White Stripes

White Stripes

Vintage people

I White Stripes sembrano essere la risposta di maggior successo ai menagrami che vanno vaticinando da anni la "morte del rock". La loro missione è riportare il rock and roll più feroce, essenziale e sanguinante all’attenzione del pubblico. Strumentazione vintage, ripescaggi blues e riff avvelenati in salsa hard-rock: è il circo a stelle e strisce di Jack e Meg

di Mauro Vecchio

"Mi sarebbe piaciuto vivere negli anni venti o trenta, ma purtroppo il mio sogno di essere un nero negli anni trenta non si avvererà mai"
Jack White

Intro - DetroitRockCity

Detroit, Michigan. Detroit, città di motori. Detroit, culla musicale di gruppi rock che hanno lasciato più di un segno, come MC5 e Stooges.
All'alba del nuovo secolo, dopo oltre quarant'anni, quello stesso spirito rumoroso e anarchico torna, riecheggiando nel "garage" di decine di band nate dalla lezione principale e indimenticata del rock and roll. È una nuova generazione di rocker, che sogna il futuro guardandosi indietro.
The Strokes provano, a New York, a ripercorrere il decadentismo vizioso di Lou Reed e dei Velvet Underground. I Libertines (con addosso la pesante etichetta di "nuovi Clash") ributtano per strade rivoltose una musica inglese imborghesitasi con gli anni.
Quindi, Detroit. Non soltanto patria degli "sboccati" Eminem e Kid Rock, ma centro focale per il gusto vintage di Von Bondies, Slumber Party e Detroit Cobras.
"The Sympathetic Sounds of Detroit" raccoglie, in un disco-antologia, il senso musicale di questo nuovo viaggio a ritroso. A curarlo e compilarlo, uno dei "re mida" del rock odierno, Jack White.

Gomme da masticare rosse e bianche

John Anthony Gillis non è tagliato per il lavoro manuale. A quindici anni è apprendista tappezziere nel quartiere spagnolo di Detroit, ma, nonostante lo slogan "Il vostro divano non è morto", la sua piccola impresa non è delle più professionali.
Il ragazzo pensa di più ai colori della sua divisa (giallo e nero) e a nascondere bigliettini con piccole poesie all'interno dei divani che ripara. Sebbene sia cresciuto in una zona della città - Mexicantown - dove i gusti musicali prevalenti sono l'hip-hop e l'elettronica, John ascolta prevalentemente il blues di Son House e Blind Willie McTell.
Agli inizi degli anni 90 inizia la sua esperienza da musicista, quando diventa batterista dei Goober and The Peas - gruppo in bilico tra country e punk. L'avventura dura pochissimo, ma serve a lanciarlo nel circuito underground di Detroit.
Ad accoglierlo ci pensano i The Go con i quali inizia a suonare quello che diventerà il suo strumento principale, la chitarra elettrica.

Nel frattempo, Megan Martha White serve da bere in un bar fumoso della città americana. È il 1994 e, proprio in questo bar, John e Meg si incontrano per la prima volta. Amore a prima vista.
Due anni dopo i due convolano a nozze e John decide di prendere il cognome di lei, trasformandosi, così, nel suo alter ego più famoso, Jack White.
"Quando Meg ha iniziato a suonare la batteria con me, semplicemente per gioco, è stato liberatorio e rinfrescante. C'era qualcosa dentro che mi ha aperto completamente". E questa "apertura" dà presto i suoi frutti perché, nel 1997, il duo scippa il nome di una gomma da masticare.
Nascono, così, i White Stripes.

Jack decide di prendersi l'impegno vocale oltre a tutte le parti di chitarra, Meg si accomoda alla batteria. In fondo neanche i Doors avevano un bassista, o quasi.
Data di battesimo: 14 agosto 1997. I White Stripes si esibiscono al Gold Dollar di Detroit, presentando all'esiguo pubblico, tra gli altri, il blues-rock and roll isterico di "Let's Shake Hands" e "Lafayette Blues" che, nell'anno successivo, diventano i primi due singoli della band. Non a caso, tra le prime cover dal vivo, c'è "TV Eye" degli Stooges.
Jack e Meg sono pronti per la loro impresa, grazie, soprattutto, a uno stile immediatamente geometrico negli abiti e nel look. La firma del gruppo è percepibile con grande chiarezza al di là degli stilemi musicali utilizzati. "Il rosso, il bianco e il nero formano la più potente combinazione di colori di ogni tempo, da una lattina di Coca Cola alla bandiera nazista".
Un incubo cromatico tra Mondrian e Pop Art che, dai tempi del rigore costruttivista dei Kraftwerk, non si è mai visto nel rock.

Ritorno alle radici

Jack White: "Il nostro album di debutto è davvero arrabbiato. Il più grezzo, il più potente. Il disco più legato al tipico suono di Detroit che abbiamo mai realizzato".
Nel 1998, Long Gone John, eccentrico fondatore dell'etichetta indipendente Sympathy For The Record Industry, decide di mettere sotto contratto i White Stripes.
Per la label di Long Beach pubblicano un terzo singolo, "The Big Three Killed My Baby", che attacca le ingiustizie sociali di Ford, GM e Chrysler. Il deviato riff punk-blues del brano mostra con evidenza l'influenza stoogesiana e prepara il terreno alla deflagrazione sonora del loro omonimo album di debutto.

