza idea di futuro; il passato è un prodotto di consumo che si rigenera non lasciando spazio ad altro. Esistono solo malfunzionamenti, glitch (già indagati dalla musica elettronica di fine anni 90 per inserire l’imperfezione e la variazione in composizioni programmate); ma rappresentano una sospensione del segnale acustico o una intromissione, non un deterioramento temporale come nell’analogico. Hard disk e server possono rompersi, ma sono intercambiabili; il segnale è liquido, può sì sparire, ma anche essere protetto trasferendolo senza perdite.
Internet, con gli mp3 e YouTube, ha fatto tornare dall’inconscio ciò che era stato prodotto per essere consumato; la vaporwave lo imprigiona allora in un loop spettrale, corrotto, agonizzante: suoni e voci deformate diventano tutt’uno con una tecnologia che sembra minacciosamente animarsi, per infestare il mondo presente, come spettri che cercano di espiare il senso di colpa di averlo originato, e di liberarsi sublimandosi nell’aria.
La nostalgia suscitata dalla vaporwave è dunque ambigua e artefatta, perché rappresenta la decostruzione di un inconscio collettivo, una rimessa in questione della nostra comprensione del passato, una rivalutazione della storia. Non si tratta di rimpiangere gli anni floridi del neoliberismo, ma di costruirne una versione alternativa, per far convivere quell’idea di benessere con il suo rovescio: il trauma non solo di una perdita, ma anche di un inganno.
Tra l’inizio del disarmo tra Usa e Russia, a metà anni 80, e l’11 settembre 2001, l’Occidente ha infatti vissuto un periodo di pienezza che non poteva realmente permettersi, perché poggiato su indebitamenti, ineguaglianze, discriminazioni, privilegi, distruzione ecologica, soprusi verso il resto del mondo. Riconsiderandola a posteriori, sentiamo sì la spensieratezza di (quando eravamo piccoli in) un’epoca più semplice piena di opportunità, ma anche l'inquietudine inconscia di averla subita inconsapevolmente, senza poterne vedere le crepe.
Un sentimento di evasione dal presente post-9/11 esiste indiscutibilmente, e vedremo poi che la scelta di fonti più apprezzabili, spesso dettate dalla fascinazione per il Giappone, finirà per potenziare l’aspetto escapista occultando la critica sociale; ma la destinazione del viaggio rimane un passato parallelo, un non-tempo, un limbo sia attrattivo che alienante. Non è solo la promessa del futuro immaginato negli 80 a non essere stata mantenuta (e al recupero di quell’idea di futuro ci ha pensato la synthwave), è proprio il passato che, grazie ai fantasmi di questa nostalgia surreale, in bilico tra sogno e incubo, tra evasione e trauma, scopriamo diverso da come ce lo ricordavamo, e in qualche modo ce lo re-immaginiamo.
Alla fine del 2011 James Ferraro pubblica (insieme all’Ep Condo Pets) Far Side Virtual, che pur trascendendo i confini della vaporwave rappresenterà una grossa influenza sul sottogenere che verrà poi chiamato Utopian Virtual. Ferraro produce musiche originali a partire da una storia intera di sample elettronici perturbanti, dai suoni pre-impostati dei primi sintetizzatori digitali, ai singoli sound file dei sistemi operativi Windows o Nintendo, alle voci in parte umane in parte robotiche, fino ai suoni delle app che ci circonda(va)no nella vita di tutti i giorni, come quelli di Skype. La Second Life luccicante e senza peso vendutaci dalla Silicon Valley del 2000 si è in qualche modo innestata sotto la nostra pelle diventando l’unico universo possibile; la simulazione ha invaso la realtà, l’iperconnessione di cui non potremmo più fare a meno ha finito per alienarci di più: somigliamo alle macchine che ci circondano.
