Ho conosciuto Ypsigrock nel 2014, dopo aver scoperto che tra gli
headliner figuravano i
Moderat, tra i miei gruppi preferiti di sempre. Ma il mio primo anno di Ypsi è stato il 2017: inutile dire che ascoltare i
Ride e i
Beach House (questi ultimi peraltro conosciuti di persona in quell’occasione) ai piedi del Castello Normanno è stata un’esperienza totalizzante, che ricordo tuttora con incredibile vividezza e felicità.
Ci sono pertanto tornata l’anno successivo, per gustarmi gli
Horrors, che ci hanno fatto cantare, pogare, immergere in
moshpit e, ovviamente, sognare. Cosa chiedere di più?
Quest’anno a capitanare la ventitreesima edizione di Ypsigrock sono stati
National e
Spiritualized. Nel reportage di seguito racconterò nel dettaglio com’è andata, scegliendo di volta in volta qualche canzone che abbia caratterizzato la giornata, con l’intento di provare a raccontarvi cosa rende così magico il primo
boutique festival d’Italia.
Giovedì 8 agostoI’m Not A Blonde “Happy Face”Mentre eravamo in fila per il tradizionale arancino sul traghetto, sentiamo una voce familiare alle nostre spalle. È
Fabio Nirta, dj ufficiale del Festival, anche lui in viaggio per Castelbuono con un paio di amici e anche lui visibilmente trepidante, nonostante i tanti Ypsi alle spalle. Fabio è stato la colonna sonora di innumerevoli venerdì ai tempi dell’università e ora che quel periodo è terminato, è un piacere incontrarlo una volta all’anno e condividere quest’esperienza a Castelbuono.
Una volta provato il camping, non si torna indietro. Motivo per cui anche quest’anno abbiamo optato per l’Ypsicamping e convinto gli amici ad armarsi di tende, tarp e materassini. La fase di sistemazione è meno problematica di quanto si possa pensare, l’area ben attrezzata e l’atmosfera estremamente piacevole e comunitaria.
La sera di giovedì è per ovvi motivi sempre quella meno affollata, ma per me il Welcome Party al camping è uno dei momenti irrinunciabili dell’Ypsi. Quest’anno le prime a esibirsi al Cuzzocrea Stage sono le
I’m Not a Blonde, un duo femminile formato da Chiara Castello e Camilla Matley, che mi conquista al primo ascolto. Il loro è un elettropop dalla duplice matrice britannica e americana, - come mi spiega la stessa Chiara a fine concerto - con sporadici sprazzi punk e synth-pop anni 80.
A seguire un altro duo,
Canarie. Ne ho sentito parlare in lungo e in largo, perciò mi ci approccio con estrema curiosità. La voce di Andrea Pulcini mi riporta alla mente quella di
Alan Sorrenti, ma questa è per me forse l’unica nota positiva da segnalare, non me ne voglia nessuno. La voce femminile, Paola Mirabella, mi sembra perennemente troppo alta e acuta, la stravaganza dei due, con tanto di siparietti su mare e meduse, mi pare decisamente forzata e la somiglianza con altri artisti particolarmente in voga in questo periodo (siamo in zona
Mac DeMarco) un po’ troppo forte. Avevo letto che qualcuno li aveva addirittura paragonati ai
Baustelle, ma posso assicurare che, almeno in questo live, di Bianconi & C. nessuna traccia...
Venerdì 9 agostoLet’s Eat Grandma “It’s Not Just Me”La giornata di venerdì costituisce il momento ideale per gustarsi una passeggiata per le vie di Castelbuono, per chiacchierare ai piedi del Castello e per l’immancabile capatina da Fiasconaro. Alle 17, al Chiostro di San Francesco, si esibiscono gli
Huntly. I tre australiani conquistano il pubblico grazie a una presenza scenica molto
queer e a un
sound elettronico ben congegnato che, dietro l’apparente minimalismo, cela innumerevoli influenze: R&B, drum&bass, techno e elettrosoul. Non è un caso, infatti, che il simpatico e capelluto batterista mi abbia citato
James Blake come una delle loro maggiori influenze. La cantante, incontrata diverse volte nei giorni a venire, ci ha confidato di aver chiesto ai suoi amici e conterranei
Confidence Man, che si esibirono a Castelbuono lo scorso anno, se valesse la pena prendere parte a questo Festival e loro le hanno risposto con entusiasmo di sì. A giudicare dal fatto che i tre australiani non si sono persi un concerto e sono stati avvistati spesso per le vie del paesello e in modo particolare da Fiasconaro, pare proprio che non se ne siano pentiti!