The White Stripes (Sympathy For The Record Industry, 1999) viene registrato interamente nell'appartamento di Jack, all'insegna di un approccio lo-fi particolarmente ruvido e primitivo. A produrlo, insieme a Jack White, c'è Jim Diamond, ex-membro dei Dirtbombs e navigato produttore in campo indie-rock.
Dedicato al bluesman Son House, il disco non scopre certamente l'acqua calda, ma si manifesta con forza esecutiva e una buona dose di furbizia nella proposizione di vecchi generi per le nuove generazioni che ancora piangono lacrime amare davanti alle ceneri del grunge. Un modo divertente e dolcemente nostalgico per superare il post-rock degli anni 90 andando direttamente all'alba dei tempi, lì, nelle paludi del Mississippi.
Quando parte il riff tribale di "Jimmy The Exploder" sembra quasi che l'intento di Jack White sia quello di tornare indietro per ripescare dal fondo del fiume il cadavere spirituale di Jimi Hendrix. L'urgenza del blues viene racchiusa nell'intelligente cover della "Stop Breakin' Down" di Robert Johnson che fa tornare alla mente la trascinante versione dei Led Zeppelin di "Travelling Riverside Blues".
La voce stridula à-la Robert Plant di Jack accompagna la slide di Johnny Walker (unico musicista aggiunto nel disco) in "Suzy Lee", mentre gli accordi cantilenanti di "Sugar Never Tasted So Good" ripassano la lezione esoterica degli Zeppelin. Impossibile, infatti, non riconoscere l'influenza di un brano come "Moby Dick" nel piccolo pachiderma "Cannon-John The Revelator".
I White Stripes, tuttavia, sanno deviare lungo il percorso verso il Delta: "Wasting My Time" vira verso un pop-rock and roll gusto fifities. Jack si spreca con riff punk atonali sparati al massimo, mentre Meg lo accompagna con ritmi ossessivi e ripetuti. Miscela perfetta per brani-fulmine come "Astro", "Broken Bricks" e "When I Hear My Name". L'ascoltatore viene assaltato, incalzato prima di rallentare con la sofferenza di "Do" e la salsa blues-mex della cover di "One More Cup Of Coffee" di Bob Dylan. Il traditional "St. James Infirmary Blues" gioca con un piano barrelhouse di ispirazione brechtiana prima che Walker torni alla slide per la languida conclusione di "I Fought Piranhas".

Per promuovere l'album, i White Stripes compiono una scelta diversa: non restano a esibirsi nell'area di Detroit, ma escono all'esterno della città creandosi un seguito più vasto grazie a due tour con Pavement e Sleater-Kinney.
Tra le numerose cover proposte dal vivo, spiccano la splendida versione elettrica di "Lord, Send Me An Angel Down" di Blind Willie McTell e la rilettura isterica di "Lovesick" di Bob Dylan.

Nel giugno 2000 la semplicità della band trova nuova forma nel secondo album, De Stijl (Sympathy For The Record Industry, 2000). Il titolo, in fiammingo, è dichiaratamente ispirato al movimento olandese di arte astratta capitanato da Gerrit Rietveld, amato da Jack White dopo aver visitato la Schroder House nelle pause di alcune date in Europa.
Al di là dello smaccato neoplasticismo dell'artwork, dove i due sembrano affacciarsi timidamente in un sogno colorato di Mondrian, De Stijl non fa altro che rimarcare con maggiore tempra melodica i passi già segnati dal primo album. Un affinamento sonoro del loro approccio lo-fi, registrato nuovamente nell'appartamento di Jack con un semplice 8 piste analogico.
L'identità visiva dei White Stripes trova, così, la sua coerenza sonora in altri quaranta minuti dedicati, questa volta, a Blind Willie McTell. Certo, ancora una volta si gioca tra futuro e approccio ipertestuale di rimandi, ma l'album riesce ad omaggiare il patrimonio folk americano con spirito giocoso e non troppo ossequioso.
"You're Pretty Good Looking (For A Girl)" suona come una vecchia canzone dei Kinks, ma ha i piedi ben piantati nel terreno del pop-rock in salsa garage dell'inizio del nuovo secolo. Il "revival sound" del disco è efficace proprio per questo. Jack decide di comprimere il blues ultra-sonico in modo da alternare l'hendrixiana "Hello Operator" e la slide-hard da palude di "Little Bird" con la deriva pop di "Apple Blossom", che sembra scritta da un Paul McCartney ubriaco.
Allievi creativi di prof. Tradizione Seventies, i White Stripes allargano i loro orizzonti melodici seguendo le scie delle nenie orientaleggianti di "III", come nel binomio chitarra-violino di "I'm Bound To Pack It Up" e nell'incedere ipnotico del voodoo-blues "A Boy's Best Friend".
Nell'anno dell'"insetto millennium", Jack decide di non fidarsi dei computer per fare musica e, armato fino ai denti di effetti e pedali, si esalta nella cover di Son House "Death Letter", che potrebbe stare bene in un bel po' di dischi rock-blues degli anni 60. Ci vogliono i quattro minuti complessivi di "Let's Build A Home" e "Jumble, Jumble" per trovare, su riff trash e ritmi sguaiati, un garage-punk che suoni più moderno. È tuttavia soltanto un breve salto nel futuro perché, con la sincopata "Why Can't You Be Nicer To Me?", si torna ad esperienze hendrixiane, mentre la versione di "Your Southern Can Is Mine" di McTell gira allegramente su se stessa su un irresistibile country-bluegrass.

De Stijl scalerà la classifica dei migliori album indipendenti di Billboard, diventando presto un album-culto nella discografia dei White Stripes, ultimo testimone della semplicità rozza e minimale della band prima del successo folgorante del terzo disco, White Blood Cells.

Nessuno è profeta in patria

In seguito alla pubblicazione di De Stijl, i White Stripes intraprendono una piccola, ma fortunata tournée in Giappone e Australia che, in breve tempo, fa accrescere la loro fama. Nelle due date di Tokyo si afferma la riuscita cover di "Jolene" di Dolly Parton, che diventerà ben presto una presenza fissa nelle esibizioni dal vivo della band.
Cavalcando gli iniziali entusiasmi, Jack torna in studio a Memphis con il famoso produttore Doug Easley per registrare (questa volta senza nessun musicista aggiunto) il suo terzo disco ufficiale.
Nel 2001, il leggendario dj inglese John Peel passa i White Stripes per le radio di Londra e dà, così, inizio a una nuova sensazione musicale nel Regno Unito.
La stampa inglese inizia con insistenza a parlare di loro: Daily Telegraph, Sun e, soprattutto, Nme che li mette addirittura in copertina. Tutto questo nonostante la band sia semisconosciuta in patria e non abbia praticamente un contratto discografico in Europa.

