End Of The Road Festival - La strada incantata

Pare un’allucinazione di bambino avvistare, la prima volta, le punte colorate dei padiglioni dell’End Of The Road spuntare nel bosco della campagna inglese del Dorset, scorgere un classico doubledecker rosso parcheggiato in una radura. Attraverso le magiche evocazioni di Stonehenge, sito a poca distanza dai Larmer Tree Gardens, luogo in cui si svolge il festival, l’immaginazione vulcanica di un neonato semidio alla giocosa scoperta dei propri poteri ha disegnato un luogo fuori dal tempo, uno strappo nel tessuto delle cose. Una campana, posata chissà come su un piedistallo all’ombra traforata degli alberi, diffonde il suo calore interiore agli infreddoliti pellegrini di questo giardino di sogno, addobbato col gusto nordico – l’organizzatrice, Sofia Hagberg, è svedese – di un insediamento umano indistinguibile dall’apparecchiatura naturale della vegetazione.

Il segreto dell’End Of The Road non è molto distante da quelle fronde che grondano luci, dai colori sgargianti dei pavoni chpavone_02e si aggirano in bella mostra per meandri in cui è facile imbattersi in bambini che si cimentano nei passatempi dei vichinghi, o fare due chiacchiere con coppie anzianotte placidamente distese a sonnecchiare sul prato. Il segreto di un festival come questo non può che essere quello di riuscire a instaurare un rapporto tra il partecipante e il luogo stesso, prima ancora che cercare di raccogliere il maggior numero di nomi di richiamo. Chi va all’End Of The Road può contare su una programmazione solida, sempre fedele a certi canoni di familiarità anche nel tessuto musicale, che si traducono poi nella “vita quotidiana” del festival, dove gli artisti fanno due passi tra gli stand, si siedono con la gente ad assistere ai concerti, improvvisano concerti negli angoli più nascosti e stupefacenti del luogo, a qualsiasi ora. Per questo presenziare al festival è una questione che prescinde dal confronto tra scalette – che quest’anno è comunque tra le più rispettabili, avendo allineato Modest Mouse, Yo La Tengo e Wilco in qualità di headliner. Fare calcoli sulla line-up sarebbe, insomma, come telefonare alla nonna per farsi comunicare il menu del pranzo di Natale, per decidere se recarsi, invece, al ristorante.

E, a proposito di ristorante, uno dei punti di forza del festival è l’offerta culinaria dei vari stand, non numerosissimi, ovviamente, dato che i biglietti venduti sono solo cinquemila, ma quasi tutti in grado di offrire un pasto di buona qualità. Dal falafel alle meat pie, dalla cucina nordafricana a quella caraibica, l’alternanza dei sapori dei quali il pubblico può godere è uno spettacolo nello spettacolo. E se dal punto di vista del cibo molto si concede a mondi lontani ed esotici, per quanto riguarda le bevande è invece tutto nel solco della più pura tradizione inglese, con un’ampia offerta di vere ale locali e di tipologie di sidro, da quello classico a quello caldo e speziato per affrontare il freddo notturno, a quello distillato e trasformato in un digestivo, chiamato cider brandy. Ovviamente poi ci sono altri tipi di stand, ovvero quelli di abbigliamento, tra il vintage e i gadget del festival, e quello dove noi maniaci musicali lasciamo ogni anno il maggior quantitativo di denaro, ovvero il tendone della Rough Trade, che offre tantissimi cd e vinili degli artisti presenti al festival, dei quali almeno 5-6 si recano ogni giorno al tendone per delle vere e proprie signing session.

L’atmosfera di familiarità tra pubblico e artisti è ulteriormente aiutata dal fatto che il citato giardinetti2tendone non è l’unico posto in cui si possono comprare dischi, perché la quasi totalità delle band vende il proprio merchandising alla fine dei loro set, e il vantaggio di fare shopping in questi momenti è quello di poter instaurare un dialogo con i musicisti di cui si è appena apprezzata l’esibizione, e la facilità di un rapporto così diretto fa bene non solo a noi appassionati, ma anche a loro artisti, perché nessuno di essi fa parte dello star system e quindi poter godere così da vicino delle vibrazioni positive del pubblico rappresenta uno stimolo difficilmente uguagliabile.

