1. La canzone classica
È alquanto paradossale che Napoli, la città italiana maggiormente tacciata di provincialismo, abbia il patrimonio di musiche non solo più ricco di tutte le altre tradizioni locali della musicalmente provinciale Italia, ma anche il più apprezzato a livello internazionale. L’immortale “Nel blu dipinto di blu”, che nel 1958 fece il giro del mondo, poteva essere partorita solo da chi, come Modugno, aveva assimilato le aperture melodiche della tradizione classica napoletana. Perfino Sua Maestà Elvis volle omaggiare le raffinate melodie di “Torna a Surriento” e “ 'O sole mio” con “Surrender” e “It’s Now or Never”, mostrando come canzoni strutturalmente così lontane dai canoni del rock’n’roll potessero adattarsi a uno stile che faceva del ritmo trascinante la propria arma rivoluzionaria.
Rivoluzionaria, a ben vedere, era stata anche la canzone classica napoletana che dall’Ottocento in avanti aveva contribuito, ben prima dell’avant-pop, a far saltare gli steccati tra musica popolare e musica colta, perché se è vero che molti autori di celebri canzoni partenopee avevano avuto una formazione accademica, è altrettanto vero che le loro composizioni si rivolgevano essenzialmente alla gente comune, raccontando di piccole gioie e dolori quotidiani, legate spesso - ma non necessariamente - alla sfera amorosa. Questa stessa trasversalità culturale aveva del resto caratterizzato anche le villanelle, delle canzoni portate letteralmente “in giro” per la città da musicisti vagabondi. Tale forma musicale, costruita su un canto a cappella a tre voci - o, in alternativa, su una sola voce accompagnata da un liuto – affrontava per lo più tematiche popolaresche. Le villanelle nacquero quindi in modo spontaneo segnando la trasformazione della tradizione orale che, sfruttando la naturalezza con cui la fonetica napoletana si adattava alla costruzione melodica, passò dal racconto al canto. Non si sa con precisione quando le prime villanelle siano nate. Una delle più conosciute, “Il Canto delle lavandaie del Vomero”, pare risalga addirittura al Medioevo. Si tratta di una nenia desolata e meravigliosa, un ancestrale canto di sirena che ammalia e rapisce. L’effetto è ancora più suggestivo se ad essa si abbinano le immagini di uno dei tanti luoghi incantati che rendono Napoli una città esoterica; la Piscina Mirabilis di Bacoli - per esempio – è uno di questi, un luogo non a caso scelto da John Turturro nel suo bellissimo film-documentario “Passione” come ambientazione evocativa della versione spettrale datane da Florenza Calogero.
Se appare dunque difficile stabilire con precisione in che periodo storico la villanella sia nata, si conosce meglio invece l’evoluzione che questa forma musicale ha subito nel corso dei secoli: tra Cinquecento e Seicento, infatti, la villanella napoletana divenne un tipo di composizione di stampo lirico che affascinò diversi compositori, anche stranieri, ottenendo così un successo clamoroso in tutta Europa.
La canzone classica napoletana - quella che ha fatto il giro del mondo, per intenderci - nacque però soltanto in un secondo momento, quando iniziarono a diffondersi canzoni melodicamente splendenti, come il sole di mezzogiorno che irradia il Golfo di Napoli, cantate con un‘attenzione meticolosa alla bella forma canora e capaci allo stesso tempo di sprigionare una passionalità tale da scongiurare qualsiasi aridità di maniera. Precisamente, fu la seconda metà dell’Ottocento a partorire miracoli di equilibrio tra musica e poesia, in cui la musica era quella scritta da compositori (tra i quali è giusto citare almeno Eduardo di Capua, l’autore di “O’sole mio”), formatisi presso il conservatorio di San Pietro a Majella, che rifuggivano complicazioni accademiche; mentre la poesia era quella semplice, scevra da contorsioni formali, di personaggi cardine della cultura partenopea come Libero Bovio e Salvatore Di Giacomo. Del primo è molto famosa la cadenzata elegia amorosa di “Reginella” e forse meno quella “Passione” che probabilmente è la pietra più preziosa del diadema musicale partenopeo; il secondo, dal canto suo, avrà trafitto il cuore di migliaia di innamorati con le parole toccanti dalla mesta sonata d’amore tribolato di “Catarì” o con quelle che fluttuano malinconiche sull’ariosa apertura melodica di “Era de maggio”.
Di un'altra generazione - intermedia rispetto a quelle a cui appartenevano rispettivamente Di Giacomo e Bovio - era invece Aniello Califano, il poeta che nel 1915 scrisse quello che nel tempo è diventato un vero è proprio inno alla napoletanità: “O’surdato ’nnamurato”, una dichiarazione d’amore corale che spesso i napoletani erranti per il mondo indirizzano alla loro lontana città. Di tutt’altro tenore è invece “Indifferentmente”, canzone scritta nel 1963 da Umberto Martucci e Salvatore Mazzocco, che con la sua desolata disperazione sembra incarnare l’altra faccia di Napoli, non solo dal punto di vista musicale: quella di una profonda disillusione espressa con un’intensità pari e contraria alla gioviale nostalgia di “O’ surdato ‘nnamurato”.
“Indifferentemente” sembra chiudere un delicato periodo di rinnovamento per la tradizione classica napoletana - i primi tre lustri del dopoguerra – sia dal punto di vista strettamente musicale sia per quanto riguarda i testi e i contenuti. L’artefice principale di tale mutamento fu Renato Carosone, autore di canzoni famosissime come “Caravan Petrol”, “’O sarracino” e “Tu vuò fà l’americano” in cui la proverbiale ironia napoletana si attaglia in modo spontaneo a strutture musicali - soprattutto ritmiche - mutuate dal jazz, dallo swing e dal rock’n’roll. La canzone napoletana – ma si potrebbe dire quella italiana in generale, considerando anche le esperienze musicali dei pressoché coevi Fred Buscaglione e Domenico Modugno - scopriva allora l’America: Carosone era il Cristoforo Colombo del pentagramma, il suo inseparabile pianoforte la caravella che approdava su nuove terre musicali. In quello stesso periodo la canzone napoletana seppe ammodernarsi anche lungo direttrici più canoniche e, per così dire, meno traumatiche di quelle che avevano spinto Carosone a guardare oltreoceano. Furono personaggi dello spettacolo dotati di particolare sensibilità poetica e melodica a battere strade nuove, in modo meno austero che in passato ma non meno efficace. Riccardo Pazzaglia, per esempio, regalò a Domenico Modugno un’esilarante “Io, mammeta e tu” per farne un raffinato numero da varietà non dimentico della tradizione comica della macchietta; e non si può non citare l’eterno Totò che, tolta la maschera di uccellaccio beffardo con cui compariva nei suoi film, indossò quella amletica dell’amante problematico che non riesce a dimenticare l’amata/odiata “Malafemmena”.
Probabilmente in arte – in qualsiasi arte - non esistono periodi di decadenza; tuttavia esistono periodi in cui uno stile o una forma artistica non è più in grado di trasformarsi, ibridarsi con altri linguaggi e servirsi dei modelli del passato per eguagliarne lo spirito: è quello che è successo alla tradizione melodica napoletana. A partire dalla metà degli anni Settanta, infatti, comparve sulle scene partenopee il giovane Nino D’Angelo, che nel giro di un decennio raggiunse un successo da star grazie a film inguardabili e a canzoni anche peggiori. Non è questione di essere ingenerosi, ma davvero si può considerare il biondo scugnizzo dalla faccia di bravo guaglione il padre inconsapevole di tutto il pattume neomelodico che, come la camorra e il malaffare, ha deturpato l’immagine di un’intera città. Il virus era in circolo ormai: negli anni Novanta orde di adolescenti - soprattutto quelli cresciuti nelle periferie socialmente più disagiate - eleggeranno a modelli non solo personaggi di scarsa consistenza artistica (il ché sarebbe un male minore, dopotutto), ma anche di bassa statura morale, dato che le canzoni neomelodiche, quando non indulgono a dozzinali amenità, celebrano stili di vita di stampo malavitoso. Certo, c’è chi ha tentato di resistere a questo triste imbarbarimento. Uno su tutti, il grande Roberto Murolo, che fino alle soglie dei novant’anni ha continuato a tramandare quella tradizione melodico-poetica impunemente vilipesa non solo dai neomelodici, ma anche dai vari Gigi D’Alessio e Sal da Vinci che dei neomelodici non sono altro che un’estensione edulcorata. Da parte sua Nino D’Angelo ha cercato di redimersi quasi fosse un Fra Cristoforo napoletano che, resosi conto della propria “colpa”, ha cercato rifugio presso un convento sonoro fatto di ritmi popolari e influssi etnici. Pur apprezzandone lo sforzo, il coraggio di mettersi in discussione e - perché no - in alcuni casi anche i risultati, non è facile con lui essere benevoli come lo fu Manzoni con il suo personaggio.
2. Cinque poesie in musica
Era de maggio (1885; Salvatore Di Giacomo/Mario Pasquale Costa). “Era de maggio” è una canzone sull’indissolubilità dell’amore: due innamorati si separano a maggio promettendosi di ritrovarsi di nuovo in quel mese, quando le rose saranno rifiorite. Inizialmente il mese di maggio è inteso come il simulacro di un incontro idilliaco e allo stesso tempo malinconico: l’ultimo con la propria amata. La prima strofa lo evoca attraverso immagini vivide, capaci di far respirare la bucolica atmosfera della primavera partenopea (“Era de maggio e te cadéano 'nzino, a schiocche a schiocche, li ccerase rosse. Fresca era ll'aria, e tutto lu ciardino addurava de rose a ciento passe.”). Nella seconda il periodo arido e triste – l’autunno e l’inverno – è già passato e i due si ritrovano a intonare nuovamente il loro canto amoroso davanti a quella fontana la cui acqua, metafora dell’amore che provano l’un per l’altra, non si prosciuga mai perché “passa lu tiempo e lu munno s'avota, ma 'ammore vero no, nun vota vico”.
Catarì (1892; Salvatore Di Giacomo/Mario Pasquale Costa). Meno nota di “Era de maggio”, “Catarì” è anche più sofferta; una tristezza che però non diventa mai autocommiserazione. Anche qui il protagonista è un mese dell’anno: marzo stavolta, il mese più pazzo stando a un diffuso detto napoletano. Effettivamente, nel contesto del mite clima partenopeo Marzo, essendo a cavallo tra l’inverno e la primavera, alterna copiosi acquazzoni a improvvise schiarite. Di Giacomo, ricorrendo alla rima alternata, tradusse in versi questo luogo comune in fin dei conti abbastanza veritiero ("Mo nu cielo celeste, mo n’aria cupa e nera, mo d’ ‘o vierno ‘e ‘tempeste, mo n’aria ‘e primmavera"). In questo scenario meteorologicamente così incerto un uccello infreddolito attende l’uscita del sole, mentre le viole sospirano sul terreno bagnato. Sembra una poesia simbolista, anche se la forma metrica e il linguaggio non cadono nella trappola dell’estetismo. Nell’ultimo verso l’enigma si scioglie (“Catarì, che vuò cchiù? Ntienneme, core mio, Marzo, tu ‘o ssaje, si’ tu, e st’auciello song’ io”), lasciando un senso di vulnerabilità universale: siamo tutti aucielli freddigliusi alla mercé di un marzo ostile.