Eppure il rock and roll per le nuove generazioni è pronto a spopolare, come un boomerang, anche negli Stati Uniti che mandano White Blood Cells (Sympathy for the Record Industry, 2001) in cima alle classifiche con un finale di 900.000 copie vendute.
La visibilità mediatica del duo si impenna vistosamente con la partecipazione al gettonatissimo "Late Show With David Letterman", ma, soprattutto, grazie al video del singolo "Fell In Love With A Girl", premiato da Mtv. Il video è diretto dall'eccentrico regista francese Michel Gondry, che accompagna le forme stilizzate di Jack e Meg, interamente composte da colorati mattoncini Lego, mentre si lanciano in uno sguaiato, irresistibile punk and roll a tutto volume.
I White Stripes, per il grande pubblico, nascono qui. Qui parte la loro missione (?) di riportare il rock and roll più feroce, essenziale e sanguinante all'attenzione di un pubblico che potrebbe aver dimenticato la cruda semplicità di questa musica.
White Blood Cells, dedicato questa volta a Loretta Lynn, viene salutato dalla critica come un capolavoro, ma ascoltato il disco resta un dubbio: Jack è un genio o semplicemente un furbo?
Di sicuro c'è una forte personalità nel parlare un linguaggio antico, bruciante, ma la girandola dei rimandi è ancora in piedi, impazzita tra un riff stoogesiano e un blues sparato à-la Jon Spencer.
Il senso lugubre e distorto di "Dead Leaves And The Dirty Ground" e la frenesia divertita del country schizoide di "Hotel Yorba": come mettere lo scanzonato Gordon Gano alla guida degli Heartbreakers. E non sarebbe semplicemente un'impressione immaginare il riff polveroso di "Expecting" cantato da una torrida PJ Harvey.
Jack e Meg, tuttavia, hanno dalla loro grandi passioni musicali, energia elettrica e, soprattutto, la giusta dose di creatività per confezionare un disco-collage che suoni comunque fresco e gradevole. Il country, per esempio, viene filtrato attraverso echi hard-pop, come in "Now Mary", così come in "We're Going To Be Friends" il folk melodico trova una nuova dimensione tenera quanto scheletrica. La nevrosi giovanile si sfoga nel riff zeppeliniano di "I Think I Smell A Rat" o nella triste cadenza marziale di "Offend In Every Way", prima di calmarsi nell'incedere romantico della ballad elettrica "The Same Boy You've Always Known".
Alla fine si rimane con un grosso punto interrogativo sulla testa: è questa raffinata strategia produttiva o propositiva ossessione? Forse entrambe le cose, ma i White Stripes dimostrano, al di là di tutto, di avere un pizzico di genialità insita nel momento preciso in cui parte la deriva noise in odore di noir "Aluminium" o il piano languido e sognante di "This Protector".

In viaggio con l'elefante

Nonostante il successo (la rivista inglese Q li inserisce nella lista delle "50 band da vedere prima di morire"), i White Stripes sembrano non montarsi troppo la testa. Jack continua con la sua idea di musica vintage, di fatto priva di qualsiasi elemento elettronico, dal profilo basso senza eccessivi costi di registrazione. La volontà di fare di tutto per non svendersi, tuttavia, vacilla agli inizi del 2002 quando la band firma un contratto da un milione di sterline per la V2 che, nello stesso anno, ripubblicherà il fortunato White Blood Cells.
Ad alimentare la popolarità ci si mette addirittura il sito internet dell'austero Times, che pubblica il certificato di divorzio di Jack e Meg. Iniziano, così, a diffondersi inutili voci-gossip che smentiscono le dichiarazioni fatte dai due a proposito dell'essere fratellastri.

Jack White fa finta di niente e si butta nel mondo del cinema (nel film di Minghella, "Ritorno a Cold Mountain"), guadagnandosi ancora una copertina del mensile americano Spin.
La stima guadagnata nel mondo dello showbiz musicale porta i White Stripes a un lungo tour mondiale che li afferma definitivamente con incendiari show ai festival di Reading, Leeds e Glastonbury. Ed è proprio in Inghilterra - ai Toe Rag Studios di Londra - che il duo di Detroit si chiude nuovamente in sala di registrazione con il produttore Liam Watson.

Su Elephant (Xl Recordings, 2003) le Strisce Bianche insistono con i loro brani chiassosi, che rievocano i bei tempi andati mescolando garage, blues, acid-punk e psichedelia. Rock contemporaneo, dunque, ma registrato con strumentazioni vintage, a dare un tocco inconfondibilmente retrò. Rispetto alla moltitudine di rivangatori delle radici della musica americana, però, i nostri confermano una certa abilità nel comporre canzoni. Non mancano brani dal forte impatto emotivo, a cominciare dalla ballatona acustica di "You've Got Her In Your Pocket", con la voce sofferta di Jack in evidenza, per proseguire sull'onda delle melodie soul di "I Want To Be The Boy To Warm Your Mother's" e sulle note vagamente lisergiche di "In the Cold, Cold Night", serenata per chitarra, organo e voce (di Meg White), con echi di Doors e Patti Smith. E c'è spazio anche per il country stralunato di "Well It's True That We Love Another" e per una cover di Burt Bacharach ("I Just Don't Know What To Do With Myself").
Per il resto è il ritmo a far da padrone, come dimostrano l'energico singolo "Seven Nation Army" (destinato a fare la fortuna delle tifoserie di mezzo mondo), con il suo riff assassino e il suo ritmo implacabile, la vibrante invettiva punk di "Black Math", la beatlesiana "There's No Home For You Here" e ancora "Hypnotize", che unisce una melodia contagiosa alla foga del punk.
Ma sono soprattutto i sette minuti di "Ball and Biscuit", tributo alla Chicago rhythm'n'blues degli anni Cinquanta, a dare spessore musicale al disco. Sì, perché spesso i White Stripes affogano in un mare di idee senza riuscire a svilupparne coerentemente una. Errano senza posa tra le pagine della storia del rock: dai Led Zeppelin ai Ramones, dai Nirvana a Jon Spencer Blues Explosion.
Il vocalismo insolente e i violenti strappi chitarristici di Jack White, le pelli percosse in modo primitivo da Meg White sulle orme della "maestra" Maureen Tucker riescono, talvolta, a tenere in vita anche brani senza nerbo. Ma quattordici tracce sono forse troppe per l'attuale armamentario musicale del duo. E così l'alternanza tra quiete e accelerazioni chitarristiche di "There's No Home for You Here" e "The Air Near My Fingers", la pomposità heavy di "Little Acorns" e il rock'n'roll di "Girl, You Have No Faith in Medicine" non aggiungono granché di significativo al loro repertorio. Lo "scherzo" finale in salsa country di "It's True That We Love One Another", invece, dimostra quantomeno che i White Stripes sanno essere autoironici (e non è poco). In definitiva: It's only rock'n'roll. And I like it. Ma l'impressione è che il talento di White possa dare di più.