Risulta evidente come le ridotte dimensioni della rassegna siano decisive perché tutto questo possa avvenire nella massima serenità ed in generale siano la causa principale della grande comodità logistica in ogni ambito, dalla facilità di spostarsi dalla propria tenda ai palchi, all’accesso alle toilette che avviene sempre in pochi minuti, dalla cura e pulizia delle toilette stesse alla presenza di comode docce calde. Tutto questo non potrebbe avvenire in altri festival dal pubblico molto più numeroso, ma va comunque dato merito all’organizzazione di questo evento per la loro cura maniacale di ogni dettaglio utile per far vivere a chi partecipa un weekend spensierato e senza problemi. Probabilmente chi legge si starà chiedendo: ma ce l’avrà un difetto questo End Of The Road? La risposta è molto chiara e semplice: no, di difetti non ce ne sono proprio, c’è solo un luogo incantato che è un vero e proprio Paradiso in cui immergersi una volta l’anno, con la voglia matta di tornarci non appena se ne esce.

Quello che segue è il tentativo di offrire una panoramica il più ampia possibile di tutte le performance alle quali abbiamo assistito in questo lungo weekend, cercando di mantenere un equilibrio con la necessità che l’intero articolo risulti fruibile. Abbiamo viaggiato tra grandi promesse, inaspettate rivelazioni, solide realtà e alcune delusioni, che è comunque giusto che vi siano, soprattutto se sono così poche.

Isobel Campbell & Mark Lanegan
laneganDecisamente una delle sorprese riservate ai partecipanti accorsi all’apertura anticipata di quest’anno, i set del giovedì riservano un headliner indiscusso: la “strana coppia” formata da Isobel Campbell e Mark Lanegan. C’è decisamente curiosità su come sapranno riprodurre le atmosfere dell’ultima uscita, “Hawk”, il suo carattere di blues ombroso, che decisamente pare essere un’espressione del secondo. Il live dei due conferma e dilata questa impressione: alla Campbell è riservato un ruolo da comprimaria. Per di più, la nostra non lo svolge neanche con grazia, con fascino. Visibilmente a disagio (forse per un settaggio sbagliato del suo microfono), i suoi backing vocals paiono una sottilissima litania indecifrabile, a cui le declamazioni trasudanti carisma di Lanegan fanno da impietoso contraltare. Una coppia, quindi, dai tratti grotteschi, che dal vivo funziona poco, forse per la strabordante personalità di Mark. Il solo fatto di servirsi di un leggio, il contrastante contegno di ragazzone, il timbro da stregone del deserto gli garantiscono una posizione di vantaggio. Il repertorio proposto è poi composto di canzoni magari gradevoli, ma pesantemente manieristiche – il che lascia trapelare una sensazione di stantio, di scarsa comunicatività che mal si attaglia al caldo ambiente della Tipi Tent.

Darren Hayman
Hayman è ormai un artista navigato, visto che il primo album degli Hefner, il gruppo grazie al quale si è conquistato l’attenzione di tutti gli appassionati più attenti, è del 1996. Tra Hefner, il successivo progetto electro-pop The French e i dischi da solista, il Nostro quest’anno arriva a quota dieci, e se l’ispirazione compositiva non è più quella dei tempi migliori, la qualità è buona anche ora e di lui si può quindi dire che sta invecchiando bene. L’anno scorso si era presentato qui in veste più elettrica, ma chi lo segue da molto sa che il meglio lo ha sempre dato con la sua chitarra acustica e accompagnato da una sezione ritmica che fa sembrare il suo repertorio una rilettura del brit-pop ad opera dei Violent Femmes. Stavolta, per fortuna, è proprio questa l’impostazione del live, e le canzoni rendono al massimo del loro potenziale. La sua voce è sempre espressiva ed efficace, il tocco sulla chitarra è incantevole, le melodie, come detto, sono di prim’ordine anche ora, l’esecuzione vede alternarsi brani con la citata sezione ritmica con altri in cui Hayman sta sul palco da solo. L’atmosfera è quasi magica, e i momenti più toccanti sono rappresentati dalle due canzoni degli Hefner, “The Weight Of The Stars” e “The Hymn For The Alcohol”, pezzi da novanta del repertorio di un autore sicuramente sopra la media. Indubbiamente il modo migliore per chiudere la serata di warm-up del Festival, anche perché i presenti hanno la possibilità di comprare, un mese prima dell’uscita nei negozi, il nuovo album “Essex Arms”: inutile dire che in molti sfruttano l’occasione.