Il 2012 è l’anno della conferma; se le atmosfere Vhs pop brillano e stordiscono con SURFING (che in Deep Fantasy mischia chillwave originale a loop tra gli altri di Kenny G e Yarbrough & Peoples) e Contact Lens (con l’hip-hop strumentale psichedelico di Ice in Veins), sono sempre Vektroid, Internet Club e Skeleton a superarsi scolpendo nel marmo tre dischi essenziali.
Con REDEFINING THE WORKPLACE, Burnett perfeziona la sua Corporate New Age, dilatandola fino al parossismo, come se l’idillico e luminoso complesso di uffici raffigurato in copertina cominciasse a bruciare dalle fondamenta, perché tutte le buone intenzioni della tecnologia contemporanea finiscono presto o tardi sovrastate da criticità sempre più estreme. Rispetto allo standard, qui i campionamenti attraversano palesi interferenze e corrosioni che portano i candidi loop di pianoforte verso una nebulosa ambient drone (“#SEO”), o pressandoli fino al muro di suono, alla sublimazione aeriforme (“System Focus”, “Synergize”, “Outside The Box”, oltre alla traccia finale omonima spostata tutta sulle frequenze alte). Fulcro del disco sono forse i 12 minuti di “The Next Level Of Integration And Optimization”, in cui un lento motorik elettronico con un semplice tema di piano attraversa uno sfasamento che ricorda “Neu! 2” per accelerare poi in un (finto) crescendo vorticoso e frastornante.
Con Shader di Sacred Tapestry (ripubblicato 4 anni dopo in versione espansa, adesso l’unica disponibile ufficialmente), Ramona Xavierconia una musica ambient-glitch acida e metafisica: i picchi sono “LD・VHD”, in cui uno spezzone di una tv commercial di una compagnia aerea giapponese viene ricombinato e scomposto all’interno di un’atmosfera atemporale, vertiginosa; “移住” (Transmigration), un’ode ambientale per organo ed effetti da videogioco, una fantasia allegorica sulla conservazione delle anime tramite upload; e “新たな夢Spirited Child (Color Ocean Sky)”, in cui viene ripreso il sample di Diana Ross usato in “Floral Shoppe”, triturandolo sotto una girandola di suoni primitivi e infantili (come negli esperimenti hypna-noise di Spencer Clark) e per finire sempre più eterei, in una sorta di processo di purificazione.
Reflections è il disco più coeso di Skeleton, in cui le atmosfere sono sognanti e misteriose, spettrali ma seducenti, trasportano in un immaginario notturno, da viaggio in una metropoli deserta, ma anche allucinatorio e irreale, in un equilibrio tra nostalgia e inquietudine che pochi sono riusciti a raggiungere. L’apice è “Long Ride”, ma forse bisognerebbe parlare di una voragine improvvisa, un sinistro tunnel tropicale (per via della steel drum dell’originale reaggae synth-pop “Fly Away” dei Laid Back) senza ingresso o uscita, o come un glitch neurale, un’epifania istantanea e fugace di una realtà parallela, al contempo spensierata e malinconica.
Il 2013 è l’anno del boom: grazie a Fantano e a un paio di articoli di Adam Harper su Dummy, in cui la definisce come “la pop-art della Virtual Plaza” (cioè del web come non-luogo amplificato, simulazione purificata del Mercato), la comunità si espande a dismisura, finendo per produrre un caos di pubblicazioni in cui diventa complicato separare ciò che c’è di buono dal trascurabile.
Si moltiplicano le etichette (le più significative: Fortune 500, Business Casual, Ailanthus Recordings e in seguito Dream Catalogue e DMT Tapes FL), ma il meccanismo non cambia: artisti coperti dall’anonimato, a suggerire che sia la musica a venire alla luce da sola, ad animarsi; scarso interesse per la tecnica e la qualità del suono, che permette democraticamente a chiunque di far parte della scena; la posizione oppositiva al resto della musica, che viene saccheggiata per poi essere ridistribuita gratuitamente su YouTube e Bandcamp; tutti elementi che l’hanno portata a essere considerata l’analogo digitale del punk, oltre che, come si è detto, della pop art, per via dell’attitudine a riciclare e a ricontestualizzare, tramite processi minimali e automatici, elementi commerciali e dei mass media in genere.