L'ultima tentazione di Satana

A questo punto, i White Stripes diventano delle vere e proprie icone nel mondo del rock. Nel 2003, Jack e Meg vengono invitati dal regista di culto Jim Jarmusch per girare un bizzarro episodio su Tesla nel film "Coffee and Cigarettes". Le doti chitarristiche di Jack vengono premiate da Rolling Stone che inserisce White al numero 17 dei "100 più grandi chitarristi di tutti i tempi".
L'anno successivo l'ennesimo trionfale tour viene documentato nel film in 16mm di Dick Carruthers, "Under Blackpool Lights", che esce in Dvd sopperendo, finalmente, alla mancanza di un live ufficiale nella discografia della band. Tra le numerose cover proposte, la versione aggressiva di "Outlaw Blues" di Bob Dylan e la scatenata sarabanda folk and roll di "Boll Weevil" di Leadbelly.

Tra un paio di film e una scazzottata, giusto un paio di settimane bastano per registrare il nuovo disco: Get Behind Me Satan. Ed è proprio un bel titolo, visto che il demonio tentatore del successo facile è stato prontamente sconfitto a colpi di chitarra elettrica. Certo, bisogna andare al di là del singolo che ha accompagnato il disco. "Blue Orchid", infatti, sembra una nuova "Seven Nation Army", leggermente gasata da tonalità dance manco l'avessero prodotta gli Scissor Sisters. Meg picchia con la sua batteria martellante, mentre il falsetto alla Robert Plant di Jack accompagna i pochi, elementari accordi di chitarra. Per carità, davvero una bella canzone, ma già starete pensando a questo disco come a un altro minestrone scaldato.
Invece, basta ascoltare il delirio psichedelico di "The Nurse" per capire che, questa volta, i White Stripes hanno cambiato registro. Stralunata filastrocca che sembra uscita da un film noir in bianco e nero, "The Nurse" decolla grazie a una marimba stralunata e una batteria al limite del sintetico. Sembra strano, ma è vero: Jack "Il Bianco" si è stufato dei riff ossessivi della sua chitarra rossa e bianca e, adesso, preferisce un piano ubriaco che sembra stato direttamente fregato a Tom Waits.
Capisaldi di questo nuovo percorso sonoro, che amplia notevolmente il repertorio cui la creatura di Jack White ci aveva finora abituato, sono lo stuzzicante incedere di "My Doorbell", che sembra uscita da un moderno "Physical Graffiti" imbevuto d'acido lisergico, con il suo formidabile numero di piano e una melodia irresistibile, e la ballata agrodolce "Forever For Her (Is Over For Me)", ricordo aggiornato del Neil Young anni Settanta.
I White Stripes giocano a tamburello tra passato e moderno con una gradevolissima dose di ironia, come dimostra la bizzarria da saloon di "I'm Lonely (But I Ain't That Lonely)". Ovviamente, la matrice originaria del blues è sempre dietro l'angolo. "Red Rain" torna a esplorare il lato più doloroso della "musica del diavolo", mentre "Instinct Blues" parla da sola, semplicemente con il suo titolo.
Tuttavia, il cuore di Get Behind Me Satan è allegro e scanzonato. Se lui si diverte a torturare il pianoforte, lei abbandona per un po' la sua batteria minimale e ossessiva alla Moe Tucker (eccezion fatta per la trascinante "The Denial Twist") per esplorare sonorità latine a ritmo di percussioni, congas e maracas. "Litte Ghost" è una stupida filastrocca con la chitarra che sembra un piccolo ukulele (l'esperienza di Jack con Loretta Lynn insegna), mentre "Take, Take, Take" suona come una session perduta dei T. Rex

Il re mida bianco e rosso: Raconteurs e dintorni

"Non siamo un supergruppo. In questo senso dovrebbe esserci qualcosa di programmato in partenza. Siamo soltanto una nuova band composta da vecchi amici".
Con poche parole, Jack White presenta al mondo i Raconteurs, avventura iniziata per gioco nel suo attico con l'amico Brendan Benson. I due scrivono un brano, "Steady As She Goes", e decidono di formare un gruppo con Jack Lawrence e Patrick Keeler (entrambi dei Greenhornes). Non ci sono scadenze prefissate e i quattro lavorano nei ritagli di tempo, ma, nel maggio 2006, danno alle stampe Broken Boy Soldiers.
Il disco si impone immediatamente con il suo rock and roll spensierato e accattivante. Quando la puntina inizia a scorrere, si viene travolti dalla sferzante veemenza di "Steady As She Goes", dai coretti beatles-beachboysiani di "Hands", dal ritmo pestante e perverso della title track, passando per le sonorità di purissima matrice lennoniana di "Intimate Secretary" e "Blue Veins". E ancora, aggirandosi per questo paesaggio racchiuso in una sfera di vetro colorata, si incontrano Marc Bolan con i suoi Tirannosauri, danzando sulle note di "Together" e "Store Bought Bones", per perdersi nel frattempo in strati sonori di doorsiana memoria e infine ritrovarsi tutti insieme, a festeggiare il ritorno a casa, non senza esser passati a dare un saluto al signor Plant e a Mr Page, dopo un tè con Sir McCartney.
I singoli "Steady As She Goes" e "Broken Boy Soldiers" entrano in classifica e si candidano a due nomination per i Grammy Award.

