Partiamo da una premessa, che vale la pena ribadire dopo un’altra edizione: Le Guess Who? è un festival unico, con una proposta estremamente ricca e diversificata curata da un team che coinvolge sempre musicisti, quest’anno Matana Roberts, Phil Elverum, Lucrecia Dalt, John Dwyer e Midori Takada; LGW? abbraccia le sonorità di luoghi e tempi disparati – a rappresentare il suono dell’Italia contemporanea quest’anno OvO, San Leo e Black Sagaan – ed è in grado di far dialogare la musica con le altre arti in progetti culturali di livello, come la piattaforma digitale “Cosmos”, la mostra “The Botanical Revolution” al Centraal Museum, il programma giornaliero di film o la residenza artistica del polistrumentista e poeta inglese Alabaster DePlume; LGW? offre una tale eclettica proposta in un ampio ventaglio di location che coinvolgono tutta la città di Utrecht, la cui resa acustica, grazie alla qualità degli impianti e alla perizia tecnica degli specialisti coinvolti, è eccellente; LGW? invita e accoglie un pubblico curioso e appassionato, pronto a condividere esperienze e a creare contatto. Ciò rende LGW? speciale.
Quest’anno il festival si è svolto finalmente in presenza, dopo l’edizione sperimentale online del 2020 col palinsesto di contenuti audiovisivi LGW TV. Gli organizzatori sono oltretutto riusciti ad arginare le difficoltà emerse con le misure restrittive anti-Covid19 intraprese improvvisamente dal governo olandese, per cui è stato necessario a metà festival rimodulare in tempi record i programmi del sabato e della domenica, che sono stati condensati tra le 13.30 e le 18.30 il primo giorno, tra le 13.30 e le 21.30 il secondo. Ne è rimasto “danneggiato” soprattutto il sabato, con sovrapposizioni poco fortunate ma comprensibili, tra Jessica Moss, Vladislav Delay, Damon Locks’ Black Monument Ensemble e format del festival tra ascolto e conversazione, come la sessione di apertura “Music As Spectral Infrastructure” dedicata a “India Tapes (1969-1972).
In fondo, sarebbe potuto saltare tutto, invece lo sforzo degli organizzatori e degli artisti è stato notevole e il festival ha potuto svolgersi comunque con ottimi live.
Il nostro resoconto di LGW? 2021 esplora solo le performance che ci hanno colpito di più, per ragioni diverse qui proposte. Comunque si ascolta e si vede anche altro nella sfera del festival, ma queste sono le impressioni che vogliamo fermare.
Cosa ci ha fatto impazzire
Gli Irreversible Entanglements hanno fatto un live pazzesco, che presenta il recentissimo “Open The Gate” (International Anthem, 2021). L’eccezionalità della performance non è data solo dal carisma indiscusso di Camae Ayewa aka Moor Mother come leader – che conduce, recita e scuote in maniera ferma e implacabile – ma anche da un ensemble incredibile, con la sezione ritmica fantasmagorica di Tcheser Holmes (batteria) e Luke Stewart (contrabbasso) che si integra perfettamente con le divagazioni free di Keir Neuringer (sax e synth) e Aquiles Navarro (tromba e synth). Un flusso fatto di vari movimenti: lo spoken-word di Ayewa dal contenuto politico, i fraseggi melodici della tromba a tratti morriconiani, le invenzioni sintetiche e gli andamenti di una sezione ritmica inquieta, scivolosa ma solida.
Segue un altro momento incredibile: il live di Phil Elverum nel suo progetto storico, Microphones, che presenta integralmente l’album “Microphones In 2020” (P.W. Elverum & Sun, 2020) nella magnifica Grote Zaal del Tivoli, coadiuvato alla chitarra prima classica poi elettrica da Jay Blackinton. Cosa dire di più non solo di un’opera che ci aveva catturati così tanto, ma di un concerto ad altissima intensità emotiva? Scorrono nelle nostre orecchie brandelli di autobiografia di Elverum sopra pressoché lo stesso giro armonico in cui, nel suo tipico lo-fi folk, si aprono squarci noise di drones music che il cantautore genera alternandosi al basso elettrico distorto. Un solco nei nostri cuori.