Uscita dopo uscita, si definiscono sempre meglio le diverse forme in cui si manifesta la vaporwave, cangianti sia a seconda delle fonti usate che dalla tensione a una maggiore immersione nel passato o a un maggiore spaesamento; dopo le classiche eccojams, l’utopian virtual, il Vhs pop, le derive hypnagogic, facciamo i conti con la late night lo-fi, che altro non è che una via di mezzo tra le ultime due: i riferimenti sono meno onirici e più notturni, televisivi oltre che urbani, si confondono i richiami a una vita lussuosa e di solitudine; la broken transmission, ancor più ossessionata da brevi jingle radiotelevisivi e dallo zapping notturno da rasentare il puro sound collage, come se la musica stessa non potesse che rappresentare solo atti di consumo randomico; la mallsoft, che invece con l’allungamento dei sample cerca di rendere le sensazioni del trovarsi in ampi non luoghi abbandonati, spazi di transito familiari ma privi di vita, tra la nostalgia tutta americana dell’infanzia passata nei centri commerciali e l’inquietudine di questi spazi ormai decaduti (come pure vecchi hotel o aeroporti), ma abitati dai fantasmi “luccicanti” del passato; ma anche con stili che se ne distanzieranno presto, come il future funk, che pur condividendo origini e tecniche produttive preferisce dare una lucidata, spesso accelerandole, a vecchie hit discofunk ma soprattutto city pop, contribuendo alla sua riscoperta e rivalutazione di massa, e riaggiornando il repertorio da ballo per le generazioni Y e Z enfatizzandone l’aspetto nostalgico di un’era mai conosciuta (e perdendone il lato perturbante); o la vaportrap, che al contrario dimentica la nostalgia, prendendo a pretesto alcune aesthetics in un contesto di elettronica distopica e ansiogena, accelerazionista, incorporando le ritmiche frenetiche della trap.
La diffusione della vapor sarà tale che alcuni puristi dichiareranno già una supposta morte del genere, più per puntare il dito sul suo travisamento che per altro: pur non diventando mai mainstream, la sua fanbase si allargherà mischiandosi anche a quella della synthwave, trascurando la carica hauntologica per una sua fruizione più appiattita, autoreferenziale.
Tra i dischi migliori dell’anno nominiamo almeno: TV Party di Luxury Elite, operazione di infiacchimento di motivi funk, in cui il vocalizzo di Kashif nell’intro del boogie “Say Somethin’ Love” fluttua al ralenti come il rantolo di uno spirito incatenato da un ritmo marziale (“Mesh”), oppure lo slap bass e la voce una volta acuta di Billy Ocean in “Love Zone” si trascinano spossati come se la notte negasse al sole di risorgere (“Classy”); o ancora il groove passionale di “Anticipation” dei Bar-Kays che si trasforma in un malinconico ultimo valzer prima dell’affondamento (“Cruise”).
Hologram Plaza di Disconscious, che riempe di riverberi alcuni capisaldi dell’exotica, tra cui Carlos Jobim o Martin Denny, oltre a “Isabel” di Piero Piccioni, che ci dà la sensazione di una musica che arriva da confortevolissimi spazi remoti passando attraverso la filodiffusione di un centro commerciale abbandonato (“Mattress Store”); oppure rende il movimento all’interno di questo paesaggio artificiale recuperando una melodia da alcune registrazioni Vhs (già sfasate) del Weather Channel americano di metà anni 90 che erano finite da poco su YouTube (“Endless Escalation”). La fissazione per queste musiche, oltre che per la grezza grafica delle mappe, troverà poi sfogo in alcune uscite broken trasmission a tema climatico.