Il conseguente tour attira fan degli Stripes e nuove leve: tutto quello che tocca Jack White, ormai, si trasforma in oro.
Alla fine del 2006, il sito ufficiale dei White Stripes annuncia che presto verrà pubblicato un progetto di musica orchestrale d'avanguardia sulla base di parte del catalogo della band.
Il progetto viene realizzato da Richard Russel, fondatore dell'etichetta XL Recordings, che si mette alla guida di un'orchestra per riscrivere brani come "I'm Bound To Pack It Up", "Why Can't You Be Nicer To Me?" e "The Hardest Button To Button".
L'incrocio avanguardista tra orchestra ed elettronica minimale viene diffuso soltanto tramite internet con un numero limitato di copie (3,333 cd - antica fissa per il numero tre - e 999 Lp) che registrano un sold out a una velocità impressionante.
Ormai i tempi in cui Jack e Meg si divertivano a suonare in un appartamento per il semplice gusto di "fare casino" sono andati.

Nella culla di Nashville

All'inizio del 2007, i White Stripes lasciano la V2 per firmare un contratto ancora più succulento con la Warner Brothers e annunciano l'uscita imminente del loro sesto album, Icky Thump, registrato in una manciata di settimane - questa volta ai Blackbird Studios di Nashville. Location perfetta per una band che ha sempre attinto dal patrimonio folk della musica americana. Icky Thump continua il discorso a ritroso iniziato alla fine degli anni 90. "Rag And Bone" potrebbe essere frutto di una torrida jam blues tra John Lee Hooker e gli Zz Top. Jack White non riesce proprio a dimenticare la lezione dei vecchi dinosauri del rock, ma, come ha già dimostrato in precedenza, sa essere un allievo molto creativo. "You Don't Know What Love Is" ricama, in salsa power-pop, il tessuto scatenato dei Rolling Stones marca seventies. Come la "Paranoia Key of E" di uno degli ultimi lavori di Lou Reed. I White Stripes creano irresistibili melodie schizoidi anche partendo da un tipico stomp con tanto di organo à-la Deep Purple, come in "I'm Slowly Turning Into You". Quello che, tuttavia, colpisce l'ascoltatore più o meno appassionato è il coraggio di osare di Jack, nonostante tutto. Il cuore dell'album è divertito, divertente, ma, soprattutto intraprendente. "Conquest" è un call and response tra chitarra e trombe mariachi che non sarebbe male definire hard-tex mex. E, forse inaspettatamente, l'album segue un "cielo d'Irlanda" nella giga per mandolino e cornamusa "Prickly Thorn, But Sweetly Worn", che si allunga nel finale "St. Andrew" che esplode, sulla voce di Meg, sulla falsariga dell'epilogo metafisico di "Baba O' Riley".
Gli Stripes giocano anche con i titoli: "300 MPH Torrential Outpour Blues" sembra uscito dalla penna di Dylan, ed effettivamente ha una struttura malinconica di chitarra acustica à-la "Blood On The Tracks" prima di arricchirsi con derive elettriche quasi noise. Attorno ad ogni cuore, tuttavia, c'è una scorza dura che protegge. E qui si ritorna al gioco ipertestuale dei rimandi. Se, per esempio, John Paul Jones desse l'ok per la tanto chiacchierata reunion dei Led Zeppelin e Page e Plant si richiudessero in uno studio, verrebbe fuori qualcosa di simile al singolo "Icky Thump", infarcito com'è di riff hard-rock e incursioni arabeggianti. Il garage pop-rock and roll dei Raconteurs non è passato invano e il tributo alle New York Dolls di "Bone Broke" potrebbe essere un outtake di Broken Boy Soldiers. Jack non rinuncia alla ballata folk tenera e melodica ("A Martyr For My Love For You") così come alla sua slide da guitar hero delle paludi ("Catch Hell Blues") o, come in "Effect and Cause", allo scanzonato country honky. L'hard-blues tribale di "Little Cream Soda", infine, rimanda alle origini della band, ormai quasi dieci anni fa. Con la speranza, ovviamente, che nessuna tifoseria al mondo adotti il suo riff principale. Tra revival e nuove intuizioni, Icky Thump convince per piglio e freschezza. I White Stripes presentano "Ritorno al Futuro parte VI". Ed è uno dei migliori film della serie.

Sarà il canto del cigno per i White Stripes. Meg, dopo aver sposato il figlio di Fred e Patti Smith, scomparirà dalle scene, mentre Jack continuerà dividendosi fra numerosi progetti. Nel 2020 i due (o soltanto Jack?) pubblicano Greatest Hits, una retrospettiva contenente alcune fra le tracce più rappresentative del loro percorso in comune. Ventisei brani in tutto, una sorta di playlist fisica – non cronologica – ascoltando la quale non si può che ribadire e rafforzare quanto di buono è stato detto negli anni sul duo di Detroit, in grado di rileggere la lezione dei maestri con creatività tutta propria. Un sound che il tempo non ha scalfito, proprio perché trattasi di musica fuori dal tempo, radicata nel diabolico e polveroso blues del Delta e nell’anarchia isterica del rock’n’roll più intriso di sudore.
Brani divenuti piccoli classici, come “Fell In Love With A Girl” o “I Just Don’t Know What To Do With Myself” (cover di Bacharach) sono qui a testimoniarlo, e ancor più i tanti momenti memorabili raccolti: dagli oltre sei minuti dell’infuocata “Ball And Biscuit” ai due del travolgente country schizoide di “Hotel Yorba”, dal falsetto annegato nei riff assassini di “Blue Orchid” alla geniale sintesi giovanile di “I Think I Smell A Rat”.Si pesca uniformemente da tutti gli album del gruppo (“Jolene”, cover di Dolly Parton, era “soltanto” il retro del singolo “Hello Operator”), partendo dal debut-single, “Let’s Shake Hands”, registrato nel soggiorno di casa e pubblicato a marzo del 1998, successivamente ristampato in tiratura limitata e inserito come bonus track nella japanese version del loro primo omonimo album. Tutto il resto è storia, più o meno nota, e terminato l’ascolto, resta un quesito: perché proprio ora? Che Jack stia preparando un’inattesa sorpresa per i prossimi mesi?