Elliott Brood
Difficile pensare a un modo migliore per iniziare la programmazione ufficiale del festival, se non con l’esplosività ruspante di una band canadese. Gli Elliott Brood sono un trio banjo-chitarra-batteria che propone un folk-rock dal sapore popolare, vivido e coinvolgente. Il frontman Mark Sasso ha una bella voce roca, un portamento da veterano dei palchi del Midwest; la band sa inoltre gestire senza eccessi un rapporto esuberante con il pubblico, che viene invitato a seguire con le mani e in coro i pezzi del gruppo (cosa piuttosto facile, del resto). Il repertorio dei Nostri non è in effetti dei più vari, la maggior parte delle canzoni è costituita da schitarrate in maggiore. Eppure lo sguardo canadese, giovanile ed entusiasta, permette al gruppo, tutto sommato, di rompere le diffidenze e intrattenere convincendo per quei tre quarti d’ora che costituiscono probabilmente l’intervallo aureo per la band.

Woodpigeon
woodpigeonPer quanto non uno degli artisti di punta del festival, Mark Andrew of the Hamiltons rappresenta un simbolo dell’End Of The Road. Non a caso scritturato fin dal primo disco dall’etichetta della rassegna, Woodpigeon pare essere il nome da selvaggio di un bambino nato e cresciuto all’ombra del Garden Stage, per come la sua musica sa intercettare e riassumere l’atmosfera da esuberante ma mai sboccata festa folk che si condensa ai Larmer Tree Gardens ai primi di settembre. Il suo live non sarà tra i migliori visti nell'occasione – nonostante la stima per la sua produzione sterminata e senza pecche rimanga altissima – in sostanza per l’accompagnamento non eccelso, per varietà e spessore, fornito dai ragazzotti scozzesi degli Eagleowl. Questi, più che un organizzato compitino, non sanno fornire, e così non rimane a Mark che arrangiarsi come può, sfoderando una classe da primattore. Le sue eccelse doti di arrangiatore vanno, però, un po’ perse. Estrae dal suo repertorio già cospicuo una scaletta sicuramente personale, che lascia da parte i suoi grandi classici (o presunti tali) e facendo poche concessioni all’ultimo disco – eccezion fatta, ad esempio, per l’ovvia “Woodpigeon vs. Eagleowl”. Con quasi sessanta canzoni pubblicate nel volgere di tre anni, Mark ha raggiunto, in pochissimo tempo, lo status di un cantautore che può permettersi di amministrare un live nel modo che più gli aggrada, estraendo pezzi nascosti e personali, sapendo di accontentare il pubblico già nella sua presenza.

Freelance Whales
L’anno scorso qui avevano suonato gli ancora sconosciuti Mumford & Sons, che poi avrebbero ottenuto un hype senza precedenti in ambito folk pop. Chi vive qui in Inghilterra dice che lo stesso destino potrebbero averlo quest’anno i Freelance Whales, ma l’ascolto della loro performance non invoglia certo ad accodarsi a tale previsione. Mumford e i suoi almeno hanno diverse melodie ispirate e una grande capacità di coinvolgere nei live, qui, invece, non si riscontra nulla di tutto questo, ma ci troviamo di fronte esclusivamente a molta compostezza, sia nella composizione che nell’interpretazione, senza che ci sia traccia di quella verve assolutamente necessaria perché una proposta folk-pop si elevi dalla mediocrità. Il suono di questo live è quel classico semiacustico che vorrebbe essere tanto frizzante quanto delicato, ma ormai questa tipologia stilistica è un po’ troppo inflazionata e non basta più rispettare pienamente i canoni del genere per dare emozioni al pubblico; e di emozioni qui non ce n’è nemmeno l’ombra.