Transversal Worldwide Shopping di Lindsheaven Virtual Plaza (noto anche per i dischi ambient a nome Mount Shrine e purtroppo per la sua morte prematura per il Covid) è composto da due suite ambientali, diverse come il giorno e la notte, e i cui elementi sono così confusi da non essere facilmente riconducibili a precisi sample: “Polydreaming Mall” comincia in un’atmosfera offuscata, in cui i rintocchi di un piano si combinano con un lungo e lento assolo di chitarra gilmouriano che emerge sopra un drone d’organo, intervallato da annunci informativi e dal brusio della folla; negli ultimi 4 minuti torna l’atmosfera iniziale in una chiave più cupa, insieme allo scrosciare di un acquazzone. Ma il pezzo forte è “ISAL Networks”, che influenzerà quello che sarà il sottogenere fortunato a partire dal 2014: la slushwave. Riprendendo dai suoni della pioggia, innesta un crescendo progressivo tra i lampi di un sintetizzatore e delle litanie spirituali, a metà strada tra “Blade Runner” e i Popol Vuh. Al quinto minuto comincia a sorpresa un pesante breakbeat che trasporta questo vortice ipnotico per quasi 10 minuti, per poi lasciar spazio al lento spegnersi di quelle enigmatiche melodie celestiali.
La serie PrismCorp Virtual Enterprises è la risposta di Vektroid alle finte utopie di Ferraro: ripescando librerie di versioni Midi file di pezzi bossa, swing o synth-pop (come Phil Collins o gli Scritti Politti) o di demo per tastiere Yamaha, ripercorre la plasticosa ingenuità di una tecnologia che sognava di abbattere i muri delle nostre abitazioni (Home™) o di farci godere comodamente delle meraviglie del mondo (ClearSkies™).
La fascinazione per i suoni kitsch dei synth digitali di fine anni 80 è presente anche in Eyeliner, che con LARP of Luxury sfoggia un synth-pop in versione accelerazionista (“iPod Touch”), con una produzione hi-fi e composizioni in gran parte originali, tese a romanticizzare il consumo effimero, a collezionare una playlist di vacanze virtuali (“3D Pool Designer”, “New Zealand”); in certi momenti un aggiornamento vapor della synthwave di Com Truise (“Toyota Prius”) o persino una outtake simulata dei New Order (“Roomba”).
La tendenza all’allungamento “ambientale” dei sample, già sperimentata dalla mallsoft, oltre che alla riproposizione delle fonti a volte nella loro interezza, porterà sulla breccia dal 2014 in poi i cataloghi iper-prolifici di alcuni artisti che hanno trovato la “quadra” del metodo e le giuste fonti (in particolare un universo di produzioni giapponesi sia pop che underground, spesso ignorate dal resto del mondo: obbligatorie qui le liste “deciphering” raccolte dagli utenti di Rate Your Music).
I Death’s Dynamic Shroud sono un collettivo formato da James Webster (già attivo nel 2012 con Dreams a nome Winter Sleep, in cui sviluppa compositivamente suoni e temi di un videogioco della sua infanzia, “Night Into Dreams”), Keith Rankin, noto già come Giant Claw, e Tech Honors: le loro produzioni col tempo oltrepasseranno i confini della vaporwave, perché massimali, lisergiche, caotiche, sature, multiformi, hi-tech, con le fonti che si concentrano sul passato più recente, ma per avere un’idea della loro prima fase più classicapuò essere un ottimo concentrato Virtual Utopia Experience, che pesca a piene mani da videogame e anime giapponesi.