Jack balla da solo

Ma ritorniamo al 2012, quando Jack White si concede, a 36 anni, il primo disco solista, regalando un sapore inconfondibile a ognuno dei 13 pezzi di Blunderbuss, prodotti e registrati per lo più a Nashville, nella sede della Third Man(label di cui è proprietario) ma anche in collaborazione con la storica XL Recordings.
Intorno a White si muove un cast d'eccezione, tra cui svariate voci femminili, come la ghanese Ruby Amanfu e la modella/cantante Karen Elson (seconda ex-moglie di White), la meravigliosa pianista Brooke Waggoner, il contrabbassista Bryn Davis e addirittura un intero gruppo, il signor Pokey La Farge con i suoi South City Three. Molti di loro sono presenti anche nel tour che promuove l'album, in una particolare line-up: ci sono due band, una fatta da soli uomini, l'altra da sole donne, con White a decidere "a colazione chi suonerà la sera". Il disco non è certo un tornado come "White Blood Cells", ma riesce a rispolverare la tradizione rileggendola in una nuova chiave. E il risultato è una deliziosa diavoleria, lungimirante, insieme omaggio alle radici e costruzione di nuovi orizzonti. Nell'era informatica, "Blunderbuss" unisce la musica "di quando non c'erano i Pc", sporca di sudore e saliva, con la mega-produzione propria dell'era moderna. Ovunque si muove instancabile la voce di White, che è al meglio della sua carriera, così naturale sul suo registro acuto, volando tra una pulita espressività figlia del buon vecchio Ziggy Stardust e la ruvidezza vertiginosa del blues-rock. White diventa quasi il narratore di una raccolta musicata di racconti gotici. Pieno com'è di versi incazzati e bluastri, "Blunderbuss" racconta l'eterna, splendida guerra degli innamorati sterzando da un genere all'altro, per spiazzare l'ascoltatore ad ogni angolo.
La tesissima "Missing Pieces" apre il disco con il piano elettrico rhodes a suonare nello stile del jazz di Herbie Hancock. "Sixteen Saltines" è una follia blues-rock, coloratissima ed elettrica, da sparare a tutto volume, con le celebri melodie alla White Stripes che si inchiodano al cervello ma con un ingegnoso contrabbasso a sostituire l'ovvio basso elettrico. "Love Interruption" è il duetto acustico di White con la Amanfu, tra le frasi del clarinetto. "Blunderbuss" narra di un incontro segreto fra amanti in un hotel, tra luci romantiche e sexy dipinte dagli archi. "Hypocrital Kiss" è una suite amara, coccolata dall'isteria barocca del pianoforte della Waggoner. "I'm Shakin" è una riuscita cover del pezzo composto dal jazzista Rudy Troombs, resa famosa dall'r'nb americano di Little Willie John, con le voci femminili a scorrazzare in coretti baciati in puro stile sixties.
Dopo il riposante r'n'b di "Trash Tongue Talker", con il canto che strizza l'occhio a Elton John, arriva, completamente inaspettato, l'honky-tonk fiabesco e smaliziato di "Hip (Eponymous) Poor Boy", che ammicca alle vignette dei Kinks. Invece, ballando su una melodia jazzata tra i riccioli country del fiddle, il disperato appello finale "Take Me With You When You Go" conclude in bellezza il disco, con un repentino cambio di stile in salsa gospel-freak. Una gran bella orgia sonora: semplice e diretta, come sa fare solo chi ha un pezzo di blues conficcato nel cuore.

Il secondo ballo in solitaria di Jack, due anni dopo "Blunderbuss", si chiama Lazaretto. Anche questo disco riflette in pieno la natura onnivora del suo vulcanico creatore, spaziando fra orizzonti sonori vastissimi e rimodellando la materia musicale grazie al calibrato utilizzo di una moltitudine di strumenti (dal piano al moog, dal mandolino ai violini per arrivare all'armonica e all'immancabile bottleneck) e a un parterre di collaborazioni di primissimo piano. In mezzo c'è sempre e comunque lui, Jack White e il suo talento debordante, che cannibalizza quello che trova intorno a sé senza mai stritolarlo, che trasforma in oro tutto ciò che sfiora. Questo disco, più o meno come il suo predecessore, rappresenta un continuo fluire di emozioni contrastanti e comunque sempre molto forti, sospese fra un riff incazzato o una dolce linea d'arpeggio incorniciata da archi e voci femminili che ammorbidiscono la dura scorza r'n'b e blues. Come “Blunderbuss” e forse più di “Blunderbuss”, l'album riflette lo stato d'animo inquieto ed eclettico del suo protagonista, assecondando le sue svariate "lune"; basti pensare alla dicotomia fra le riflessive parentesi di “Want And Able” o “Entitlement” e la feroce marcia strumentale di “High Ball Stepper”, formidabile macchina da guerra intrisa di heavy-rock fino alla cistifellea. E poi ci sono i testi: taglienti, abrasivi, diretti, ispirati da poesie e racconti che lo stesso White scrisse da ragazzo, prima di conoscere il successo planetario.
A dire il vero ogni singola canzone di Lazaretto avrebbe diritto a una propria personalissima recensione, tanto ampio è lo spettro musicale che viene coperto. Racconti appena sussurrati o rabbiosamente sputati in faccia all'ascoltatore dalla solita inconfondibile voce agrodolce di White, che con gli anni proprio non accenna a sfiorire o fiaccarsi. Non mancano i rimandi ai colossi del passato, riletti comunque sempre in chiave moderna e personale. Il duetto con la violinista Lillie Mae Rische in “Temporary Ground” ci porta istantaneamente alle rive del Mississippi nell'estate torrida di New Orleans, mentre strappano sorrisi l'amabile honky-tonk di “Just One Drink” e l'innocente melodia di “Alone In My Home”, quest'ultima ideale passaggio di consegne con la fiaba di “Hip (Eponymous) Poor Boy” presente nell'album precedente. Ci sarebbe da spendere anche qualche parola sulla fiammante doppietta iniziale, con un White mattatore assoluto che canta delle sue tre donne in giro per gli States e che fa addirittura rivivere iBeastie Boys in salsa funk-rock nella sanguinosa e farneticante title track, accompagnata da un video invero piuttosto pomposo.