Mountain Goats
Il set minimale con cui la band di John Darnielle si presenta è forse il migliore, se si tratta di far emergere l’espressività torrenziale del Nostro, il trasporto senza remore con cui parrebbe vorrebbe invitare tutti sul palco, oppure scendere tra la folla. Un classico chitarra, basso e batteria che lascia rendere al massimo i suoi cavalli di battaglia (“No Children” e “Old College Try” su tutte), ma che risulta un po’ stancante e poco intonato agli ultimi sforzi del gruppo, non a caso sorretti da un comparto strumentale meno scarno che in passato. Dalla nostra posizione, un po’ defilata a dire il vero, il basso pare sovrastare il tutto, imploso e riverberante. Dopo qualche canzone che vede John in solitaria, intermezzo poco convincente, la chiusura è grandiosa, con la trascinante hit di “This Year” che arriva, finalmente, a scaldare animi un po’ intirizziti.

Wolf People
Tempi duri per chi apprezza le interazioni tra il rock classicamente inteso e il blues. Solo i Black Keys continuano a dare soddisfazione ultimamente, almeno su disco, ma per il resto il panorama appare un po’ scarno. Questo quintetto prova a rivitalizzare la scena, e a giudicare da quanto ascoltato qui, ha tutte le carte in regola per riuscirci. Il suo modo di mescolare i due generi sopra descritti è abbastanza zeppeliniano, ma senza le complicate strutture di molti brani del leggendario gruppo di Plant&Page. Al contrario, qui le canzoni sono tutte estremamente dirette e scorrevoli, anche se, nei momenti giusti, non mancano interessanti variazioni strumentali sul tema. L’esecuzione, poi, è davvero brillante: la voce è potente ed espressiva e soprattutto dà l’idea di essere molto spontanea, come se il cantante fosse in gradi di sfruttare la propria ugola d’oro con la stessa naturalezza con cui noi comuni mortali ci facciamo la barba; la sezione ritmica è incalzante e fantasiosa; il suono delle chitarre è vibrante e gode di una buona varietà di tonalità. Un’energia contagiosissima e travolgente, tanto che la gente insiste rumorosamente nel chiedere un encore non previsto che però arriva tra l’entusiasmo generale. Tra l’altro i Wolf People si rifiutano di pubblicare cd, ma la loro musica si trova solo su vinile ed esce per la Jagjaguwar, etichetta che già da sola rappresenta una garanzia. Per ora è uscito “Tidings”, raccolta delle prime registrazioni, interessante ma priva di quella carica adrenalinica mostrata sul palco. Speriamo che nel primo vero album, in uscita il 12 ottobre, siano riusciti a raccoglierla.

Wolf Parade
wolfparadeDopo l’esibizione torinese, a distanza ravvicinata in un piccolo club di periferia, c’è grande curiosità nel vedere come la band canadese se la caverà al cospetto di un Garden Stage gremito di qualche migliaio di persone. Non che Krug e Boeckner siano dei novellini, anzi: eppure hanno dalla loro un disco che ha avuto certo minore eco rispetto ai precedenti, in un difficile momento di transizione per la band, in cui i progetti indipendenti paiono aver più successo di quello comune. Tutti i dubbi vengono spazzati via dal primo suonare della tastiera di Spencer Krug, una sirena che fa da richiamo a un’ammaliante liturgia rock, una mareggiata spumeggiante che si infrange sul pubblico, inebriato come poche volte si può osservare all’End Of The Road. Su un palco di più grande occasione, i Wolf Parade sfoggiano un tiro, una stoffa da grande band, pur con un repertorio che, su disco, poteva apparire fuori fuoco: aggrediscono dal primo secondo e non lasciano più la presa. I due, Boeckner e Krug, sono musicisti straordinari, con personalità perfettamente complementari: forse l’abito della band si avrà perso un po’ di smalto, nel corso degli anni, ma live come questo sono lì a testimoniare come, nonstante tutto, siano ancora vivi e vegeti, alla faccia dei detrattori da cameretta.