L’intera produzione matura di Luke Laurila, in arte t e l e p a t h テレパシー能力者, si attiene invece a un’ambient music evanescente, malinconica, minimale e ipnotica, immersiva e regressiva, con cui abbandonarsi a reminiscenze immaginate. Slushwave, cioè “slush”, fanghiglia, o più nello specifico il suono che si fa trascinandosene all’interno; uno scroscio o sciabordìo. È il suono della ritmica downtempo annebbiata e stagnante dagli effetti phaser e dal rallentamento tipica di telepath, evidente nel disco 現実を超えて(beyond reality), in cui riesce a migliorare dei già buoni (o almeno ben prodotti) brani smooth jazz, contemporary r&b o sophisti-pop. Così il già enigmatico “Burma Road” di Greg Adams plana dentro una foschia notturna ancestrale, o i 6 minuti di “Your Place Or Mine” di Warren Hill diventano i 14 di “あなたを待って”(wait for you), in cui è tangibile la traslazione tra reale e immaginario.
Inアンドロメダ (andromeda), sempre del 2014, i pezzi di origine sono invece quasi tutte canzoni j-pop primi anni 90, ma sono così stirate che il risultato ne è lontano anni luce: l’effetto è catatonico, i ritmi quasi spariscono, le voci sono solo scie sullo sfondo tra le altre, le atmosfere sono fluttuanti, calmanti, calde e accoglienti, da spazio sognato più che attraversato.
Il passato esotico evocato da telepath diventa uno strumento per tirarsi fuori da un trauma, per purificarsi in un’altra dimensione: per noi occidentali utilizzare le memorie del Giappone di 40 anni fa ci permette di mantenere una distanza e di provare una strana nostalgia per qualcosa di immaginato, che appartiene al campo del fantastico.
Ma telepath non è solo un fenomenale selezionatore e ricontestualizzatore di musiche dimenticate; nel 2015 compone con Hong Kong Express (altro musicista ambient e fondatore della Dream Catalogue), nel duo 2814, un capolavoro dreampunk (che altro non è che una ambient malinconica e cyberpunk, dai temi romantici - i riferimenti a Wong Kar-wai non sono lì per caso - in un contesto futuristico e metropolitano): 新しい日の誕生 (Birth Of A New Day), in cui il legame con “andromeda” è evidente, ma l’assenza di campionamenti permette di volgere lo sguardo in avanti, e di fare i conti col rimpianto di un futuro forse impossibile.
Il 2015 continua a essere l’anno di telepath, che fa uscire altri 7 dischi e 4 split, tra cui アンタラ通信(communication Antara), più cupo e inquieto, in cui le voci femminili j-pop e i rumori di una expo di automobili sono come sprofondati in una voragine intergalattica; oppure il mastodontico, ma con un inizio folgorante, 星間性交(interstellar sex), in cui la techno kayō di Yukako Hayase si espande in un’esplosione sensuale tra fumi di città e luci al neon (“愛の瞬間” (moment of love)); o dove in “深夜の愛” (late night love) la parte strumentale synth-funk di “A Broken Heart Can Mend” di Alexander O’Neal si trasforma nella colonna sonora di un amplesso angelico.
Nello stesso anno sforna addirittura i più di trenta progetti di 仮想夢プラザ [Virtual Dream Plaza]: in ognuno dei quali prende un solo brano stirandolo e ripetendolo, in modo da ottenere sempre 31 minuti di malinconica ambient per la fine dei tempi. Di questi citiamo 水中夢(underwater dream), in cui l’orchestra new music anni 70 di Yuki Okazaki si illanguidisce cadenzando affannosamente una musica per giostre abbandonate, in una versione più infantile e moderna delle polverose sale da ballo mentali di The Caretaker; e 一緒に海岸を歩きます (walk along the coast together), che sbiadisce come in una cartolina ingiallita il lounge jazz di “Fooled By April” di Toshifumi Hinata.