Al cospetto di un disco come Lazaretto molte cose passano necessariamente in secondo piano. Un po' come l'ultima trovata dello stesso musicista che, in occasione del Record Store Day, nel giro di quattro ore, registra un 45 giri e lo mette in vendita, aggiudicandosi la palma di “World fastest released record” e segnando l'ennesima tacca sulla colonna dei geni musicali contemporanei. E possono andare al diavolo anche le polemiche per le dichiarazioni infelici sui colleghi Black Keys, che comunque a Jack e alle sue creazioni sanno di dovere parecchio. 
Ad oggi, la musica di Jack White parla per lui meglio di qualsiasi gossip o trovata pubblicitaria. I suoi pezzi rappresentano il miglior manifesto a stelle e strisce che il mercato musicale è attualmente in grado di offrire, specialmente per tutti quelli che restano ancora affascinati dagli scenari polverosi e meravigliosamente ruspanti della provincia statunitense.

Superata la soglia dei quarant'anni, White torna con il terzo lavoro solista, Boarding House Reach, attorcigliando la fune in cielo, lasciando così fuggire il cavallo troppo lontano, dunque perdendo di vista il proprio obiettivo, quasi a stritolarsi inconsciamente mediante una mescola a suo modo "nuova", parimenti orientata qui e là ai consueti riff alla Jimmy Page, così come ai vari squarci strumentali vicini alla musica tradizionale messicana (già ampiamente propinati ai tempi del bellissimo “Icky Thump”); un’idea portata in avanti con la classica strumentazione vintage, nel solco di una rivisitazione che soltanto con lui riesce stranamente a non apparire la solita polpetta frikkettona fuori tempo massimo. Inoltre, per l’occasione White porta in studio anche svariati sintetizzatori e financo dei tamburi africani, confermando la volontà di cambiare formula, perlomeno in apparenza.
Boarding House Reach, edito per la propria label Third Man, mostra quindi dei coraggiosi punti di “rottura” con i due precedenti lavori, imbevendosi di vaghe bizzarriezappiane, come nel caso di “Hypermisophoniac”, posta sul piatto alla stregua del geniale e insuperato alchimista del rock; o nelle diavolerie elettriche con tanto di rappato alla Beastie Boys e coda sciattamente fusion di “Ice Station Zebra”, agitata da un piano elettrico schizzato e spinta in "alto" da fughe pirotecniche alla Who periodo “The Who Sell Out”. Le due nenie poste in chiusura, gospel la prima (“What's Done is Done”) e piano melanconico per la seconda (“Humoresque”), non riescono a risollevare un album in fin dei conti poco riuscito, uno zibaldone confuso e privo di luce, nel quale l’unico momento più esaltante rimane paradossalmente la sola traccia ancorata totalmente al glorioso passato, ovverosia il singolo “Over and Over and Over”. E questo la dice lunga su quanto risulti scipito il tentativo di reinventarsi pur rimanendo sostanzialmente se stesso.

Nel 2022 decide di raddoppiare l’offerta producendo due album nel giro di pochi mesi. Il primo rilasciato ad Aprile, Fear Of The Dawn ha un titolo che sembra strizzare l’occhio al quasi omonimo “Fear of The Dark” degli Iron Maiden. Di sicuro è un disco solido ed energico che a tratti ricorda lo stile Hard Rock inglese. Certamente non nella sua forma originaria: Il colorato polistrumentista ama infatti disseminare i suoi brani con svariati elementi alieni. In “That Was Then, This Is Now” utilizza dei sintetizzatori con dei suoni che imitano i vecchi videogame per rallentare il ritmo e cambiare improvvisamente tonalità. Nella già citata “Fear Of The Dawn” uno straordinario theremin si mescola sapientemente con i frequenti strappi delle chitarre mentre rombi di motore interrompono lo scatenato (ed un po’ ripetitivo)  incedere in stile Rage Against The Machine di“What’s The Trick”.

È un album che contiene molta sperimentazione. Uno dei brani meglio riusciti da questo punto di vista è "Eosophobia" che allude ad un disturbo psicologico che induce a chi ne soffre ad avere terrore del Sole che sorge. Il pezzo è suddiviso in una traccia principale e una successiva ripresa. I deliri messianici con cui White intima al Sole di non apparire contribuiscono a creare un’atmosfera lisergica ma il punto di forza è l’egregio lavoro fatto nella ripresa con gli strati di chitarre liquide sovrapposte alla maniera degli Allman Brothers Band. Non è raro imbattersi in questo disco con sonorità che rimandano  agli anni ’70.

Non sempre negli altri brani il risultato di questa continua ricerca di innovazione o di rielaborazione di sonorità vintage porta a risultati soddisfacenti. Ad esempio, "Into The Twilight" è una babele di suoni confusionaria, più simile ad una jam session che ad una vera canzone; “The Dusk” assolutamente inconcludente nella sua brevità. Neanche la collaborazione in “Hi-De-Ho” con Q-Tip (frontamn dei A Tribe Called Quest) convince pienamente.

Ad ogni modo è innegabile che la resa finale dell’album sia molto più efficace rispetto a quella del predecessore. Chi conosce l’istrionico artista del Michigan sa quanto ami impressionare la sua gente  e nella sua incessante opera di sperimentazione è quasi inevitabile qualche scivolone, specialmente se non si fa supportare da un punto di vista  terzo in fase di produzione. In fin dei conti Fear Of The Dawn rimane un disco pieno di idee originali e spunti interessanti che rimane coinvolgente per tutta la sua durata.