Passione (1934; Libero Bovio/Ernesto Tagliaferri/Nicola Valente). È davvero difficile scrivere qualcosa di significativo su questa canzone. È talmente perfetta in sé che ogni parola che tenti di descriverla o spiegarla rischierebbe di intaccarne la magia. No, davanti a “Passione”, davanti a questo fulgido lamento per un amore perduto, non esiste esegesi che tenga. E se esistesse, non ce ne sarebbe bisogno. Chi, almeno una volta nella vita, non ha vissuto il sentimento dell’abbandono? Chi non conosce quel “dolce veleno” chiamato malinconia? Chi, da sobrio, non si è mai sentito ubriaco di dolore? E non occorre essere Gesù Cristo per non sentire “il peso della croce che trascino per te”. Semmai la canzone italiana abbia prodotto qualcosa di spiritualmente vicino al blues, quel qualcosa si chiama “Passione”.
Malafemmena (1951; Antonio De Curtis). C’è un video d’epoca nell’archivio Rai in cui Totò spiega come nacque “Malafemmena”. Dovrebbero mandarlo a memoria tutti i presunti fenomeni della scena musicale italiana: il principe della risata racconta di aver appuntato i versi di “Malafemmena” su un foglio di fortuna, mentre era sul set di un film che stava girando a Formia. Tornato la sera a casa, aveva poi fischiettato delle melodie, trovando quella giusta – dice – in modo assolutamente naturale, perché “le parole stesse portano la musica”; come a dire che fu la stessa sillabazione dei versi a generare quella grandiosa melodia. Una melodia agrodolce, in questo caso, che rispecchia la dialettica tra odio e amore che il protagonista della canzone rivolge alla sua amata, una sibillina donna angelo che usa l’apparente dolcezza delle sue fattezze per infierire sulle debolezze altrui (“Si ddoce comme 'o zucchero però sta faccia d'angelo te serve pe 'ngannà”). Leggenda vuole che il brano fosse dedicato a Silvana Pampanini, ma Liliana De Curtis, la figlia che Totò ebbe con la moglie Diana Bandini Lucchesini Rogliani, ha in seguito rivelato che “Malafemmena” fu in realtà scritta per sua madre, che con l’attore napoletano ebbe un rapporto sentimentale molto travagliato.
Indifferentemente (1963; Umberto Martucci/Salvatore Mazzocco). L’impotenza di chi è consapevole che tutto è finito (“Famme chello che vuó'indifferentemente, tanto 'o ssaccio che só: pe' te nun só' cchiù niente!”); l’amara disillusione di chi non si aspetta altro che mestizia (“E damme stu veleno, nun aspettá dimane”); il paradosso atroce di chi, arrivato all’apice del mal d'amore, rimane come anestetizzato (“Nun sento cchiù dulore e nun tengo cchiù lacreme pe' te”). Tutto questo è “Indifferentemente”; un soliloquio nichilista, un disperato - nel senso di senza speranza - monologo interiore al chiaro di luna, quando la notte cala e al triste protagonista non resta che recitare l’ultima scena di un film di cui sa già il finale (“Tramonta 'a luna e nuje, pe' recitá ll'ùrdema scena, restammo mane e mane, senza tené 'o curaggio 'e ce guardá”). Meravigliosa la versione jazzata che ne diede Mina nel suo album "Napoli" del 1996.
3. Una babele di musiche: tarantelle, tammurriate e suoni mediterranei
Accanto alla canzone classica la tradizione musicale partenopea vanta un repertorio di musiche e balli popolari che in realtà appartiene al patrimonio culturale dell’intero Mezzogiorno d’Italia. La tarantella napoletana - detta anche tammurriata per via dell’accompagnamento ritmico basato sulla “tammorra”, ossia un particolare tipo di tamburello dal diametro generalmente più grande di quelli usuali - è infatti una variante di quelle danze che, a partire dal Settecento, si diffusero tra le diverse popolazioni del Regno delle Due Sicilie. Non a caso il nome “tarantella” deriva dal termine pugliese “taranta”, utilizzato generalmente nel Salento per designare quel tipo di musica che è meglio conosciuta come “pizzica”. Entrambi i termini – taranta e pizzica – si riferiscono al morso (il pizzico) di un ragno (la tarantola appunto) in grado di provocare negli umani un dolore talmente intenso da indurli a compiere movimenti convulsi ed esagitati. Secondo una credenza popolare, il morso della tarantola causava crisi isteriche che potevano essere lenite solo grazie a un rituale musicale in grado di esorcizzare, suscitandoli, i movimenti dei tarantolati. Fu così che i passi frenetici ed epilettici di queste danze del Sud vennero comunemente etichettati come “tarantelle”. Puntuale dimostrazione della pan-regionalità di questa danza popolare è la circostanza per cui ogni regione del Meridione possiede la propria specifica tarantella: da quella del Gargano (dall’omonimo promontorio nel foggiano) al ballettu siciliano passando ovviamente per la tammurriata campana, senza dimenticare la curiosa propaggine “colta” che essa ebbe nella prima metà dell’Ottocento con Gioacchino Rossini, autore di una tarantella napoletana per orchestra, tenore e mezzosoprano, a testimonianza del fascino che la complessità ritmica di queste musiche esercitò anche in ambito accademico.
La più famosa tammurriata è la “Tammurriata nera”, scritta nel 1944 dal mandolinista E.A. Mario e dal giornalista Edoardo Nicolardi. Si tratta di una danza frenetica e ironica con cui i due autori vollero esorcizzare il dramma di molte donne napoletane, rimaste incinte dei marines americani al tempo dell’occupazione alleata, che partorivano figli di colore destinati a crescere senza padre in un ambiente sociale non immune ai pregiudizi. Nella versione incisa negli anni Settanta dalla Nuova compagnia di Canto Popolare, il brano si fa ancora più concitato accogliendo in coda il motivetto di “Pistol Packin’ Mama” di Al Dexter, canzone che Bing Crosby aveva portato ai vertici delle chart americane alla fine del 1943. Nei versi di questa variante (“'E signurine 'e Caporichino fanno ammore cu 'e marrucchine, 'e marrucchine se vottano 'e lanze, e 'e signurine cu 'e panze annanze”) è probabilmente contenuta anche la denuncia di misfatti ancora più inquietanti: gli stupri perpetrati dai soldati magrebini dell’esercito francese sulle donne del Centro-Sud come “ricompensa” per il ruolo determinante da loro avuto nella missione di liberazione di quei territori dal fascismo.
Proprio la Nuova Compagnia di Canto Popolare ha dato l'impulso fondamentale alla riscoperta dell’intero patrimonio culturale del Sud – non solo la canzone popolare, ma anche il teatro, la poesia, gli usi e i costumi religiosi – che nel turbine progressista del dopoguerra rischiava irrimediabilmente di andare perduto. In questo senso è stato encomiabile il lavoro svolto nella sua lunga e ancora attiva carriera da Roberto De Simone, più che componente effettivo, una sorta di guida e organizzatore del gruppo. Era stato lui – drammaturgo, compositore ed etnomusicologo – alla fine degli anni Cinquanta ad avviare quel processo di rivitalizzazione della cultura popolare campana culminato poi proprio con l’incontro, nel 1967, coi giovani musicisti Carlo d’Angiò, Eugenio Bennato e Giovanni Mauriello, ovvero i fondatori della Nuova Compagnia di Canto Popolare. A loro si aggiunsero presto Peppe Barra e Fausta Vetere, i quali, in virtù di un peculiare stile vocale – a metà strada tra l’innodia religiosa popolare e i recitativi sguaiati tipici della Commedia dell’Arte –, favorirono la compenetrazione tra il linguaggio vernacolare della musica autoctona e quello aulico dell’opera e del teatro, fine ultimo dell’intera esperienza della NCCP come dimostrano i loro lavori più imponenti: “La gatta cenerentola” e la “Cantata dei pastori”. Ma i meriti della NCCP e in particolare quelli dell’archeo-musicologo De Simone non si esauriscono qui: va loro riconosciuta la capacità di aver rielaborato, non solo negli arrangiamenti ma anche nella struttura metrica dei testi e quindi nel ritmo, canti antichi (“Quanno nascette ninno”, magico canto natalizio composto da Sant’Alfonso Maria de Liguori nel 1754) e meno antichi (“’E spingule francese”, classico della canzone napoletana a firma di Salvatore Di Giacomo ed Enrico di Leva). Tra le tante rivisitazioni del loro repertorio, a spiccare è però la tarantella settecentesca di “Lo guarracino”, una sorta di “Giuletta e Romeo” del regno dei mari che narra di una guerra tra pesci scoppiata a causa di un amore galeotto tra il “guarracino” (una castagnola) e la “sardella” (una sardina). La versione originale del brano elenca una moltitudine di specie marine quasi a voler tradurre in linguaggio canoro le suggestive nature morte della scuola napoletana secentesca; quella dei Recco, dei Ruoppolo e di Paolo Porpora.
Come una sapiente cuoca intenta a tramandare alle giovani generazioni gli antichi sapori contadini, la Nuova Compagnia di Canto Popolare ha insegnato a molti come fare a mantenere viva la tradizione musicale locale senza rimanere fermi a contemplarla, al riparo dal rischio di adagiarsi sugli allori di una storia centenaria e dal conseguente pericolo di lasciarla morire di inedia. Una lezione di cui ha fatto tesoro lo stesso Eugenio Bennato che, chiusa l’esperienza con la NCCP, diede vita nel 1978 a un nuovo progetto chiamato emblematicamente Musicanova. L’intento adesso era quello di arricchire il repertorio storico con nuove canzoni folk, scritte appositamente per veicolare i valori culturali partenopei e chiarire i punti oscuri della storia del Sud, a partire dalle radici della questione meridionale: l’Unità d’Italia. Nelle canzoni dei Musicanova la figura controversa del brigante acquista infatti una nuova dimensione; diventa il simbolo eroico e disperato della rivolta di una popolazione oppressa prima dai Borbone e poi dal nuovo stato voluto dai Savoia. E non c’entrano qui gli abusati cliché narrativi del combat-folk che ormai ci hanno abituato alla riabilitazione di qualsiasi personaggio “negativo”: pur concedendosi accenti retorici, i Musicanova hanno cercato di riportare alla luce la verità storica, di restituire a coloro che la storiografia ufficiale ha bollato inesorabilmente come “cattivi” la dignità di uomini – per la maggior parte contadini – che preferirono vivere da fuorilegge, reclamando le loro terre, piuttosto che arrendersi alla miseria a cui erano stati condannati. Erano contadini delusi, i briganti; stretti nella morsa dei grandi proprietari terrieri del Regno borbonico, avevano appoggiato i garibaldini con la promessa che, a stato italiano formato, avrebbero continuato a lavorare quelle terre senza che nessun “padrone” li avesse più vessati. La promessa non fu mantenuta e, colti dall’esasperazione, molti di loro decisero di armarsi, rifugiarsi sulle montagne e combattere contro l’esercito italiano. Le canzoni dei Musicanova, lontano da patetiche partigianerie neoborboniche, hanno raccontato l’altra versione dei fatti e ascoltato le ragioni dei vinti, seguendo perfettamente la controversa pratica della controstoria a cui recentemente si è aperto anche il mondo accademico. La solenne orazione di “A la muntagna” divampa in una danza forsennata che recita: “E chi 'e cunosce, 'o ssape bbuono, ca nun l'è mai piaciuto 'o rre Burbone, ma mò nun sape chest'ata storia: ca nun le piace manco 'o rre Savoia. Se n'è fujuto 'o rre Burbone e n'è venuto n'ato cchiù putente: cagna 'o guverno, cagna 'o padrone, sulo pe' ‘anchi stà 'a sotto nun cagna niente”. Le fa eco l’ancor più mordace “Brigante se more”: “nun ce ne fotte d'o re Burbone ma 'a terra è 'a nosta e nun s'adda tuccà “.