Poco dopo, i gallesi
Boy Azooga, grazie alla loro attitudine garage sposata a lunghe sezioni strumentali e citazionismo musicale estremamente raffinato, conquistano il pubblico e se ne vanno tra gli applausi scroscianti. Avevo già avuto modo di ascoltare su internet un loro live al KEXP e mi aveva colpito in modo particolare l’irresistibile “Face Behind Her Cigarette”. Da tenere d’occhio.
Alle 19 ci si sposta verso la Chiesa sconsacrata, forse la
location più suggestiva dell’Ypsi, ma anche la più impegnativa, in quanto il caldo al suo interno è soffocante. Ci gustiamo l’esibizione di Emanuela Drei, in arte
Giungla, per lo più al di fuori dai teloni della chiesetta, seduti sui gradini in strada, lontani dalla folla e dall’afa. La giovane cantautrice, già voce degli
Heike Has The Giggles e basso degli
His Clancyness, sembra sapere il fatto suo: si muove con leggerezza tra languori pop e nichilismo rock; le influenze sono presumibilmente da ricercarsi nelle varie
Grimes,
St Vincent,
Ibeyi,
Zola Jesus. Tanto di cappello all’Ypsi, ogni anno in grado di intercettare artiste femminili di gran valore.
Ormai è sera e ci si dirige verso il Castello, prima che si riempia. Venerdì è infatti la serata dei
National e il pienone è assicurato.
Ad aprire le danze
Dope Saint Jude, artista rap/r&b sudafricana, in grado di fomentare persino una come me, da sempre estranea al mondo hip-hop. “When I say fuck, you say yeah” è diventata una delle frasi ricorrenti di questo Ypsi 2019.
A seguire le
Let’s Eat Grandma, che attendevo con interesse. Nevrosi femminili, coadiuvate da refusi elettropop e da una voce spezzata e
naïf à-la Melanie Martinez, danno vita a un connubio davvero interessante: “Hot Pink”, prodotta da
SOPHIE e da Faris Badwan degli
Horrors, è un pezzo orecchiabile e
weird al contempo, per cui
Lorde si starà mangiando le mani, “Falling Into Me” rappresenta il miglior brano dark-pop che abbia ascoltato negli ultimi tempi e “It’s Not Just Me” è diventato il mio personale tormentone di questo Ypsigrock 2019.
Le Let’s Eat Grandma si candidano, insomma, a diventare il mio
guilty pleasure musicale dell’anno.
Peccato non poter esprimere altrettanto entusiasmo per il concerto dei
National. Preciso che il problema probabilmente è tutto mio, che con il gruppo di Matt Berninger non sono mai riuscita a instaurare un vero e proprio rapporto. I National sembrano avere tanto di quello che generalmente mi piace in una band: un
songwriting sofferto e sofisticato, una voce baritonale e un
mood depresso a cavallo tra indie e post punk, eppure - eccezion fatta per qualche canzone - non mi riescono a prendere. Speravo di cambiare idea ascoltandoli dal vivo, ma così non è stato. La scelta di inserire in scaletta ben dieci brani dal loro ultimo lavoro, “
I Am Easy To Find”, concentrati soprattutto a inizio concerto, non ha aiutato, tant’è che persino alcuni fan hanno trovato questa scelta pesante. La situazione si sblocca un po’ con “Day I Die”, durante la quale il
frontman, col solito fare sussiegoso che lo contraddistingue, scende tra il pubblico, percorrendo da angolo ad angolo Piazza Castello.
Tra i pezzi più conosciuti, oltre la già citata “Day I Die”, troviamo in scaletta “The System Only Dreams in Total Darkness”, “Fake Empire” e “Vanderlyle Crybaby Geeks”, a cui è affidata la conclusione.
Mi sarei aspettata di sentire “I Need My Girl” e soprattutto “Mistaken For Strangers” che, vuoi per il piglio fortemente
nu new wave, vuoi per il testo disincantato, è il loro brano che preferisco. Ero convinta fosse una delle loro canzoni più popolari, ma a quanto pare mi sbagliavo.
Per chi volesse vedere (o rivedere) l’esibizione dei The National, è stata trasmessa in streaming dal quotidiano britannico The Independent.
We said we’d never let anyone in
We said we’d only die of lonely secrets
The system only dreams in total darkness
Why are you hiding from me?