Entering Heaven Alive, uscito a luglio, è invece un disco dall’identità acustica e gentile completamente in contrasto con la natura esplosiva del predecessore.
Due facce della stessa medaglia dirà qualcuno, ed in parte è così. L’ex-White Stripes non ha infatti mai nascosto di possedere, accanto alla ben nota enciclopedia di riff elettrizzanti, un manuale da cantautore confidenziale che insegna a lasciar viaggiare la propria indole più riflessiva sulle corde di una vecchia chitarra acustica. Esempio perfetto ne sono alcune perle del suo repertorio passato come “We’re Going To Be Friends” o "As Ugly As I Seem" e le splendide riletture di quello stesso repertorio presenti in “Jack White Acoustic Recordings 1998-2016”.
 
A sostenere la tesi della doppia faccia del Nostro c’è anche l’elemento che accomuna non solo gli ultimi due lavori, così differenti tra loro, ma l’intera discografia di White: l’eclettismo.
Per quanto Entering Heaven Alive mantenga infatti un registro acustico e compassato per quasi tutta la sua durata, non si può certo dire sia un disco che manchi di varietà.
Il lavoro trova infatti la sua quota di eterogeneità nei generi affrontati e negli arrangiamenti scelti, che fanno sì che il nostro passi dal folk più classico al chamber pop, attraversando tanto il blues (invero meno del solito) quanto il vaudeville e perfino alcuni momenti lievemente jazzati.
 
C’è però qualcosa che ci fa dubitare di questo nuovo lavoro, qualcosa che prima ancora di iniziare l’ascolto mette in guardia, e ci fa domandare: “Si tratta davvero di un disco di Jack White?”.
L’immagine scelta per la cover del disco infatti, per la prima volta, non espone il viso di White in modo diretto ed immediato ma ad un primo sguardo potrebbe addirittura celarlo, mistificarlo, farci pensare che il protagonista non sia lui.
A dare man forte a questa supposizione è il colore scelto, il grigio. White è sempre stato molto attento a comunicare attraverso linguaggi cromatici nella sua carriera ed il blu si è fatto, da ormai un decennio, firma immancabile delle sue uscite soliste, presente anche nell’altro, già menzionato, lavoro a tinte grigio-acustiche, ma non qui.
La sensazione che pervade l’ascoltatore non è però quella di un White dalle nuove tinte, quanto quella di un White a cui queste canzoni non appartengono del tutto. L’anima istrionica del Nostro è qui domata in temi, soprattutto melodici, che affondano troppo calligraficamente nella tradizione, risultando così estremamente generici come in “If I Die Tomorrow” o “Queen Of The Bees”.
Il classico tocco da formidabile strumentista di certo non manca (anche se mai così eccessivamente ripulito), e le canzoni sono lontane dall’essere brutte, ma non sempre riescono a pungere a causa di linee vocali abusate e cantate con poca verve, senza mettere in mostra quella voce acidula che faceva uscire l’inconfondibile personalità dell’autore anche negli episodi più sussurrati.
 
Non è un caso che i momenti meglio riusciti siano quelli in cui White più si lascia andare, non solo con la fantasia strumentale, come nella tribale “I’ve Got You Surrounded (With My Love)”, nella jazzata “A Madman From Manhattan” o in “A Tree On Fire From Within” in cui l’interplay tra il piano e una chitarra dai toni totalmente chiusi funziona a meraviglia, ma soprattutto con l’animo, ed è allora che emergono i veri gioielli acustici: “Love Is Selfish”, strutturata su un arpeggio semplicissimo ma interpretata in modo ineccepibile e “Taking Me Back (Gently)” pezzo dallo spirito quasi country impreziosito da violini danzanti che riesce addirittura a superare la gemella elettrica presente nel lavoro precedente.
L’invocazione di “Please God, Don’t Tell Anyone” è sintomatica di ciò, in quanto fa seguire una prima parte insapore e scontata da un gioco di piano e tastiere che revitalizza l’intero brano.
Va rilevato assolutamente un lavoro sui testi mai così buono, che mostra a più riprese come White abbia scavato davvero in profondità per scriverli. Che forse poi sia stato frenato dal mettere queste riflessioni sulla pubblica piazza?


Contributi di Claudio Fabretti ("Elephant"), Flaminia Sorba ("Broken Boy Soldier"), Rossella De Falco ("Blunderbuss"), Lorenzo Bruno ("Lazaretto"), Giuliano Delli Paoli ("Boarding House Reach"), Claudio Lancia ("Greatest Hits"), Fabio Ferrara ("Fear Of The Dawn"), Matteo Contri (Entering Heaven Alive)

White Stripes

Discografia

THE WHITE STRIPES

The White Stripes (Sympathy For The Record Industry, 1999)

6

De Stijl (Sympathy For The Record Industry, 2000)

6,5

White Blood Cells (Sympathy For The Record Industry/V2, 2001)

7

Elephant (XL Recordings, 2003)

6,5

Get Behind Me Satan (XL Recordings, 2005)

7

Walking With A Ghost Ep (V2, 2005)

Icky Thump (Warner Brothers/XL Recordings, 2007)

7

Under Great White Northern Lights (live, Third Man, 2010)

Greatest Hits (antologia, 2020)8,5

THE RACONTEURS

Broken Boy Soldiers (XL Recordings, 2006)

7

Consolers Of The Lonely (Warner Bros, 2008)

7,5

Help Us Stranger (2019)

THE DEAD WEATHER

Horehound (Third Man, 2009)

6

Sea Of Cowards (Third Man, 2010)

6,5

Dodge & Burn (2015)

JACK WHITE

Blunderbuss (Third Man/XL, 2012)

7

Lazaretto(Third Man/XL, 2014)

7,5

Jack White Acoustic Recordings 1998-2016 (Third Man, 2016 - Raccolta)
Boarding House Reach(Third Man, 2018)

5,5

Fear Of The Dawn (Third Man, 2022)

7

Entering Heaven Alive (Third Man, 2022)

6,5

Pietra miliare
Consigliato da OR

White Stripes su OndaRock

White Stripes sul web

Sito ufficiale
Myspace
Testi