La seconda faccia del folk partenopeo è quella degli Zezi. Se la NCCP e i Musicanova ne rappresentano l’ala in un certo senso colta - per il rigore filologico i primi, per l’interpretazione storiografica i secondi – gli Zezi hanno dato invece voce alla realtà proletaria della loro città d’origine, Pomigliano d’Arco, la cui economia reale è da tempo indissolubilmente legata alle alterne fortune del sempre tristemente attuale stabilimento automobilistico FIAT. Fin dal 1974 gli Zezi si sono proclamati “gruppo operaio” proponendo un repertorio fatto soprattutto di tammurriate tradizionali affiancate da episodi autografi, dedicati per lo più al tema della disoccupazione, dei licenziamenti e dello sfruttamento del lavoro in funzione di feroci logiche capitalistiche. L’arma in questi casi è quella dell’ironia pungente, che peraltro si addice perfettamente al loro nome – la Zeza è la tremenda moglie di Pulcinella - ma purtroppo la caduta di stile è sempre in agguato quando si antepone la sloganistica d’opposizione alla poesia che pure il gruppo di Pomigliano ha saputo esprimere in più occasioni. Forse il vero spirito degli Zezi è quello delle lagne anti-establishment di “Capipallisti”, “Tammurriata dell’Alfa Sud” e “Pose e sorde” ed è sacrosanto che un gruppo che si autodefinisce “operaio” vada orgoglioso di pezzi probabilmente scritti apposta per essere urlati nelle piazze durante le feste dell’Unità, le manifestazioni e gli scioperi. Il punto, però, è che gli Zezi hanno saputo anche scrivere canzoni in cui l’attenzione ai problemi del loro territorio non va a discapito della qualità poetica della musica e anzi la esalta. È il caso di “Sant’Anastasia ('A Flobert)", una processione straziante per chitarra e flauto che si accende di rabbia nel finale, trasformandosi in una tarantella furibonda decisa a vendicare a colpi di tammorra la morte di dodici operai della Flobert, una fabbrica di esplosivi saltata per aria nel 1975 nel comune che dà il titolo al pezzo. C’è poi “Vesuvio”, il loro brano più conosciuto e forse anche il più bello: un rito tribale in onore del Vesuvio, una preghiera devota affinché il Re Vulcano – che ha nelle mani il destino dei paesi sorti alle sue pendici - sopisca la propria collera perché “Si jesce pazz, è pazz overamente; l’unica verità pe’ tutt’ quante sarà chell’ ‘e fuì”. In caso di eruzione l’unica soluzione sarà la fuga; i tamburi la simulano con un andamento sincopato mentre la discesa travolgente della lava è racchiusa nell’elegia torrenziale stillata dal piffero. Raramente si concedono escursioni world, gli Zezi, ma quando lo fanno, come in “Pummarola Black”, diventano cantori della mediterraneità, con gli influssi arabi che legano nello stesso colpo d’occhio Napoli, Nord Africa e Turchia. Un’unica, grande terra.
Il Mediterraneo: è questa la terza maschera del folk partenopeo. A indossarla, uno dei musicisti italiani più lungimiranti: Enzo Avitabile. Figlio dell’impervia periferia napoletana, uomo di grande cultura che preferisce parlare l’idioma della strada piuttosto che barricarsi dietro aridi sofismi dialettici, Avitabile ha iniziato la sua carriera nel segno del soul-funk. Armato di sassofono ha raggiunto traguardi prestigiosissimi, suonando al fianco di istituzioni come James Brown, Tina Turner e il sassofonista funk per antonomasia Maceo Parker. Poi, a cominciare dagli anni Novanta, ha intrapreso una sorta di viaggio culturale alla scoperta non tanto di ciò che rende diversa una tradizione musicale dall’altra quanto degli elementi comuni che ci fanno riscoprire fratelli, tutti figli dello stesso pianeta. È musica ecumenica, quella di Avitabile: costruisce ponti immaginari tra Napoli e il sud del mondo, unisce terre geograficamente separate ma spiritualmente affini, dimostrando che non c’è poi tanta differenza, nel gioco della modulazione vocale, tra il canto di un napoletano e quello di un muezzin arabo o un griot nigeriano. Intenti concreti e non solo culturali, quelli del sassofonista di Marianella, che lo hanno portato a collaborare con molte star della world music al fine di finanziare progetti umanitari. Uno dei più fortunati fu il singolo del 1999 “Mane e mane” - un inno di fratellanza cantato in coppia col suonatore di kora guineano Mory Kanté - i cui proventi furono destinati all’UNICEF.
Nel nuovo millennio il mosaico multiculturale di Avitabile si è arricchito di nuovi tasselli, a cominciare dal bellissimo “Salvamm’O munno”, disco di world music che svela il cuore africano pulsante nell’entroterra campano. Nel comune di Portico di Caserta, durante la festa di S. Antonio Abate che ricorre il 17 gennaio, ogni anno si rievoca un rituale religioso cristiano che in realtà ha origini pagane. Secondo un’ancestrale tradizione, infatti, in antichità i contadini casertani, per scacciare via gli spiriti malvagi e auspicare un abbondante raccolto, percuotevano incessantemente i loro attrezzi (botti, falci, tini) seguendo ritmiche diverse. Ottenevano così vari tipi di andamenti: da quello trascinante della tarantella a quello invasato della pastellassa fino a quello austero della marcia dei morti. Avitabile, rimasto affascinato da questa forma di ritualità popolare, invitò il gruppo dei Bottari (l’ensemble di botti attualmente attivo a Portico) a collaborare al disco, ricamando intorno ai loro ritmi ossessivi una trama meticcia di armonie e melodie.
L’approfondimento delle tradizioni musicali mediterranee è diventato col tempo una vera priorità per il sassofonista napoletano tanto che dal 2009 ha istituito, presso il conservatorio S. Cecilia di Roma, la prima cattedra italiana di world music. Resta tuttavia inspiegabile la poca attenzione che la stampa musicale italiana ha dedicato a questo importante musicista, specialmente in considerazione del fatto che in Inghilterra il suo “Salvamm’O Munno” ricevette quattro nomination al Bbc Music Award mentre in America la sua musica può contare estimatori del calibro di Jonathan Demme – che recentemente ha realizzato un documentario sulla sua vita – e David Crosby, ospite nel suo ultimo lavoro “Black Tarantella”. Evidentemente Avitabile è un personaggio troppo poco indie: meglio osannare i riciclatori di stilemi anglo-americani che si atteggiano a salvatori dell’underground italico, anzi della musica italiana tutta. Forse però il grande insegnamento di Enzo Avitabile risiede proprio nell’aver capito che l’unica possibilità per l’Italia di sentirsi musicalmente parte del mondo è esibire la propria paradigmatica specificità, mostrando con fierezza fin dove affondano le sue radici.
4. Neapolisound: il suono di Napoli in cinque dischi
Roberto De Simone e NCCP – La gatta Cenerentola (1976, EMI).“La gatta Cenerentola” è il titolo di una fiaba napoletana di Giambattista Basile contenuta nella raccolta – pubblicata nel 1636 e tradotta in lingua italiana solo a fine Ottocento da Benedetto Croce - “Lo cunto de li cunti”, altrimenti nota anche come “Pentamerone” per la sua struttura narrativa che dipana il racconto di cinquanta fiabe in cinque giornate. Si tratta di un libro che ha esercitato un’influenza determinante sul lavoro di alcuni dei più grandi favolisti europei. È rielaborando alcuni racconti di Basile, infatti, che Charles Perroult e i fratelli Grimm hanno poi scritto le versioni definitive di fiabe universalmente conosciute, tra cui appunto Cenerentola. Quella di Basile è comunque una Cenerentola ben diversa da quella entrata nell’immaginario collettivo e resa celebre nel 1950 dall’omonimo film Disney. Si chiama Zezolla ed è la figlia di un principe che, abbindolata dalla sua fraudolenta maestra di cucito, uccide la rozza matrigna convincendo in seguito il padre a sposare proprio la venerata insegnante. Quest’ultima, però, una volta celebrate le nozze, trasferisce le sue sei figlie nel palazzo del principe, relegando Zezolla a vivere in un angolo della reggia, tra i gatti vicino al camino. Soltanto grazie ai sortilegi della colomba delle fate, Zezolla riuscirà a riscattare la propria posizione subalterna e a sposare addirittura il re.
Partendo da questo nucleo narrativo – e apportando ad esso alcune modifiche con l’inserimento di nuovi personaggi come il monacello e le lavandaie - nel 1976 Roberto De Simone, spalleggiato dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare, trasformò “La gatta Cenerentola” in un melodramma folk che col tempo è diventato un vero e proprio classico del teatro popolare italiano. Le musiche furono edite su un fortunato album omonimo che rappresenta il fiore all’occhiello della discografia del gruppo partenopeo. I diciotto brani sono saldati in una struttura che è quella classica dell’Opera: ci sono le arie (“Jesce sole”), i duetti (“Duetto”), i cori (quello dei soldati e delle lavandaie) e i recitativi (l’esilarante litania di “Rosario” e il turpiloquio per rime e assonanze della “Scena delle ingiurie”), ma sono interpretate in uno stile carnascialesco, vicino tanto al canto lirico quanto alle recite in maschera della Commedia dell’Arte. La dimensione “alta” è evocata dalla strumentazione classica (archi, ottoni, clavicembali); quella “bassa” è invece richiamata dal linguaggio dei testi: un linguaggio colloquiale – il napoletano parlato dal popolo - nobilitato dai complessi sistemi metrici in cui sono organizzati i versi.
Il legame con le forme musicali popolari è assicurato inoltre dalle canzoni (“Canzone delle sei sorelle”, “Canzone del monacello”), dalle villanelle (“Villanella di cenerentola”) e dalle danze di origine autoctona (“Tarantella”) o araba (“Moresca”). Insomma “La gatta Cenerentola”, unendo magnificamente le due tradizioni che hanno reso celebre la musica italiana nel mondo - quella operistica nazionale e quella della canzone napoletana, entrambe allo stesso tempo autenticamente colte e autenticamente popolari - ha restituito l’incanto, la magia e il sogno a un periodo musicale dominato in Italia dal neorealismo politico-sociale dei cantautori “impegnati”. In quattro parole: un disco storicamente necessario.
Musicanova – Brigante se more (1980; Philips). Nel 1976 Eugenio Bennato e Carlo d’Angiò uscirono dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare per fondare un nuovo gruppo, i Musicanova. Per il disco d’esordio, “Garofano d’ammore”, si unirono a loro musicisti del calibro di Toni Esposito alle percussioni, Robert Fix al flauto e Teresa De Sio al canto e alla chitarra. Aggiuntosi anche il bassista Gigi De Rienzo, nel 1978 i Musicanova approntarono il loro primo capolavoro, intitolato semplicemente “Musicanova”, che contiene, oltre alla già citata “A la muntagna” – senz’altro il loro pezzo più commovente -, anche l’irrefrenabile “Pizzica minore” e il sorprendente blues di “Siente mo’ che t’aggia dì”.
Tuttavia ad esso si lascia leggermente preferire “Brigante se more”, album dotato di maggiore coesione interna che sotto certi aspetti ha fatto scuola. È la colonna sonora de “L’eredità della priora”, uno sceneggiato prodotto dalla RAI nel 1980 che racconta la storia di tre soldati dell’esercito borbonico i quali, a seguito della conquista del Regno delle Due Sicilie da parte dell’esercito piemontese, si uniscono ai ribelli lucani capeggiati dal brigante Carmine Crocco. Proprio per assolvere alla sua funzione di commento cinematografico, il disco è in buona parte costituito da brani strumentali, talvolta fiabeschi (“Tema di Isabellina”, “Tema per flauto dolce”), dotati di un potere immaginifico in grado di ricreare l’atmosfera impervia e seducente dei paesaggi montuosi meridionali, come quando la fisarmonica de “Il cammino del brigante” o il flauto di “A la terra di Basilicata” sembrano farsi strada tra i sentieri e i dirupi dell’Appennino lucano.