Il bello dei concerti al camping è che puoi goderteli sia dalla tenda, sia passeggiando tra gli alberi, sia ovviamente sotto al palco. La sera di venerdì decidiamo di andare a ballare al palco, ma rimaniamo un po’ straniti da quello strano personaggio che è
Lafawndah, artista di origini iraniane: da sotto una larga veste bianca, si muove sul palco come se stesse cercando un contatto con la terra sotto i suoi piedi. La voce da contralto, spesso modulata in maniera lamentosa, unita ai ritmi quasi tribali della sua musica, fanno pensare più a un rito apotropaico che a un concerto. Alcuni pezzi riescono però a prendere una strada artistica più lineare e meno caotica e a risultare quasi piacevoli (ma solo dopo qualche Bjørne).
Sabato 10Giant Rooks “Wild Stare” Mentre ci dirigiamo verso il solito tavolo per pranzare, mi accorgo della presenza di
Roberto Angelini, chitarrista e cantautore sulle scene dai primi anni 2000, così ci fermiamo per una chiacchierata. Angelini fa inoltre parte della band di musicisti del programma satirico “Propaganda Live” di La7, che adoro. Gli chiedo pertanto di salutarmi Diego Bianchi e se può accennarmi un pezzo del suo tormentone del 2003, “Gattomatto”. Mossa audace che mi costa un sonoro e amichevole sfanculamento da parte sua! In quanti possono vantarsi di essere stati mandati a quel paese da Angelini, in fondo?
Ci scappa una foto di gruppo prima della sua esibizione con
Rodrigo D’Erasmo, compositore, polistrumentista e violinista degli
Afterhours, nonché direttore musicale di un altro programma televisivo di valore, “Ossigeno”, di Rai3.
I due si esibiscono in un delicatissimo tributo a
Nick Drake. Un artista fragile, taciturno, dall’animo contemplativo, che non conobbe mai in vita il successo che avrebbe invece meritato, morendo in totale solitudine a soli 26 anni, per una dose eccessiva di amitriplina.
I brani del cantautore britannico si susseguono, nella rilettura di Angelini e D’Erasmo, con levità e rispetto, lasciando inalterata la disarmante ed essenziale bellezza di brani come “The Riverman” e “Way To Blue”.
Tra un pezzo e l’altro, D’Erasmo racconta qualche aneddoto, su come lui e Angelini si siano conosciuti e abbiano messo in piedi questo splendido progetto, ma in modo particolare sulla storia di Nick Drake, su quei primi due album sfortunati (“Five Years Left”, “”Bryter Layter”), sullo storico produttore Joe Boyd, il primo a credere in Drake, e sulle perizie tecniche di quei brani solo apparentemente semplici. In questo modo i due trasformano uno spettacolo potenzialmente di nicchia in un piccolo racconto alla portata di tutti, anche di coloro che di Drake non hanno mai sentito parlare.
È la prima volta, che io sappia, che a Ypsigrock viene inserita un’esibizione pomeridiana al camping. Spero che diventi una tradizione.
Going to see the river man
Going to tell him all I can
about the ban
on feeling free
Da anni nutro una certa idiosincrasia nei confronti dell’itpop, per il semplice fatto che, nella sua accezione più commerciale, lo trovo banale, vuoto e impersonale. Semplicemente brutto. Ecco, per me l’itpop dovrebbe prendere spunto dai
La Rappresentante di Lista, ascoltati sabato pomeriggio al Chiostro. Il duo, formato da Veronica Lucchesi e Dario Mangiaracina, hanno tutto ciò che occorre per sfondare: una voce, quella di Veronica, tra le più interessanti, potenti ed espressive nell’attuale panorama italiano, una presenza scenica istrionica e coinvolgente, ma soprattutto canzoni che funzionano, dall’ossatura pop, immerse in synth, sassofoni e cori frizzantini, mai banali anche quando ti ritrovi a canticchiarle dopo un solo ascolto (è il caso di “Maledetta tenerezza”).
Mi ha colpita in modo particolare la fisicità, la libertà e la tensione carnale con cui viene raccontata la voluttà femminile, che trova il suo apogeo in “Woow”, vero e proprio inno all’empatia tra i due sessi, al mettersi l’uno nei panni dell’altra, e soprattutto viaggio nella dolorosa e febbricitante scoperta delle reciproche debolezze, al fine di superarle insieme.