Un altro producer che troverà molto seguito nello stesso periodo è Haircuts for Men, coi suoi remix furtivi, in cui lo sforzo di trasformazione è spesso minimo, di materiale anche molto recente, da Taylor Swift alla library più reietta; di lui citiamo l’ep 地下カラオケ(Underground Karaoke) per via di “悲しみは苦いです” (Sadness Is Bitter), che si limita ad abbassare tempo e tono del pezzo d’n’b “The Game Is Over” di tale Jack O’Lantern, che in versione trip-hop è molto più emozionante; e, passando al 2016, 大理石のファンタジー (Marble Fantasy), in cui pesca tra compilation di musica chillout, lounge, balearica, per incupirne il mood. La sensazione è che, perlomeno in buona parte dei più di 70 tra dischi ed Ep della sua produzione, il risultato – e forse il suo stesso intento, e di tutto questo filone barber beat - non sia arrivato molto più in là della musica da sottofondo di partenza.
Ascoltando Reflection di아버지 (father) si potrebbe pensare che anche qui l’impegno profuso non sia stato poi molto, dato che cambia il soprabito a diversi brani ambient-glitch usciti per la kompakt (ad esempio velocizza “Will You Know Where To Find Me” di bvdub in “Tomorrow”, di cui però esiste uno splendido video), ma c’è anche dell’altro: nel brano omonimo la progressione armonica di “Daydreaming” dei Radiohead viene estrapolata e reiterata in glitch irriconoscibili, 16 battute alla volta; mentre in “Voices” la voce di Apparat in “Song Of Los” arriva direttamente dall’oltretomba.
Anche l’italiano b o d y l i n e assembla sempre nel 2016 un piccolo gioiello di innocenza con Twinkly, in cui oltre a j-pop e city pop (già sperimentati ad esempio in Computer Imagina del 2013), campiona library e smooth jazz nostrane che potremmo immaginare di aver ascoltato su qualche vecchia trasmissione mattutina per ragazzi.
Tornando alla slushwave, invece, l’unico nome che è riuscito a competere con Telepath è forse MindSpring Memories, alias dell’iperprolifica Angel Marcloid, attiva già in ambito noise e poi anche metal, industrial, etc. Restando sulla breve distanza nominiamo Destination Infinite II del 2017, collezione di atmosfere subacquee, schiumose, torbide, esistenziali.
La densa e intricata fase post-vaporwave dei Death’s Dynamic Shroud meriterebbe un articolo a parte: già due anni prima, con I’ll Try Living Like This, avevano cominciato a decostruire radicalmente una miriade di musiche mainstream in un massimale caleidoscopio narcotico e “overpitchato” di suoni e voci. Per entrare con più facilità nel loro universo può avere senso però partire dal più misurato Heavy Black Heart (2017), in cui la forma canzone è leggermente più conservata, seppur nel solito frullato di sample, tra k-pop e teen pop, Taylor Swift, Ed Sheeran, Lana Del Rey, le musiche di “Star Trek” e di parecchi videogiochi, oltre a diverse autocitazioni.
Provate a considerare questa musica come il tentativo di un computer diventato senziente di elaborare le proprie emozioni tramite le musiche archiviate al suo interno. O almeno date una possibilità al genio di “Tell Me Your Secret”, in cui le voci di Natasha Thomas e Sugar Daddy vengono violentate sopra la sezione ritmica di una canzone di Katy Perry, tra la tastiera 16-bit di un videogioco Nintendo e le arie di “Final Fantasy XIV”.
Questa evoluzione hi-tech della vaportrap (e di cui un altro esponente è Nmesh, che esce sempre nel 2017 con l’electro-collage di Pharma) non affronta più i traumi di un passato perduto e illusorio per trasfigurarli in un paesaggio sintetico e metafisico; ma piuttosto ricicla e centrifuga il marasma algoritmico della nostra era per renderla realmente futuribile. Accettata ormai l’assimilazione dell’umano nel digitale, cerchiamo allora di sottoporre il digitale a uno stress test per tentare il percorso inverso, per rifondare un abbozzo di nuova umanità.