Al regista Anton Giulio Majano occorrevano però anche sigle d’impatto che potessero essere collocate nei titoli di testa e di coda dello sceneggiato, canzoni che si immedesimassero nello spirito di chi aveva fatto la storia, seppur subendola, seppur da sconfitto. Nacquero così la galoppata per contrabbasso, violino e tammorra di “Vulesse addeventare nu brigante” e soprattutto il canto di battaglia “Brigante se more”: un semplice pezzo per chitarra che mette i brividi perché cantato con la fierezza di un inno nazionale. Un pezzo talmente sentito che sulle sue origini si diffusero presto leggende come quella che lo voleva un vero inno ottocentesco scritto dagli insorti borbonici. In realtà si trattava di una bufala messa in giro evidentemente da qualche nostalgico dei Borbone, dato che la presunta versione originale di “Brigante se more” si differenzia da quella dei Musicanova per due versi soltanto, tra cui quello che recita “nuje cumbattimmo p' 'o rre burbone” che ribalta completamente il senso dell’intera canzone: da inno di lotta per la libertà a inno in difesa del potere monarchico.
Peppe Barra – Guerra. (2001, Temposhare). 29 giugno 1978. Su Rai Due va in onda lo speciale “Serata d’onore”, dedicato a Eduardo De Filippo. Sullo schermo, accanto al grande commediografo napoletano ci sono, tra gli altri, Vittorio Gasmann - conduttore dello show -, Marcello Mastroianni, Carla Fracci e Nino Rota. Basta questo fermo immagine per comprendere la caratura artistica di Peppe Barra, anche lui quella sera chiamato a celebrare il venerato maestro.
C’è poco da fare: in mezzo a certi mostri sacri non ci si ritrova per caso. Non sorprende, quindi, che sul suo esordio solistico del 1993, “Mo vene”, Barra abbia poi ospitato un’istituzione del free jazz come l’Art Ensemble Of Chicago, né tantomeno che due anni più tardi Fabrizio De André gli richiedesse una versione napoletana di “Bocca di Rosa”, realizzata a quattro mani con Vincenzo Salemme. Era il 1995, sei anni prima che il cantante napoletano omaggiasse di nuovo il grande cantautore genovese con una versione grandguignolesca di “Don Raffaé” – con Barra tetro pulcinella a gigioneggiare su una fanfara paesana – contenuta nel suo secondo lavoro discografico, “Guerra”.
Si tratta di un disco punteggiato dall’indispensabile violino di Lino Cannavacciuolo e da una produzione di altissimo livello, che ricorre alle infinite possibilità dello studio di registrazione per ammantare suoni essenzialmente etnici di quella patina tecnologica che è il marchio di fabbrica della world music europea (Peter Gabriel docet). Così, nel battito tenebroso e chiaramente trip-hop della title-track, Napoli si riscopre una Bristol mediterranea che ricorda a Robert “3d” Del Naja le sue origini campane, mentre “Suonno” dispiega un inquietante concerto per archi e un recitativo espressionista degni dello Scott Walker di “Tilt”. L’apertura di “Oi mare ma” guarda al Messico delle orchestre mariachi così come il finale maestoso di “Escagliento” conduce dritto in Burkina Faso, dove la voce del cantante Gabin Dabiré si intreccia con quella del soprano francese Marie Stephane Bernard.
Nel mezzo c’è la Napoli battagliera di fine Settecento, quella del “Canto dei Sanfedisti” divisa tra la Repubblica Napoletana, fondata dalle truppe della Francia rivoluzionaria nel 1799, e il regno borbonico di Re Ferdinando IV. Sorprendentemente le classi popolari si schierarono a difesa della Corona e della religione cattolica (il termine “Sanfedismo” deriva dalla locuzione “Santa Fede”) a causa dell’insostenibile imposizione fiscale introdotta dai francesi. Per questo motivo il canto cita la Carmagnola (la canzone dei rivoluzionari) ma ne stravolge il significato inneggiando al re e alla morte dei giacobini. Dal punto di vista filologico si tratta di una riproposizione importantissima, che appare controversa se si adotta una prospettiva storica, poiché la repressione borbonica fu molto cruenta (la “onn’Eleonara” del testo è Eleonora Pimintel Fonseca, nobildonna di origini portoghesi mandata al patibolo per le sue idee repubblicane). Al di là di tali quisquilie, musicalmente resta il momento più vigoroso di un album pieno di meraviglie.
Massimo Ranieri – Oggi o dimane (2001; Sony). La lunga e fortunata carriera di Massimo Ranieri sarebbe da sbattere in faccia a quelli che sostengono che il nazional-popolare sia a priori sinonimo di cattivo gusto e di scarsa qualità artistica. Cantante, attore e showman televisivo, colui che per l’anagrafe di Napoli si chiama Giovanni Calone ha dimostrato nel corso degli anni la capacità - rara per certi versi - di modellare la sua arte e renderla accessibile a chiunque, dal bambino all’anziano, dal dotto professore all’umile contadino, senza cadere mai nella tentazione della faciloneria o, peggio, della volgarità. E poi – diciamoci la verità – è facile per chi ha avuto addirittura l’impertinenza di vincere Sanremo (per la cronaca era il 1988 e la canzone una delle più belle e famose di sempre: “Perdere l’amore”) diventare oggetto di snobismo da parte del borioso ma oggi inconsistente mondo della musica indipendente italiana, abituato ormai ad assegnare etichette di qualità a un artista in modo direttamente proporzionale al numero di vuote citazioni presenti nei suoi testi.
Dio della musica, perdona loro perché non sanno cosa si perdono! Si perdono innanzitutto questo splendido “Oggi o dimane”, capostipite di una trilogia di riletture di brani tradizionali napoletani riarrangiati in chiave etno-world dal maestro Mauro Pagani. Un nome che riporta subito alla mente il magnifico “Creuza De Ma” di De André e in effetti Napoli, come Genova, è una finestra che si affaccia sul Mediterraneo. Così le sedici canzoni di “Oggi o dimane” si vestono di nuove armonie (i poetici intrecci delle corde unificano idiomi diversi: il bouzuki dalla Grecia, il liuto di origine araba, la kora dal nord Africa) e nuovi ritmi (l’udu, uno strumento aerofono africano usato come percussione, e lo zarb, un tipo di tamburo iraniano).
Da parte sua Ranieri non va mai sopra le righe, interpretando con passione ed equilibrio brani strumentalmente rinnovati grazie alla sapienza di musicisti straordinari come Ellade Bandini (batteria), Ares Tavolazzi (Basso) e Paolo Jannacci (fisarmonica). E così “’E spingule francese” diventa un gaudioso canto tribale, “Caravan Petrol” e “O’ Guarracino” cavalcate di beduini per il deserto del Sahara, mentre “Scalinatella” rifulge nei melismi sirenici della cantante tunisina Mouni Amari. Non mancano infine soluzioni tipicamente occidentali, come l’arrangiamento per archi che trasforma “O’ surdato nnammurato” in un madrigale etereo. Sarà il mare, sarà il sole, ma soltanto chi ha camminato per le sue strade sa che nell’aria di Napoli aleggia un’essenza indescrivibile. La stessa che si respira tra le note di “Oggi o dimane”.
Enzo Avitabile & Bottari – Salvamm’o munno (2004, Musichemigranti). I musicisti che nel 1969 suonarono a Woodstock avevano un’utopia: cambiare il mondo attraverso la musica. Non ci riuscirono. Del resto, non avrebbero mai potuto perché è già un miracolo che la musica riesca a far cambiare umore, a toccare l’anima, a purificare lo spirito. Non si può caricare un’arte di una responsabilità così grande che dovrebbe piuttosto gravare sulle spalle della società civile e delle istituzioni politiche. È bello pensare che Enzo Avitabile abbia voluto intitolare il suo capolavoro “Salvamm’o munno”, e non un più banale “Cagnamm’o munno”, spinto proprio dalla consapevolezza che la musica non possa cambiare il mondo, ma possa paradossalmente fare di più: salvare la vita. A uno solo come a tutti perché, come ricordava l’indimenticabile locandina di “Schindler’s List”, “chi salva una vita salva il mondo”.
Si badi bene, però: non si tratta di una salvezza fisica, ma di una salvezza spirituale e morale, qualcosa di molto vicino al concetto cristiano di redenzione. La musica spesso mira all’anima e in questo senso “Salvammo’o munno” è un disco di musica soul. Il soul del sud del mondo. Dalle percussioni contadine dei Bottari di Portico di Caserta al sassofono del camerunense Manu Dibango, dal canto dell’algerino Kahled a quello a fronn' 'e limone (ossia un tipo di canto prolungato eseguito senza accompagnamento strumentale) di Zi Giannino del Sorbo, dai fiati sardi (le luneddas di Luigi Lai) a quelli balcanici (la zurla di Bachir Mizmar ), dalle corde africane (lo ngoni di Baba Sissoko) a quelle mediorientali (l’oud di Simon Shaheen). Un poliglottismo musicale a cui si unisce ovviamente il sassofono di Avitabile, col suo timbro caldo, passionale, come nella miglior tradizione black.
Il cammino verso la salvezza si dipana tramite la struggente preghiera per Scampia di “A' peste”, la poesia in difesa dell’infanzia di “Tutt’egual song ‘e creature”, il canto di speranza di “Canta Palestina”, ma soprattutto attraverso danze universali da ballare al fianco di fratelli lontani e diversi (“Abball’ cu me”), riconoscendo un po’ di sé nell’altro (“Paisà”). Un riconoscimento che porta a indignarsi per i soprusi (“Port allere”) e lo sfruttamento (“Chest’è l’Africa”) subiti da popolazioni che fanno parte di un’unica, sola razza: la nostra. Quella umana. “Simme tuttuno” canta Avitabile in coppia con Manu Dibango mentre le percussioni si accendono d’amore. Il brano è quello che dà il titolo al disco ed è una rivelazione: il ritmo salverà il mondo.
5. Neapolitan Power: blues metropolitano e fusion partenopea.
Giunti a metà del viaggio appare evidente che l’identità musicale partenopea debba essere primariamente rintracciata nel repertorio etno-folk, al quale si ascrivono sia le riletture dei brani classici e delle tammurriate popolari sia le commistioni mediterranee e world di Peppe Barra ed Enzo Avitabile. Si tratta di un’identità viscerale che, arricchendosi di elementi esterni alla tradizione indigena, ha saputo rinnovarsi rinunciando proprio a una parte della propria napoletanità per scoprirsi particella di una cultura più ampia, una cultura mediterranea. Ebbene, questa è solo una delle tante storie musicali che Napoli ha avuto il privilegio di raccontare. Una nuova ne cominciava negli anni Settanta, quando una leva di giovani musicisti iniettava sotto la pelle del sound locale una fiala esplosiva di suoni internazionali, principalmente americani (il blues, il jazz, il funk e la nascente fusion). Era la nascita di un vero e proprio movimento passato alla storia come Neapolitan Power. Un’etichetta che evidentemente parafrasava lo slogan afroamericano Black Power. Potere nero, potere napoletano. Dopotutto il guru di questo movimento musicale era James Senese: nero di pelle, americano di origine (il padre era un ufficiale dell’esercito statunitense), napoletano di nascita (il suo vero nome è Gaetano).