Al termine del live, riesco a intercettare Dario, che mi regala il loro ultimo disco, “Go Go Diva” e mi dice che non amano etichettarsi in questo o quel genere e che l’unica definizione soddisfacente che sono riusciti a trovare per la loro musica è “queer pop”, mentre come influenze mi rifila un cocktail incredibilmente eterogeneo di artisti e sonorità, che va da Giacomo Puccini a
Dimartino, passando per
James Blake e
Arcade Fire.
Poco dopo è il momento di
Mokado,
moniker dietro cui si nasconde Sylvain Bontoux,
producer parigino, che ci offre un
dj-set nel senso più classico del termine, in cui l’ambient incontra quella che a lui piace chiamare marimba elettronica. Fatto sta che finalmente si balla e che la sua esibizione non avrebbe sfigurato neanche al camping!
Alle 19.30, alla Chiesa sconsacrata, si esibisce il cantautore
Alberto Fortis, ma la troppa gente ci fa desistere dall’entrare, perciò, dopo l’ennesima pausa da Fiasconaro, ci dirigiamo verso il Castello, dove il primo a esibirsi è
Baloji, artista belga di origine congolese che, mettendo insieme rap e
soukos, riesce a far ballare tutta la piazza. Qua e là figurano richiami a
Fela Kuti (il figlio, Seun Kuti, aveva suonato lo scorso anno al Chiostro) e a un altro artista belga decisamente più famoso,
Stromae.
Come avevano già fatto La Rappresentante di Lista durante la loro esibizione, anche Baloji si concede qualche incursione politica e dedica uno dei suoi brani ai migranti.
Subito dopo, è il turno di un’altra artista belga: Charlotte Adigéry, in arte
WWWater che, con la sua sottile voce R&B, si muove rapsodicamente tra sonorità etniche e frattali di minimalismo elettronico, senza disdegnare psicosi hip-hop.
La rivelazione della giornata arriva però dalla Germania: sto parlando della band
Giant Rooks. Giovanissimi, vincitori del Pop NRW Prize e già presenti sui palchi di Lollapalooza e Rock am Ring, si sono mossi sul palco come veterani, hanno suonato in maniera impeccabile, trascinando il pubblico con i loro brani in bilico tra indie-rock e pop. Se amate band come
Cage The Elephant e
Young The Giant, siete già a cavallo.
Ma per comprendere l’entusiasmo consiglio di andare ad ascoltarli dal vivo, perché è là che danno il meglio. Da giorni non riesco a togliermi dalla testa canzoni come “Wild Stare”, “100 mg”, “Bright Lies” e “New Estate”.
“Ophelia I leave my broken bones in the desert”!
Dopo l’inaspettata e piacevolissima scoperta, la cocente delusione è però dietro l’angolo. Scendiamo dai gradini del castello per avvicinarci al palco ad ascoltare il live di
David August,
producer tedesco di origini italiane. Mesi fa ho ascoltato il suo ultimo disco, “D’ANGELO”, e l’ho trovato strepitoso: ambizioso quanto basta, claustrofobico, con tocchi esplicitamente
noir, barocchi e
new wave. “THE LIFE OF MERISI” e “NARCISO” praticamente dei capolavori. Cosa sia successo durante il live non è dato saperlo: i brani sono apparsi praticamente irriconoscibili, appesantiti, rallentati. I costrutti di matrice classica obnubilati da un
sound decisamente più techno e meno raffinato rispetto a quanto ascoltato su cd.
Poco male, al camping ci si rifà con
Pick A Piper, tra noi giocosamente soprannominato “il nerd”. Il nerd in questione in realtà non è uno qualunque, bensì Brad Weber, storico batterista di
Caribou. Non a caso, il suo è un live ricco di contaminazioni, dall’Idm alla
daytime disco passando per l’afrobeat.
E la serata decolla, tant’è che il giorno successivo non riusciamo ad arrivare in tempo per l’esibizione dei
Whitney.
Sabato 11Whispering Sons “Alone”Alla chiesetta, intorno alle 19, suonano gli
/handlogic, band fiorentina di cui ultimamente ho letto svariate opinioni positive. Lorenzo Pellegrini, Leonard Blanche, Alessandro Cianferoni, Daniele Cianferoni amano contaminarsi con eleganza un po’ dovunque: dall’acid jazz, al rock, all’elettronica.