La Grote Zaal il sabato sera diventa il tempio del poeta e artista Damon Locks col suo Black Monument Ensemble, in cui milita anche la polistrumentista Angel Bat Dawid. Condotti dai campionamenti di Locks, dal gospel delle tante voci femminili del gruppo e dalle poliritmie di ascendenza africana e caraibica, il BME è solido e totalmente presente a se stesso e a noi tra inni da cantare in coro (“I Can Rebuild The Nation”) e momenti di attivismo e consapevolezza esistenziale ed espressiva (“Now - Forever Momentary Space”). Suona tutto così naturale, ma è tutto estremamente difficile e complesso per chi non ha il talento e il dáimōn dei musicisti che compongono l’ensemble di Chicago, tra le realtà più influenti e rilevanti della cultura afroamericana contemporanea.
Cosa ci ha emozionato
Il live tra due artiste e amiche di lunga data, Matana Roberts & Jessica Moss, nella Jacobikerk. All’inizio del progetto “Coin Coin”, oltre dieci anni fa, Roberts è stata accolta dalla comunità artistica di Montréal. Nelle interviste ricorda quanto l’idea del cantare insieme, il “sing along” – che compare come pratica nel primo capitolo della sua saga, “Gens De Couleur Libres” (Constellation, 2011) realizzato live negli studi di Hotel2Tango – sia stato influenzato da A Silver Mt. Zion, e quindi da Moss. Le due musiciste, tra le più talentuose e argute del panorama avantgarde contemporaneo, intrecciano fraseggi solitari e intensi dialogando col sax, la voce (Roberts), il violino e gli effetti (Moss) in un live fatto di improvvisazione e momenti di ritrovata comunione tra musiciste e pubblico. Tradisce questa emozione Roberts alla fine del concerto, in un sentito ringraziamento a Moss per la sua amicizia. LGW? in fondo è anche questo: non solo musica straordinaria, ma anche una forte dimensione comunitaria.
Pan American alias Mike Nelson (ex-Labradford), artista audiovisivo dai tempi del capolavoro ambient “Quiet City” (Kranky, 2004), realizza un live A/V al quale associa il fluire delle sue divagazioni elettroniche o dei suoi limpidi fraseggi chitarristici alla restituzione in video della “sua” America, soprattutto di Chicago. A questa texture sonora minimale si associano immagini frammentate, errori, lunghe carrellate dal vetro di un treno o di un’automobile. Memorabile il momento in cui Nelson imbraccia la chitarra e, lungo le immagini a più esposizioni dello skyline, fraseggia il tema di “The Way We Were” di Barbra Streisand, brano portante dell’omonimo film (Sydney Pollack, 1973) che vede la cantante protagonista di una emblematica storia di amore dolce-amara con Robert Redford. Il Theater Kikker, gremito di pubblico, è investito dall’emozionalità discreta di Nelson.
Altro tipo di scossa emotiva ci viene dal live della polistrumentista afroamericana Angel Bat Dawid, che si apre in polemica col festival – poi chiarita – nei confronti di alcune illustrazioni realizzate da un media partner turco di LGW? sui BME e reputate offensive dal gruppo. L’invettiva politica di Angel è così intensa da travolgere completamente il pubblico e sfociare in una versione disperata di “Maggot Brain” dei Funkadelic, tratta dall’omonimo album (Westbound, 1971), cui segue il repertorio di “The Oracle” tra jazz e gospel, in cui la Dawid si esprime tra clarinetti, campionamenti, pianoforte e voci.
Cosa ci ha sedotto
La serata memorabile di giovedì è stata chiusa dai canadesi SUUNS, che hanno creato per l’occasione una vera e propria “camera sonora”: il loro live ha una densità timbrica che si potrebbe “tagliare” con le mani. I brani del recente “The Witness” (Joyful Noise, 2021), fin troppo addomesticati in studio, si liberano dal vivo nella tridimensionalità dello spazio attraverso un sound design in cui convergono elettronica, indie e jazz, guidato dal cantante-chitarrista Ben Shemie e dal bassista-chitarrista Joe Yarmush. La resa è unica.
Aquiles Navarro & Tcheser Holmes si presentano nella versione duo tromba-synth/batteria, come nell’omonimo “Heritage Of The Invisible II” (International Anthem, 2020), e innervano la sala di un free-jazz afrocaraibico con venature elettroniche e psichedeliche. Oltre la notevole performance live, si ha la felice sensazione di avere davanti due musicisti che possono condurre l’ascoltatore in territori inesplorati.