Chiusa l’intensa attività con gli Showmen, Senese era diventato il leader del più importante gruppo jazz-funk italiano: i Napoli Centrale. Sua era la voce, ma soprattutto suo era il sassofono che assimilava dall’ultimo John Coltrane le possibilità espressive dell’improvvisazione e dal Miles Davis elettrico le capacità di contaminazione stilistica tra generi. L’omonimo album d’esordio del 1975 - che proiettava i groove di Sly & The Family Stone, Funkadelic e Stevie Wonder nei vicoli di Napoli - rimane un caposaldo del rock tricolore. In questo primo album, la sezione ritmica era affidata a due mostri di tecnica come Franco del Prete (batteria) e Tony Walmsley (basso), mentre Mark Harris – singolare caso di americano emigrato a Napoli - curava le parti di tastiera. A cominciare dal piano, strumento che con le sue coloriture jazz puntella la fondamentale “Campagna”, brano simbolo della trasmigrazione dei temi della canzone popolare – in questo caso, il sentimento di frustrazione e rivalsa dei braccianti agricoli nei confronti dei proprietari terrieri – nelle dinamiche ritmiche della fusion. La libertà esecutiva era la stella polare del quartetto, che si avventurava così senza paura in vere e proprie jam stellari (“’A gente ‘e Bucciano”), alienanti deliqui progressive (“Viecchie, mugliere, muorte e criaturi”) e strumentali incalzanti (“Vico Primo Parise n.8”). Dal punto di vista lirico, l'affresco che ne consegue è spesso desolante: i testi, scritti da Franco Del Prete, raccontano dello spopolamento delle campagne e dell'abbandono della faticosa ma salubre vita da contadino in favore dello stile di vita alienante propinato dalla società industrializzata.
La stessa formula vincente fu ripetuta l’anno successivo in “Mattanza” con una formazione ampiamente rimaneggiata, che schierava Pippo Guarnera al posto di Mark Harris e Kevin Bullen quale nuovo bassista. Se proprio si deve trovare un elemento di discrimine rispetto all’esordio, lo si può individuare nella presenza di brani d’impatto più cerebrale (“Sotto a suttana”, “Sotto e n’coppa”), nonostante la spinta ritmica resti un marchio di fabbrica della band nell’epilettica “Simme iute e simme venute” e nella sbalorditiva “Sangue misto”. A spiazzare sono i nemmeno due minuti di “O nonno mio” - un accorato blues mutante in onore della saggezza popolare – e il lirico ondeggiare di “Forse sto capenno” tra i soavi afflati del piano e il gracidio del sax.
La fase storica dei Napoli Centrale si chiuse nel 1977 con “Qualcosa ca nu’mmore”, poi ci fu una lunga pausa (la band si riformerà solamente nel 1992) durante la quale Senese poté concentrarsi sulla sua attività solistica e cimentarsi in importanti partecipazioni a progetti di altri colleghi, a partire dal tris d’assi della discografia del giovane Pino Daniele: l’omonimo del 1977, “Nero a metà” del 1980 e il capolavoro dell’ormai consolidato sound napoletano “Vai mò” (1981). Dischi che precedevano lo spumeggiante colpo di coda dell’intero movimento musicale, quel “Bella’mbriana” che nel suo travolgente impeto funky (“Tutta ‘nata storia”, “Bella ‘mbriana”, “Mo’ basta”, “Ma che mania”) si fregiava della partecipazione di Wayne Shorter, storico sassofonista di Miles Davis e leader dei Weather Report, e del bassista Alphonso Johnson, anche lui passato per i Weather Report del celeberrimo “Black Market”.
Ma andiamo con ordine, perché se da un lato è innegabile che negli ultimi quattro lustri l’ispirazione di Pino Daniele sia andata gradualmente scemando fino a sciogliersi “come neve al sole” - tanto per citare una delle sue canzoni più vergognosamente sciatte -, dall’altro bisogna riconoscere che la sua prima fase di carriera giustifica pienamente tutta la popolarità che il bassista e chitarrista napoletano ha col tempo progressivamente acquistato. Il primo Pino Daniele, l’Italia probabilmente non lo meritava. Non lo meritava una scena musicale nazionale che, con poche eccezioni, si è rivelata spesso capace soltanto di scimmiottare la musica straniera (Vasco, ti fischiano le orecchie?) o di chiudersi nel conservatorismo di una musica leggera troppo autoreferenziale. Pino Daniele è stato invece l’uomo della dialettica tra due tradizioni, la sua musica una sintesi tra il folk napoletano (nelle armonie, nelle melodie, nell’amara ironia di molti testi) e il blues (nella struttura ritmica e nella tecnica strumentale). “Tarumbò” – sorta di crasi tra la parole “tarantella” e “blues” e titolo anche di una sua canzone del 1982 - fu la definizione che lo stesso Daniele diede della propria musica. Esempi mirabili di questa fusione musicale si trovano già nel notevole esordio “Terra mia” del 1977: l’ilare “Na tazzulella e’café”, la picaresca “Ce sta chi ce penza”, le scanzonate “Maronna mia” e “Che calore”. Quando però l’atmosfera si fa più soffusa e sofferta, i mandolini si alzano sugli scudi nell’incantevole sonetto di “Napul’è” e la tradizione melodica risorge nel lamento malinconico di “Terra mia”.
La ricetta stilistica di “Terra mia” era assolutamente originale, ma aveva bisogno ancora di ulteriori accorgimenti e rifiniture, di reagenti per così dire che completassero la nuova pozione. A questo servì il secondo disco omonimo, pubblicato nel 1979. Un brillante disco di passaggio che, attraverso l’idillio di “Chi tene o mare”, il blues da armata Brancaleone di “Je so pazzo”, l’allegra danza cubana di “Chillo è nu buono guaglione” e il funk progressivo di “Il mare”, preparava la strada all’album in cui si sarebbe cristallizzato il nuovo blues mediterraneo: “Nero a metà”. Il titolo è dedicato al cantante degli Showman Mario Musella - scomparso nell’ottobre del 1979 – che Daniele chiamava affettuosamente “Nero a metà” a causa del suo essere per metà napoletano e per metà afroamericano. Ascoltando i dodici brani dell’album però, si ha la sensazione che anche lo stesso Pino Daniele fosse all’epoca un nero a metà. La disinvoltura con cui, nelle dodici canzoni dell'album, la fonetica napoletana si inserisce dentro le strutture ritmico-armoniche del blues ha infatti del miracoloso. E non possono essere definiti altrimenti se non miracoli l’incrocio linguistico-musicale di “I say i’ sto’ccà”, il boogie sfavillante di “Musica Musica”, il graffiante hard-blues di “Puozze passà nu guaio” e il funk solare di “A me me paice 'o blues”. La menzione speciale spetta però a quel capolavoro d’infinita delicatezza che risponde al nome di “Quanno chiove”.
Se si ragiona in termini globali, “Nero a metà” è indiscutibilmente il miglior disco di Pino Daniele nonché uno dei più importanti nel panorama storico-musicale italiano. Tuttavia, se si restringe l’ambito d’indagine al solo fenomeno del Neapolitan Power, è il successivo “Vai mò” a detenere lo scettro di album fondamentale: trentatré minuti di dirompenti groove (“Che te ne fotte”, “Ma che ho”), di blues elegantemente percussivi (“Yes I Know My Way”), di atmosfere jazzy talvolta fumose (“Notte che se ne va”, “Un giorno che non va”) e talvolta rilassate ( “Viento ‘e terra”, “Puorteme a casa mia”). Dal punto di vista degli arrangiamenti, “Vai mò” è il disco più ricco e raffinato di Pino Daniele, che per l’occasione mise su un vero e proprio supergruppo napoletano di cui facevano parte Rino Zurzolo al basso, James Senese al sax, Joe Amoruso alle tastiere, Tullio De Piscopo alla batteria, Fabio Forte al trombone e Toni Esposito alle percussioni.
Quest’ultimo all’epoca aveva già pubblicato almeno due capolavori assoluti – i primi della sua discografia – che innestavano ritmi mediterranei in composizioni free form vicine alle coeve sperimentazioni jazz-prog dei musicisti della scuola di Canterbury. L’esordio “Rosso Napoletano” del 1974 è imperniato sui diciotto esoterici minuti della traccia omonima, vera e propria suite in due parti che si addentra in una foresta di percussioni esotiche popolata da suoni zoomorfi (il sax di Robert Fix e il piano elettrico del grande musicista e arrangiatore Paul Buckmaster). Per certi versi, il lavoro fatto dal percussionista napoletano sulla varietà timbrica dei tamburi (“Danza dei bottoni”) e sulla commistione tra jazz, minimalismo e suoni tribali (“Il venditore di elastici”) può essere considerato una forma embrionale della fourth world music di Jon Hassell. Comune alla musica quartomondista del grande sassofonista americano è anche la ricerca di effetti “descrittivi” ambientali, apprezzabili soprattutto nelle otto composizioni di “Processione sul mare” (1976). Nel caso di Toni Esposito però l’ambiente descritto non è quello di giungle immaginarie ma il paesaggio urbano napoletano, la sua vita tumultuosa e ammaliante. Sembra di camminare per le bancarelle di Resina o della Maddalena nel baccano stradaiolo di “Mercato di stracci”, di intrufolarsi in vicoli impenetrabili che rigurgitano voci di venditori ambulanti (“L’alba nei quartieri”), di contemplare il mare che ingoia gli scogli mentre la luna guarda la città dall’alto (“Processione sul mare”).
Percussionista straordinario che Franco Battiato ha definito semplicemente come “l’uomo del tamburo”, Toni Esposito, oltre a creare un nuovo suono per qualsiasi tipo di percussioni – dalle congas alla marimba - ha collaborato con musicisti del calibro di Brian Auger e Don Cherry, inventato strumenti transgenici come il tamborder e ottenuto persino il meritato successo con un brano irresistibilmente danzereccio quale “Kalimba de luna” del 1984, con cui vinse “Un disco per l’estate”. Certo, a quel punto la formula non era più quella intransigente dei primi album che flirtava con jazz e prog. Dunque, per trovare il vero trait d’union tra la miscela jazz-funk del Neapolitan Power e il progressive meno affascinato da suggestioni fantasy bisogna andare a parare da altre parti. Dalle parti della seconda incarnazione degli Osanna, anno domini 1978. In quell’anno la band si era riformata dopo essersi sciolta nel 1975. Del nucleo originario erano rimasti il cantante Lino Vairetti, il chitarrista Danilo Rustici e il batterista Massimo Guarino, a cui si erano aggiunti il tastierista Fabrizio d’Angelo e il bassista Enzo Petrone. Il frutto di questa nuova vita artistica fu il gioiellino “Suddance”, un disco che si discostava dalle derive epiche del prog tricolore – specialità in cui gli stessi Osanna si erano distinti nella prima parte di carriera – per accogliere le sonorità dilatate del jazz, il tiro ritmico del funk e un canto napoletano che si tingeva di sfumature soul e blues come nell’iniziale “Ce vulesse”. Non fu una rivoluzione radicale, però, perché gli Osanna restavano ancora un gruppo essenzialmente progressive, solo che adesso accoglievano i preziosi suggerimenti fusion di James Senese e Pino Daniele (“O napulitano”, “Suddance”) e si lasciavano più chiaramente influenzare dalle danze folcloristiche (i Jethro Tull trapiantati al Vomero di “A zingara”).
6. Palepoli vs Neapolis: la Napoli progressiva
Occorre adesso aprire una parentesi. Anche se forse non tutti ne sono consapevoli, l’Italia negli anni Settanta è stata una delle nazioni più prolifiche e ricettive nei confronti della musica progressive. Le principali band italiane del genere (PFM, Banco del mutuo Soccorso, Le Orme, Area) assursero alle attenzioni internazionali; altre raggiunsero uno status di culto non solo tra gli appassionati nostrani ma anche tra quelli stranieri tanto che non è raro oggi, navigando per blog e siti esteri, ritrovarsi a leggere dei Picchio dal Pozzo, degli Opus Avantra o dei Perigeo. Anche in questo caso la proverbiale creatività napoletana non stette a guardare – o meglio ad ascoltare - fornendo alla causa del prog tricolore un poker di titoli fondamentali.