Ma alle 19.30, all’interno del Castello, suona
Ólöf Arnalds, ex-membro dei
mùm, perciò decidiamo di abbandonare anticipatamente il live degli /handlogic per provare a entrare al Castello. Si tratta dell’unico caso di sovrapposizione di concerti all’Ypsigrock. Incredibile ma vero, considerando che generalmente ai Festival musicali è perennemente necessario fare delle scelte per via delle sovrapposizioni dei concerti.
Nonostante i nostri sforzi, però, non ci è possibile entrare, in quanto la capacità all’interno del Castello è estremamente ristretta, circa un centinaio di persone, e la fila è già lunghissima.
Dico la verità, della prima band che si è esibita al Castello (
Pip Blom) la sera di domenica, non ricordo molto, se non che si trattava di un
guitar pop catchy e caciarone. Ho trovato più interessanti le danze scatenate di un gruppetto di americani nella piazza ancora semivuota, che la musica in sé. E questo è tutto dire.
La colpa però non è solo dei poveri Pip Blom. Il problema è che i
Whispering Sons, che hanno suonato subito dopo, intorno alle 21.20, hanno offuscato tutto il resto con la loro bravura. Avevo già ascoltato il loro album di debutto, “
Image”, trovandolo perfettamente nelle mie corde, ma temevo che si potesse reiterare quanto successo
lo scorso anno con i Girls Names al Chiostro: mi erano piaciuti tanto su disco, ma erano stati a dir poco deludenti live.
Invece coi Whispering Sons è accaduto il contrario: la band belga ha fatto venire i brividi a tutti. Nella sua esibizione, dietro un’apparente freddezza è stato possibile assaporare a pieni polmoni un’emorragia di edonismo perverso e tormentato (“Waste”), nonché una certa solennità ecatombale di matrice post-punk (“Wall”), ed è stato possibile addirittura ballicchiare con pezzoni sul liminare della
nu new wave (“Alone”).
Se su disco i riferimenti del gruppo sono molto, forse un po’ troppo espliciti, dal vivo non si ha affatto questa sensazione, anzi paradossalmente sono riusciti a produrre risultati originali, nella loro personale mescolanza di rock gotico, post-punk e new wave in un opulento cocktail sonoro.
Con i dublinesi
Fontaines D.C. rimaniamo in territorio post-punk, sebbene la voce di Grian Chatten, volutamente atonale e
crooneristica, richiami palesemente l’immaginario punk. La band non si risparmia, suonando svariati pezzi tratti dal suo disco di debutto “
Dogrel”, dalla punkettona “Sha Sha Sha”, cantata a gran voce dal pubblico, alla più wave “Television Screen”.
Gli
Spiritualized avrebbero dovuto suonare all’Ypsigrock diversi anni fa, ma per un inconveniente diedero
forfait e vennero sostituiti all’ultimo minuto dai
Pere Ubu. Quest’anno finalmente giustizia è stata fatta. Il progetto di Jason Pierce, già fondatore degli storici
Spacemen 3, rappresenta un crossover ben riuscito tra psichedelia e shoegaze, con frequentissime contaminazioni di ogni tipo, dal gospel al blues. Pierce, seduto al pianoforte, apre con “Hold On”, dall’album “
Amazing Grace” del 2003, ma è solo un piccolo riscaldamento prima della splendida “Come Together”. Non mancano “Soul On Fire” e momenti più melensi (“I’m Your Man”).
La sera al camping, dopo l’ennesima doccia, ci si rilassa con gli altri campeggiatori, quando notiamo delle luci colorate tra gli alberi e della musica che sovrasta quella proveniente dal palco (
Free Love). Si tratta del gruppo Anelli, quest’anno più attrezzato che mai. Anche quest’anno conferma infatti saldamente la sua
leadership, ma c’è da dire che altri gruppi si profilano all’orizzonte, in modo particolare il Gruppo Pignatari e il Gruppo Kefir, quest'ultimo fattosi notare per aver animato le vie del paese a suon di musica da una cassa portatile, con bottiglie di kefir in mano.
Dopo un
dj-set andato avanti a oltranza fino a mattina e chiusosi col consueto rito della scala, anche la ventitreesima edizione di Ypsigrock si conclude. Il bilancio di quest’anno comprende due orecchini martoriati e uno spazzolino smarrito. Ancora una volta, l’endemica magia di questo luogo felice si è abbarbicata nei nostri cuori, lasciandoci ubriachi di emozioni, ricordi, qualche piccolo rimpianto e il desiderio impellente di tornarci al più presto.
Chissà che il 2020 non sia l’anno degli
Interpol a piazza Castello. In fondo, sognare non costa nulla!