Nel 2018 contiamo altri due importanti progetti mallsoft: 猫シ Corp. (cat system corp.), già noto per uno dei classici del 2014, Palm Mall, perfeziona il suo stile di field recordings di passi, brusii della folla, annunci pubblicitari, e di avvolgente, evanescente smooth jazz narcotizzato che pare risuonare dal cielo, in Palm Mall Mars: immaginare un’umanità futura, non così cambiata rispetto al presente, riunita all’interno di un centro commerciale marziano, oltre i cui confini c’è un pianeta ancora inospitale, è allo stesso tempo un pensiero confortevole e spaventoso.
In A T R I U M, che dovrebbe invece essere quasi del tutto composto, Hallmark '87 alza l’asticella, fondendo le suggestioni mallsoft a quelle dreampunk. Il concept è dedicato a John Portman Jr., architetto neofuturista noto per i suoi hotel con enormi atrii a più piani con vasto uso di cemento a vista: vasti spazi verticali levigati (“Concrete”), scintillanti (“Inspired”), confortevoli nella loro grandiosità (“Portman”), pensati per connettere le persone, ma nella pratica freddi, austeri (“Awe”), vuoti, desolati, senza vita.
Passando al 2019 citiamo altri due produttori originali, influenzati da Eyeliner ma anche sulla scia del successo su YouTube della musica “chillsynth” di HOME (scambiata per vaporwave per un video da 100 milioni di visualizzazioni in cui veniva applicata l’aesthetic sulle immagini dei Simpsons): se Windows96 sembra ricreare un mondo virtuale letargico e naif, nostalgico di vecchi RPG in Enchanted Instrumentals And Whispers, le atmosfere di FM Skyline in Advanced Memory Suite rappresentano una summa idealizzata degli anni 80 immaginati da chi non li ha vissuti, con riferimenti che viaggiano dai Durutti Column fino agli Art of Noise.
Con Community (2020), Diskette Park compie forse il canto del cigno della sampledelia vapor, rifacendosi al Lopatin di “R Plus Seven”: spezzetta un’enciclopedia di suoni in brevi segmenti da reiterare come in una giostra impazzita, come fossimo diventati ormai umanoidi che consumano musica pressando avanti veloce sul lettore cd. Permangono solo scheletri di memorie del passato, ricombinato incessantemente una cellula per volta, nel tentativo anche qui di originare la vita dal silicio.
Se negli ultimi anni la scena originaria si è stiracchiata in una lenta deriva, sopravvivendo però grazie al radicamento della sua base su Reddit e Telegram, possiamo ancora ritrovare le sue tecniche nelle musiche ambient e dreampunk (ad esempio con 秋 (Autumn)), anche in versione drum and bass (Sewerslvt) o persino dream-pop (in Only Ever in Dreams (2022) di Soft Replica), oppure con la slushwave volutamente composta per essere campionata di desert sand feels warm at night.
Il suo immaginario, invece, resiste nelle evoluzioni hi-tech dell’utopian virtual (essenziale l‘etichetta Orange Milk), flirtando direttamente con i suoni dei synth digitali (come il Fairlight o il Synclavier) e col Midi programming; cioè con tutta quella fase “introversa” dell’elettronica a cavallo tra 80 e 90, recuperando anche influenze progressive, se pensiamo ad esempio all’ultimo Frank Zappa (per fare un paio di nomi: uno degli altri progetti di Angel Marcloid, Nonlocal Forecast, e Cryptovolans).
Dopo l’esperienza del Covid, con l’emergenza climatica incombente e il ritorno delle guerre nel cuore dell’Occidente, la sensazione di trovarsi imprigionati in un presente infinito, rarefatto, ha forse perso efficacia; ma a ben vedere, anche fossimo di fronte a una fase nuova, forse più cupa, per la musica elettronica, l’inquietudine vapor l’ha in qualche modo anticipata, facendo i conti con gli errori di sistema alle origini del tardo capitalismo: forse un giorno non lontano rimpiangeremo anche quel pacifico senso di vuoto.
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