Si può qui ripartire dagli Osanna e dalla loro prima formazione - quella che vedeva Elio D’Anna al flauto e al sax - che nel 1975 aveva partorito “Palepoli”, forse non un capolavoro ma di sicuro un grandissimo disco, composto da due brani torrenziali – “Oro caldo” e “Animale senza respiro” - che nei loro cambi di tempo e di registro finiscono per fagocitare di tutto: dalle tammurriate al folk anglosassone, da crepuscolari squarci hard stile High Tide a inserti ai confini del free-jazz. A dividerli c’è soltanto l’haiku musicale di “Stanza Città”. Il titolo “Palepoli” (dal greco “Palaios” e “Polis”, antica città) nasceva da una precisa volontà: rievocare atmosfere di un passato arcano, perso nella memoria, attraverso un linguaggio musicale moderno - quello del rock in senso ampio - in cui sono insiti il potere rituale, la carica istintuale e la spiritualità atavica di antiche civiltà. Simili presupposti concettuali erano alla base anche dell’omonimo spettacolo teatrale che coinvolse, oltre alla stessa band, attori e ballerini mascherati.
Tra le fila degli Osanna era passato per un breve periodo anche Gianni Leone, l’eclettico tastierista folgorato da Keith Emerson che, assoldato da Vito Manzari (basso), Gianchi Stringa (batteria) e Lino Ajello (chitarra), contribuì alla trasformazione del Balletto di Bronzo da velleitaria band hard-rock a una delle più affascinanti realtà dell’italian prog. Il gruppo, nato in piena esplosione beat col minaccioso moniker di Battitori Selvaggi, aveva tratto la nuova ragione sociale da un dipinto del pittore Edward Wadsworth, esponente del Vorticismo inglese, una corrente artistica che sulla falsariga del Futurismo italiano si era proposta di tradurre il dinamismo elettro-meccanico della vita moderna in spigolose forme pittoriche. Non a caso, il loro capolavoro “Ys” del 1972 è un concept album che rivolge in chiave modernista e fantascientifica il mito francese della città di Ys, sorta di Atlantide bretone che – narra la leggenda - venne ingoiata dal mare a seguito dell’amore sibillino tra la figlia del re Gradlon e un giovane straniero dall’identità demoniaca. In realtà, al di là delle suggestioni letterarie, la storia raccontata nelle cinque tracce del disco è incentrata su tematiche pienamente novecentesche come l’incomunicabilità e la solitudine umana. Protagonista della vicenda è l’ultimo uomo sulla terra, al quale una voce demiurgica ha rivelato la verità universale che tuttavia il superstite non può trasmettere a nessun altro suo simile a causa della pressoché completa estinzione della razza umana. È questa la sua condanna, ma anche la sua salvezza: alla fine di tanto errare per terre deserte non gli resta che riconoscersi in “un altro uomo con quelle braccia stese in croce”.
Dal punto di vista contenutistico “Ys” è un coacervo di mitologia, cristianesimo e modernismo; dal punto di vista formale offre invece un calibrato connubio tra il rock sinfonico dei Genesis e le progressioni apocalittiche dei Van Der Graaf Generator. Promana un’atmosfera sinistra dai frenetici fraseggi tra i ritmi cervellotici della coppia Stinga-Manzari, le chitarre urticanti di Ajello e le ineffabili tastiere di Leone. Quest’ultimo sciorina un campionario vastissimo di stili e tecniche: dai solenni requiem d’organo al raffinato pianismo jazz, dai nobili virtuosismi della spinetta alle raffiche magnetiche del moog.
Attraversato da tensioni filosofiche e ansie religiose, in bilico tra esistenzialismo e spiritualità, “Ys” è un disco che, da qualsiasi prospettiva lo si guardi, non sfigura al cospetto di molti classici internazionali del genere.
Quanto appena affermato vale ancor di più per uno dei dischi italiani stilisticamente più originali, tecnicamente più elaborati ed emotivamente più toccanti: “Aria” (1972) di Alan Sorrenti. Se al Balletto di Bronzo interessava la fantascienza, ad Alan Sorrenti interessava la magia; se il Balletto di Bronzo raccontava leggende, Alan Sorrenti raccontava fiabe; se il Balletto di Bronzo si ispirava al progressive intellettuale, Alan Sorrenti si ispirava al cantautorato più sublime, quello di Fred Neil e Tim Buckley. Nel 1977 diventerà per tutti il “Figlio delle stelle”, ma in realtà fino a poco prima Alan Sorrenti era stato uno starsailor, “un navigatore delle stelle” che parlava di amore carnale come fosse amore platonico ("Sono entrato nel tuo corpo. Sono io l'universo. Sono io il tuo corpo") e di incontri immaginari come di addii malinconici ("Vorrei conoscerti, ma non so come chiamarti. Vorrei seguirti, ma la gente ti sommerge. Io ti aspettavo quando di fuori pioveva e la mia stanza era piena di silenzio per te"). Sono parole tratte dai due diamanti del disco: “Aria” e “Vorrei Incontrarti”. I quasi venti minuti della title-track - poetico incontro tra cielo e inferno - si materializzano tra arpeggi fiabeschi di chitarra acustica, suoni ancestrali (il violino di Jean Luc Ponty) e clamorose mutazioni ritmiche. La vera epifania è la voce di Sorrenti che è un fluttuare etereo di fonemi, un prolungamento estatico di vocali e sillabe che sfocia, alla fine di ogni verso, in terrificanti spasmi declamatori. La malinconia trasognata della commovente "Vorrei incontrarti" segna l'altra vetta del disco: un folk errante per le valli dell'immaginazione e della memoria, descritto dai suggestivi intrecci armonici tra la chitarra acustica di Sorrenti e quella classica di Vittorio Nazzaro. Non sono da meno, comunque, i restanti due brani (“La mia mente” e “Un fiume tranquillo”), segnati - soprattutto la seconda - da rarefazioni jazz.
Il successivo “Come un vecchio incensiere all’alba di un villaggio deserto” ripete l’incanto dell’esordio soltanto parzialmente: nello scorrere delicato di “Serenesse” (che ospita il flauto di David Jackson), nel blues sussurrato di “A te che dormi” e nella criptica cantilena di “Angelo”.
Tra i collaboratori del primo Alan Sorrenti spicca il nome di Luciano Cilio, sensibile polistrumentista d’indole tragica che si tolse la vita nel 1983, a trentatré anni. Non si pensi però a una sorta di rockstar dell’underground napoletano. Cilio era infatti un rigoroso sperimentatore che tuttavia anteponeva l’espressione lirica alla ricerca sonora fine a se stessa, perché aveva capito che era giunta l’ora che l’avanguardia uscisse dalla sua autistica chiusura, superando la meta-musica di John Cage e tornando a parlare alla gente comune. Certo, le coordinate di partenza di Cilio vanno ricercate comunque nelle istanze colte del Novecento, in particolare nella musica atonale di Schönberg e nel minimalismo zen di Philip Glass, ma le sue composizioni somigliano molto di più a quelle di alcune band di confine degli anni Sessanta e Settanta: possiedono l’afflato spirituale dei Popol Vuh, quello esoterico di Sergius Golowin e quello filosofico della Third Ear Band. Del resto il mondo accademico guardava al lavoro dell’autodidatta Cilio pressappoco come all’opera di un freak. Alla luce di tutto ciò, l’unico album che il musicista napoletano riuscì a pubblicare, il bellissimo “Dialoghi del presente” del 1977, può essere associato al progressive soltanto in quanto frutto di quel determinato clima culturale, dato che a conti fatti si parla di un disco di pura musica d’avanguardia. Pura sia perché non scende a compromessi (nemmeno con la musica accademica, figurarsi col rock!) sia perché trascende la dimensione umana e dunque la sua corruttibilità, la sua empietà. E lo fa in appena mezz'ora.
Mezz’ora in cui il transitorio trasfigura nell’eterno, in cui, come ha scritto Jim O’Rourke, “è possibile cogliere quell’attimo sospeso nel tempo”. L’eterno è già lì, nell’adagio celestiale per chitarra, pianoforte, violoncello e coro femminile del “Primo quadro della conoscenza”, ma si dissipa nelle concrezioni sonore tutte terrene di flauto e archi (“Secondo quadro della conoscenza”) e nei riti sciamanici cha dalla realtà esortano l’invisibile a palesarsi (“Quarto quadro della conoscenza”). Ma non c’è verso: si resta intrappolati nel grigiore della materia. Il tempo scorre di nuovo. Inesorabile. Muto. A fermarlo, una volta e per sempre, sono l’estatico notturno per pianoforte del “Terzo quadro della conoscenza” e un “Interludio” in cui le armonie ultraterrene di mandolino e violoncello conducono un etereo fingerpicking à la John Fahey oltre le soglie dell’assoluto. È un crimine che musica così meravigliosa sia destinata a essere un tesoro per pochi; un tesoro peraltro restato a lungo sepolto, fin quando l’encomiabile etichetta Die Schachtel non ha ripubblicato queste cinque registrazioni insieme ad altre inedite nel box, curato da Girolamo De Simone, “Dell’universo assente”.
Con Luciano Cilio già si sono forzati i limiti di genere del progressive. Con l’inclusione in questa trattazione dei Contropotere - band anarco-punk solo per metà napoletana (l’altra metà era padovana) ma di stanza comunque nel capoluogo campano - i puristi inorridiranno definitivamente. Era la seconda metà degli anni Ottanta, la stagione prog era ormai alle spalle e nel frattempo erano comparse nuove musiche più violente e immediate: il punk, la new wave, l’hardcore, le mille propaggini dell’heavy metal. Tutti movimenti da cui i Contropotere avevano tratto insegnamenti proficui, facendo proprie la carica eversiva dei Discharge e l’estetica disumana dei Voivod, le esplosioni trash dei Metallica e le decelerazioni lugubri dei Melvins. Per questo, pur partendo dall’hardcore, la loro musica si inserisce a pieno titolo nella genealogia metal che dal trash arriva allo sludge e al doom e che negli ultimi due decenni ha generato band ibride come Neurosis, Today Is The Day e Sunn O))). Sebbene il loro linguaggio stilistico col prog-rock abbia più attriti che non contingenze, “progressivi” i Contropotere lo erano soprattutto nell’approccio: i loro brani sono spesso lunghi, divisi in più sezioni e avvezzi a cambi di ritmo e di registro. D’altronde “La chiave del tempo”, uno dei loro pezzi più feroci e metamorfici, cita addirittura l’attacco di “21st Century Schizoid Man” dei King Crimson!
I testi poi, oltre a ribadire prese di posizione anarco-insurrezionaliste, affrontano tematiche velate di esistenzialismo ed esoterismo. Così se “Urizen” è ispirata allo gnosticismo visionario di William Blake, la lunga e sanguinosa “Urragan” inneggia a sacrifici pagani. Ancora, “Demoni e dei” è una possibile colonna sonora delle apocalissi dipinte da Bosch, mentre “Clonazione” è un alienante collage post-nucleare. Tutti pezzi devastanti, questi, che possono essere rintracciati nei due straordinari album storici della band: “Nessuna speranza, nessuna paura” (1989) e “Il seme della devianza” (1991). L’unica differenza tra i due è che il primo è ammantato di un’aura oscura che non si manifesta solamente nella pesantezza e nell’efferatezza del sound, come sarà poi nel suo successore, ma anche nelle ritmiche tribali e nelle occulte trame psichedeliche per qualche aspetto affini a certa trance californiana. Entrambi i dischi, comunque, sono da maneggiare con cautela: noi italiani non siamo abituati a musica così estrema e abissale.