Uno spazio nei nostri cuori se lo conquista il compositore ucraino Lubomyr Melnyk, chiamato “il profeta del piano”, con le sue composizioni classiche di continuous music per pianoforte solo e doppio. Melnyk guarda in alto ai grandi, alle sonate di Brahms e di Liszt, realizzando cavalcate pianistiche virtuose e imperiose che ci fanno sentire, nella velocità, il senso di vertigine della musica pura. Si trattiene il fiato fino alla fine del brano per poi sorridere dell’ironia disarmata, e quasi ingenua, di questo gigante della musica nel suo dialogare col pubblico.
Cosa ci ha stupito
La performance audiovisiva “Erratic Weather” di Morteen Van Voos & Maotic. La sound art dalla fonia moltiplicata del producer, violoncellista e compositore olandese Van Voos incontra felicemente la digital visual art dell’artista francese Maotic, per creare un’esperienza astratta e concreta della crisi climatica. La pluridimensionalità del suono si fonde nel doppio schermo dove scorrono le immagini di sintesi digitale ed entro cui sono collocati i due performer. Un viaggio suggestivo e immersivo che è possibile intraprendere solo in sale predisposte e attrezzate a certe esperienze, come la Grote Zaal.
Ci ha piacevolmente colpito anche arrivare fuori dal concerto di Blak Saagan al Theater Kikker e rimanere fuori perché la sala era piena.
Cosa non ci ha conquistato
Per l’occasione del live di chiusura domenicale al Tivoli dei Sons of Kemet si alternano sul palco due ospiti presenti anche nell’ultimo album “Black To The Future” (Impulse!, 2021): il poeta Joshua Idehen e Angel Bat Dawid. È innegabile che quello del quartetto inglese sia un concerto coinvolgente – quanto quello dell’altra creatura groovy di Shabaka Hutchings, The Comet Is Coming – ma alla fine presenta sempre le stesse soluzioni e le stesse forme: intrattiene, rende partecipi e stravolge coi soli di Shabaka, ma non osa davvero in quell’oltre sonoro, compositivo e performativo, esplorato dai giganti, da sassofonisti omologhi come John Coltrane o Ornette Coleman. Certo, sono “i nomi" della storia del jazz, ma Hutchings si confronta – e lo confronta la critica – con loro, no? In questo essere nel tempo, nella storia e nel presente abbiamo trovato più rivelatori gli Irreversibile Entanglements.
I Bent Arcana, divertissement psych-jazz di John Dwyer degli OSEES, ci avevano incuriosito con l’album omonimo (Castle Face, 2020), ma dal vivo – seppur ancora una volta ci si trovasse di fronte a grandi musicisti – li abbiamo trovati abbastanza sconclusionati. Lunghissime cavalcate di improvvisazione che difettano di una struttura più articolata e che alla lunga, nella loro mancanza di forma o motivi che emergono, diventano poco appassionanti. Tutto troppo e, allo stesso tempo, troppo poco.
Cosa ci ha divertito
Ancora più della sua performance nella sala Ronda, con troppo intrattenimento e purtroppo poca musica, è stato spassoso ritrovarsi e partecipare al Confusion Desk di Alabaster DePlume. Il pubblico era chiamato a comunicare e scrivere cosa lo angosciasse e cosa gli mancasse nella vita di tutti i giorni, indirizzando vere e proprie lamentele poi elaborate al modo dell’artista nelle tre performance della domenica. Adorabile e anche molto umano. Tutto bello e interessante, ma quando DePlume ha chiuso il set al Ronda con “Visit Croatia” eravamo tutti a cuore aperto.
Cosa ci ha deluso
L’Rain. Tanto clamore aveva suscitato la recente performance a Club To Club, che le aspettative erano alte. L’ensemble è composto da musicisti talentuosissimi – la stessa frontwoman, che è anche ottima chitarrista – ma fin troppo in trance agonistica. A rimetterci, alla fine, sono i brani, troppo cervellotici e con poco feeling.
(foto ufficiali di Tim van Veen e di Ben Houdijk)