7. Le vie del pop sono infinite
Questo è un viaggio pieno di sorprese, partito da “O sole mio” e giunto – per ora – al metal più radicale. Un viaggio strano, destinato a non avere una meta univoca perché l’ultimo tratto è formato da un crocevia le cui diramazioni sono eterogenee e ogni direzione porta in un luogo diverso. È il grande crocevia del pop partenopeo, dove il termine “pop” è inteso più come un’attitudine che come un genere precisamente definito. Da sempre infatti quello “pop” è un grande contenitore nel quale ci si può infilare praticamente di tutto: canzoni rock leggere e orecchiabili, canzoni il cui punto forte è la melodia, canzoni scherzose o goliardiche, canzoni che incrociano generi e stili diversi senza rinunciare a una fruibilità immediata.
La prima via, allora, è quella del pop-rock e conduce dritto a Edoardo Bennato, il cui approccio al blues e al rock’n’roll è calato in una dimensione pascoliana, fatta cioè di stupore e meraviglia fanciulleschi. L’attitudine pop di Bennato non risiede solo nella capacità di trovare il ritornello che si ficca in testa e non ti lascia più, ma anche nell’affrontare con lo sguardo dell’adulto sognatore tematiche legate allo straordinario universo dell’infanzia. Non c’è niente di più pop(olare) delle favole, universi paralleli in cui le cose vanno come ci piacerebbe andassero nella realtà, in cui la malvagità non è assente - tutt’altro - ma è destinata sempre a soccombere. Le canzoni di Bennato con la loro semplicità strutturale e il loro potere immaginifico parlano lo stesso linguaggio delle favole, anzi si fanno esse stesse favola riallacciando i fili con il grande racconto orale e collettivo. Prima delle favole c’è la storia però; quella che nei libri ci ha abituato a formulare giudizi tagliati con l’accetta e a raggruppare gli uomini in buoni e cattivi. La triade che costituisce la spina dorsale della discografia di Bennato comincia proprio con un disco intitolato così: “I buoni e i cattivi” (1974). Si tratta del secondo lavoro discografico del rocker campano, una sorta di concept album incentrato sull’incapacità di distinguere nella realtà, come al contrario avviene nella fiabe, il bene dal male. Attraverso blues circensi puntellati da un frizzante kazoo (“Ma che bella città”, “Salviamo il salvabile”), disillusi racconti di formazione (“Un giorno credi”, “Tira a campare”) e una splendida ballata acustica di ispirazione stonesiana (“Facciamo un compromesso”), l’album denuncia le modalità capziose con cui sono precostruite dalla classe dominante le categorie di “buoni” e “cattivi”. Le radici dell’intera poetica di Edoardo Bennato sono qui piantate. Germoglieranno nel secondo caposaldo della sua produzione, quel “Burattino senza fili” (1977) che rilegge in chiave adulta “Le avventure di Pinocchio”.
Tra le tante interpretazioni alle quali la favola di Collodi si presta, Bennato sceglie quella più fosca portandosi al di fuori delle letture rassicuranti proposte da film e cartoni animati. Riecheggiano qui le parole che un napoletano d'adozione, Benedetto Croce, scrisse sul romanzo di Collodi: "Il legno, in cui è intagliato Pinocchio, è l'umanità". In “È stata tua la colpa” il personaggio di Pinocchio è descritto come una sorta di Adamo che, per propria volontà, abbandona il suo personale paradiso terrestre. Non abita più nel mondo degli oggetti onirici – i burattini liberi di essere se stessi nel contesto del teatro delle marionette – ma è diventato umano, vulnerabile alle lusinghe di arrivisti e truffatori (“Il gatto e la volpe”) e facile pedina nello scacchiere di chi dall’alto gli può imporre azioni e pensieri. A muovere i suoi fili è adesso “Mangiafuoco”, allegoria di un potere subdolo che si serve dell’intellighenzia – l’insieme dei detentori dei centri di sapere – per controllare e isolare chi non si conforma a precisi dettami sociali (“Tu grillo parlante”, “Dotti, medici e spaienti”). Vittime designate di questo sistema sono i soggetti più fragili, rappresentati dall’unico personaggio femminile della storia in “Fata” (“E forse è per vendetta e forse è per paura o solo per pazzia, ma da sempre tu sei quella che paga di più, se vuoi volare ti tirano giù e se comincia la caccia alle streghe, la strega sei tu”). Il disco risulta non meno riuscito sotto il profilo puramente musicale, con una grande varietà sia negli stili (honky-tonk irresistibili, rock’n’roll dall’appeal radiofonico, valzer ironici, blues polverosi, echi del Neil Young più malinconico) sia nelle soluzioni strumentali (vibrafoni, chitarre slide, archi, trombe e sassofoni). Insomma, “Burattino senza fili” è quel che si definisce un capolavoro indiscusso.
“Sono solo canzonette” (1980), terzo numero della sacra triade bennatiana, si muove sulla stessa falsariga di “Burattino senza fili”. La favola di partenza stavolta è quella di Peter Pan. A differenza di quella di Pinocchio nel capolavoro di tre anni prima, essa però non viene sviluppata nella tracklist in modo narrativamente organico. L’universo fantastico creato da James Matthew Berrie nel 1902 è per Bennato soltanto un pretesto per realizzare un arabesco musicale sull’indispensabilità del sognare. Così nel rock’n’roll da far west di “Sono solo canzonette” la chitarra diventa una spada, chi l’ascolta un pirata impavido che si avventura per isole inospitali (la ninna nanna per ciaramella e archi di “ Nel covo dei pirati”) dove, al passo di fanfare dixieland e ruvidi glam, si possono incontrare vecchi ubriaconi (“Dopo il liceo che potevo far”) e sedicenti rivoluzionari (“Il rock di Capitan Unicno”). Diventare adulti non implica una rinuncia alla fantasia, ammonisce il funk tribale di “Ma che sarà”. L’incantevole “L’isola che non c’è”, coi suoi trasognati arpeggi di acustica su cui si adagiano fatate note di armonica, ne è l’avvertimento definitivo: se smetteremo di cercare l’isola che non c’è, se sopprimeremo il bambino che c’è in noi, allora avremo già smesso di vivere. E le chiamano canzonette!
La seconda via del pop partenopeo è quella della canzone melodica. A pensarci bene, nella musica napoletana degli ultimi due/tre decenni a scarseggiare sono state nuove canzoni degne di finire tra i classici della tradizione melodica partenopea. Certo, a Roberto Murolo e Fausto Cigliano dovrebbero erigere dei monumenti per la caparbietà con cui hanno protetto la canzone classica napoletana dalla peste neomelodica, tuttavia il contributo pur inestimabile dei due chitarristi alla canzone classica rimane confinato nell’ambito delle reinterpretazioni. Pertanto le uniche due canzoni di nuova generazione che sono state capaci di colpire dritto al cuore, inchiodandosi nella memoria collettiva come avevano fatto “O sole mio” o “Era de Maggio”, sono “Caruso” - scritta nel 1986 dal compianto Lucio Dalla - e “Cu’mme”, brano reso celebre nel 1991 dal duetto tra Mia Martini e lo stesso Murolo ma scritto da Enzo Gragnaniello. È con questo pezzo che il cantautore napoletano si è guadagnato un posto nella storia. Sarebbe ingiusto però associarne il nome a una sola canzone, per quanto magnifica. Nel corso della sua carriera Gragnaniello ha saputo scrivere altri pezzi capaci ora di rianimare la tradizione classica (il delicato sussurro di “Senza voce”), ora di aggiornarne la forma senza snaturarne la natura (la poetica “Senza tiempo”), tentando anche la strada sanremese insieme a Ornella Vanoni con la suadente “Alberi”. Era il 1999, l’anno dopo quello stesso palco avrebbe visto trionfare i casertani Avion Travel con l’appassionata dissertazione amorosa di “Sentimento”, pezzo straordinariamente forbito - sia nelle aperture melodiche che nell’arrangiamento orchestrale – per gli standard della kermesse. Quella meritata vittoria chiudeva tre lustri di intensa attività artistica in cui la band di Peppe Servillo aveva affascinato Micheal Nyman con un altro brano sanremese, “Dormi e sogna”, e collaborato con Arto Lindsay. L’infaticabile sperimentatore americano aveva prodotto nel 1999 “Cirano”, il disco più ambizioso del gruppo, avvolgendo brani armonicamente delicati quali “La chiave inglese” e “L’astronauta” di una patina sintetica e distorta, ottenuta tramite una trattazione “in vitro” di suoni e ritmi.
Una delle qualità indiscutibili del napoletano medio è la sua bonaria ironia, l'inventiva con la quale è capace di prendere e prendersi in giro. Una terza via al pop partenopeo, allora, la si potrebbe individuare in quel crescendo di stramberie che da formule stravaganti sale – o scende, dipende dai punti di vista - fino alla pura goliardia. Andiamo per gradi, allora. Stravagante, lo è sicuramente il pop operistico di Gennaro Cosmo Parlato.
Sorta di Charlot effeminato, Parlato ha mosso i suoi primi passi lungo la sica dello sfortunato quanto talentuoso musicista tedesco Klaus Nomi, mescolando melodia italiana, teatralità camp e canto lirico. Molti lo conosceranno per le comparsate in tv da Chiambretti, ma sarebbe un errore grossolano silurarlo come fenomeno da baraccone. Il suo repertorio è formato soprattutto da rifacimenti chic di brani altrui, spesso gustosissimi. Ascoltare per credere le briose versioni di classici italiani come “Maledetta primavera”, che si tinge di coloriture doo-wop, o “Non voglio mica la luna”, che diventa invece uno sgargiante tango. Si trovano, insieme ad altre originali cover di vecchie hit italiane, nell’album “Che cosa c’è di strano?” (2005), doppiato l’anno seguente da “Remainders”, disco in cui Parlato sposta l’obiettivo su evergreen degli anni Ottanta come “Material Girl”, “Call Me” e “Billie Jean”.
Un passo più in là della semplice stravaganza lo avevano fatto nel 1980 i mitici Shampoo, l’unica cover band al mondo ad avere avuto una ragione d’esistenza. Anzi due, perché la prima era dare un seguito alla burla architettata nel 1976 da una radio napoletana che, in occasione dell’amichevole di calcio Napoli-Liverpool, aveva millantato un’ospitata dei riuniti Beatles. La seconda era dimostrare come le canzoni dei quattro scarafaggi fossero davvero universali, tanto che se ne sarebbero potute cambiare le parole – sostituendole per esempio con altre in dialetto napoletano – senza inficiarne la riconoscibilità sonora. Nacque così “In Naples 1980-1981”, uno dei maggiori dischi di culto realizzati in Italia, che fin dalla copertina parodiava le due famose raccolte dei fab four, quella rossa e quella azzurra. Quello degli Shampoo era una specie di universo parallelo in cui i Beatles - con il loro leggendario look, le inconfondibili inflessioni vocali e le immortali melodie – rinascevano all’ombra del Vesuvio. In alcuni casi si fa davvero fatica a smascherare l’inganno perché la fonetica napoletana si mimetizza nella metrica originale dei brani fino a confondersi, come un bizzarro grammelot , con la lingua d’oltremanica. Così diventa arduo a un primo ascolto percepire “Tengo e guai” in “Tell Me Why”, “Chist è o scià” in “Twist And Shout”, “Peppe” in “Help”. Il punto è che l’imitazione è talmente precisa e le canzoni dei Beatles talmente radicate nella memoria che il cervello prosegue in automatico fin quando non si coglie qualche parola chiarificatrice.
Quando dallo sberleffo in stile Shampoo si passa infine agli insulti volgari, alle amenità triviali e alle esplosioni goliardiche, allora vuol dire che è arrivato il momento degli Squallor. A dire il vero, solo due dei quattro membri della band - Alfredo Cerruti e Totò Savio – erano napoletani; gli altri due erano un milanese (Daniele Pace) e un fiorentino (Giancarlo Bigazzi). Tutti autori di spicco della musica leggera italiana che, come dottor Jekyll, sfogavano i loro più bassi istinti trasformandosi negli Squallor, il Mr. Hide della canzone tricolore. La loro inclusione in questa carrellata è giustifica dal fatto che proprio in napoletano gli Squallor hanno cantato le loro canzoni più scurrili e divertenti. Ma attenzione, anche se a colpire è lo spirito dissacratorio e dadaista, gli Squallor rimanevano autori musicalmente raffinatissimi (“Cornutone”, “O’ ricuttaro nnamurato” e “O tiempo se ne va” , per esempio, sono canzoni che – non fossero state sacrificate al provvidenziale altare della demenzialità – sarebbero potute finire nel repertorio di molti cantanti di vaglia) e stilisticamente eclettici (il loro repertorio va dalla musica da camera di “Veramon” al rock’n’roll politicamente scorretto di “Radio Cappelle” passando per l’irresistibile flamenco di “Unisex”).
Resta la quarta via, a questo punto. La via delle contaminazioni culturali e degli ibridi musicali. La via degli apolidi che non sanno dove vanno ma sanno da dove vengono. Dall’Africa. Da dove il generale cartaginese Annibale partì per sbaragliare l’esercito romano e conquistare i territori dell’Italia meridionale. “Figli di Annibale” è il titolo del brano che nel 1992 rivelò l’enorme talento degli Almamegretta. Il pezzo venne incluso poi nel loro esordio ufficiale “Animamigrante”, un disco che importava in tempo reale il trip-hop dei Massive Attack – i quali rimasero talmente affascinati dagli Almamegretta da invitarli a incidere un remix della loro “Karmacoma” - ma lo declinava in versione afro-mediterranea. Il battito cardiaco black del rivoluzionario “Blue Lines” gettava nella centrifuga postmoderna l’hip-hop, il reggae, il dub, il soul e la new wave a tinte fosche del Pop Group e del loro produttore Dennis Bovell. A questi elementi il combo napoletano aggiunse un ingrediente che rendeva la ricetta di “Animamigrante” assolutamente peculiare: linee melodiche tipicamente napoletane cantate con una voce – quella di Raiz – avvezza alle modulazioni mediorientali. “Se conosci la storia sai da dove viene il colore del sangue che ti scorre nelle vene”; quindi è perfettamente naturale che “’O bbuono e ‘o malamente” rivisiti l’etno-lounge di Bill Laswell, “Fattallà” faccia la spola tra Kingston e Piazza del Gesù, “Sudd” confonda i quartieri spagnoli con le casbah marocchine e “O’ cielo pe’ cuscino” coni una nuova forma di tammurriata-dub. Un esperimento, quest’ultimo, proseguito poi con un paio di brani (“Sanacore”, “Ammore nemico”) della la loro seconda prova discografica: “Sanacore” del 1995, prodotto da un mago del suono come Adrian Sherwood. Rispetto al predecessore, “Sanacore” è stilisticamente meno dinamico ma liricamente più intenso in virtù delle melodie muliebri ed errabonde di “O sciore cchiù felice”, “Pe’ dint’ ‘e viche addò nun trase ‘o mare”, “Nun te scurdà” e “Se stuta ‘o fuoco”. Arduo dunque tra i primi due sensazionali titoli della loro discografia stabilire quale sia il migliore. Si potrebbe forse preferire il primo per lo spirito belligerante e per l’effetto sorpresa.
Tra tutti coloro che a Napoli hanno tratto insegnamento dalla lezione degli Almamegretta i più talentuosi sono decisamente i 24 Grana, che sul finire degli anni Novanta hanno esordito con due album – “Loop” e “Metaversus” – al tempo stesso profondamente radicati nella tradizione musicale campana e contaminati da elementi reggae e dub. Sul volgere del millennio però il gruppo capitanato da Francesco di Bella ha sterzato prepotentemente verso sonorità più aspre, mutuate dall’indie-rock angloamericano. Un percorso che recentemente li ha condotti negli studi di registrazione del mitico Steve Albini, dieci anni dopo “K album”, il disco che nel 2001 aveva segnato la loro svolta guitar-oriented. I titoli delle nove canzoni sono nel segno della lettera “K”, a cui evidentemente si deve il nome dell’album, il quale, a posteriori, potrebbe essere interpretato pure come un key-album, ossia l’album chiave della loro discografia. Il rassegnato salmo di “Kevlar” è lo zaffiro che brilla di luce propria laddove le altre gemme si specchiano nel luccichio di un eclettismo à la Yo La Tengo (la meravigliosamente urticante “Pikkola kanzone per K”, la jam impensabile di “Kanzone del fumo”, il rigurgito post-punk di “Kanzone anarkika”) e di una vena psichedelica che guarda a Pixies e Flaming Lips (la ballata distorta di “E kose ka spakkano”, quella acido-onirica di “Kanzone del pisello”). Successore di “K album” è “Underpop”, pubblicato nel 2003. Come il titolo lascia presagire, si tratta di un lavoro di pop sotterraneo in cui l’italiano si ritaglia maggiore spazio nei testi, le canzoni sono più orecchiabili e il sound acquista in generale una freschezza senza eguali nella discografia dei 24 Grana. “Underpop” non ha la statura del suo predecessore, ma è un lavoro assolutamente delizioso. La stella polare adesso sembrano essere i Radiohead, sia quelli delle esplosioni elettrificate di “The Bends“ (“Vivo in un furgone”, “Giornata psicologica mente impossibile”) sia quelli dell’electro-pop plumbeo di “Amnesiac” (“Psiconauta”). Qualche passaggio ingenuo c’è, ma viene redento dalle quattro vertigini che corrispondono, in ordine di scaletta, al manifesto contro il dolore di “Canto pe’nun suffrì”, all’ermetismo elettroacustico di “La neve”, al reggae arreso di “Napule tana” e soprattutto al disperato, commovente appello di “L’attenzione”, che nell’incipit materializza il Battiato di “E ti vengo a cercare” distorto dai CSI.
La via delle contaminazioni sarebbe anche quella percorsa dai 99 Posse, ma quest’approfondimento intende celebrare i musicisti di Napoli, i suoi artisti, non degli ipocriti urlatori che vomitano beceri slogan pseudo-ribelli con lo scopo di aizzare i figli di papà che giocano a fare i rivoluzionari nei centri sociali. Il loro fastidioso incrocio tra rap, reggae e ska è solo uno specchietto per le allodole atto a fomentare odio politico-sociale e promuovere una cultura dell’illegalità e dello sprezzo per le autorità in territori che lo Stato fa già di per sé fatica a presenziare. È uno sport facile insultare l’indulgente poliziotto partenopeo, il cui massimo sopruso è quello di aver sgomberato, magari pure controvoglia, l’Officina 99. Napoli, per quanto possa essere una città difficile, non è certo il ghetto afroamericano dei Public Enemy, loro sì capaci di coagulare la rabbia dei neri per le angherie subite dalla polizia in un liberatorio “Fuck Police”. E non si tratta del medesimo “vaffanculo”: ci passa la stessa differenza che c’è tra l’autenticità di Basquiat – che usava l’arte di strada per esprimere la propria condizione umana ancor prima che sociale – e le provocazioni radical-chic di Banksy.
8. Cosa resta alla fine del viaggio (conclusione in forma di dedica)
Alla fine di questo lungo viaggio tra le molteplici forme della canzone partenopea resta la consapevolezza che lo straordinario patrimonio culturale – e non solo musicale - di Napoli non possa diventare un pretesto per nascondere le negligenze, i problemi colpevolmente trascurati e il vittimismo inerte di un popolo che non ha saputo ancora valorizzare appieno l’enorme potenziale a sua disposizione. Oltre duecento anni dopo Goethe, Napoli resta ancora un paradiso abitato da troppi diavoli, che ne deturpano l’immagine, ma anche da qualche povero Cristo e molta, moltissima gente per bene che cerca di ricostruire una speranza concreta sulle macerie lasciate dalla criminalità, dall’incuria, dalla mala gestione ma anche dall’isolamento economico-politico a cui questa capitale del Sud è stata relegata da un secolo e mezzo circa. E allora viene in mente l’Orson Wells de “Il terzo uomo”: “In Italia, sotto i Borgia, per trent'anni hanno avuto guerre, terrore, assassinii, massacri: e hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera, hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia, e cos'hanno prodotto? Gli orologi a cucù”. Forse i drammi e i fallimenti con cui Napoli si deve quotidianamente misurare sono la contropartita pretesa da un destino cinico per la gloriosa storia artistica, la prestigiosa tradizione teatrale e la sterminata produzione musicale. Come una condanna, un perpetuo gioco a perdere. In effetti, Napoli è una continua scommessa persa, un magnifico sogno che muore lentamente nell’eterna attesa che passi “a’ nuttata”. E ogni volta, per un istante, sembra che l'alba per Napoli stia finalmente arrivando, che le speranze abortite stiano per rinascere dalle proprie ceneri. Basta uno squarcio di veduta da Posillipo, un'antica melodia, uno sketch teatrale o un giro per le stazioni "artistiche" della metropolitana. Bastano il Caravaggio delle Opere di Misericordia, il Guido Reni di San Martino e il Tiziano di Capodimonte. A questo paradiso perduto e talvolta sperduto, per riscattare la propria disperata condizione, non occorrerebbe altro che la bellezza di cui già è circondato. Tanti napoletani non l'hanno capito o non l'hanno voluto capire. A tutti gli altri, ai napoletani che nonostante tutto continuano a credere nel potere salvifico della bellezza, è dedicato quest’articolo.
Dipinti:
Andy Warhol - 8 Vesuvius, 1985
Henrique Bernardelli - Tarantella (particolare), 1886
Anton Sminck van Pitloo - Castel dell'Ovo visto dalla spiaggia (particolare), 1824
(29/04/2013)
Discografia essenziale
Roberto De Simone e NCCP - La gatta Cenerentola (1976, EMI)
estratto: Canzone del Monacello
Musicanova - Brigante se more (1980, Philips)
estratto: A la terra di Basilicata
Peppe Barra - Guerra (2001, Temposhare)
estratto: Don Raffaè
Massimo Ranieri - Oggi o dimane (2001, Sony)
estratto: Rundinella
Enzo Avitabile & Bottari - Salvamm 'o munno (2004, musichemigranti)
estratto: Abball' cu me
Napoli Centrale - Napoli Centrale (1975, Ricordi)
estratto: Viecchie, mugliere, muorte e criaturi
Pino Daniele - Vai mò (1981, EMI)
estratto: Yes I Know My Way
Toni Esposito - Rosso napoletano (1975, Numero Uno)
estratto: Danza dei bottoni
Osanna - Palepoli (1973, Fonit Cetra)
estratto: Oro caldo
Balletto di Bronzo - Ys (1972, Polydor)
estratto: Introduzione
Alan Sorrenti - Aria (1972, EMI)
estratto: Aria
Luciano Cilio - Dialoghi del presente (1977, EMI)
estratto: Interludio
Contropotere - Nessuna speranza, nessuna paura (1988, Attack Punk)
estratto: Demoni e dei
Edoardo Bennato - Burattino senza fili (1977, Ricordi)
estratto: Mangiafuoco
Shampoo - In Naples 1980/81 (1980, EMI)
estratto: Chist'è o' scià
Almamegretta - Animamigrante (1993, CNI)
estratto: Figli di Annibale
24 Grana - K Album (2001, La canzonetta)
estratto: Kevlar