Here We Go Magic
Questo giovane quintetto statunitense è alfiere di un indie-pop dal suono leggero ma dalle melodie poco convenzionali che non può non risultare interessante. Stasera, però, la performance non è delle migliori, non tanto in termini di esecuzione in sé e per sé, ma piuttosto per quanto riguarda l’intensità. Le canzoni scorrono via senza lasciare tracce rilevanti e l’ascolto è sì piacevole, ma non in grado di farsi ricordare a lungo, soprattutto in un festival come questo in cui la mente subisce innumerevoli stimoli sia musicali che legati alla location. La band, tra l’altro, utilizza solo cinquanta minuti dell’ora che aveva a disposizione, eppure con due album all’attivo il repertorio per riempire questo intervallo di tempo dovrebbe esserci: forse è proprio il segno tangibile che i ragazzi non erano in serata e che non vedevano l’ora di finire. Un concerto che può comunque essere ritenuto sufficiente, ma dagli Here We Go Magic ci si aspettava molto di più.

Modest Mouse
Il percorso artistico della band americana è caratterizzato dal fatto che ogni disco è di ascolto sempre più facile rispetto a quello precedente. In questo headlining set, però, il gruppo non si limita a proporre la propria anima easy listening, ma alterna brani estremamente melodici ad altri dal suono più abrasivo e dal songwriting più chiuso. L’inizio con la viscerale “Satin In A Coffin” è già una dichiarazione d’intenti, così come lo è il giocarsi molto presto entrambi i singoli di maggior successo, “Dashboard” e “Float On”. Dal punto di vista dell’esecuzione, la band è in gran spolvero dal punto di vista strettamente musicale, con un suono compatto, pulito e che lascia trasparire tutta l’emotività del repertorio; l’unica perplessità è data dall’utilizzo di una doppia batteria, che in realtà vede le linee dei due singoli strumenti che si limitano a sovrapporsi l’una all’altra. La voce di Isaac Brock non ha la stessa efficacia, e spesso si ha l’impressione che il leader fatichi a tenere il passo degli strumenti, ma potrebbe anche essere stata una scelta quella di non dare un ruolo predominante al cantato per far arrivare meglio agli spettatori i pregi del suono. Il live, nel complesso, è solido e convincente: se l’ultimo album del 2007 può essere considerato un mezzo passo falso, l’aver ascoltato dal vivo i Modest Mouse tre anni dopo dà la speranza che il prossimo lavoro tornerà ad assestarsi su livelli ben più alti.


New Pornographers
Terminati I Modest Mouse al Garden Stage, c’è giusto il tempo di lasciar defluire un po’di folla e percorrere il minuto e mezzo a piedi necessario per arrivare al Big Top, che l’ensemble canadese è pronto per il proprio show. E’ ormai noto ai più che, delle tre personalità che animano la produzione del gruppo, né Dan Bejar, né Neko Case fanno parte di questo tour, ed è il solo A.C. Newman a rappresentare sul palco il nucleo pensante della band. Al loro posto, comunque, ci sono due cantanti di tutto rispetto, soprattutto Kathryn Calder, la sostituta di Neko Case, che ha una voce sensazionale che unisce mirabilmente pulizia, potenza ed espressività. Dal punto di vista strettamente tecnico la performance è strepitosa in tutti i suoi aspetti, non solo quello vocale: Il suono nel complesso, infatti, è compatto e brillante come meglio non potrebbe essere e sia le chitarre che la sezione ritmica riescono ad essere non solo incisivi per conto loro, ma a guadagnare un grande valore aggiunto dalle interazioni tra loro e con la voce. Peccato che tutto questo ben di Dio venga utilizzato per eseguire quasi esclusivamente le canzoni degli ultimi due dischi, ovvero quelli meno riusciti: certo, fa bene la band a puntare sul repertorio recente, se è ciò in cui più crede, ma una punta di malinconia è inevitabile, immaginando una prestazione del genere applicata alle canzoni più vecchie e più belle.


Forest Fire
forestfireProporre folk cupo e tenebroso all’una di pomeriggio in un giardino assolato e pieno di vegetazione rigogliosa ad ogni angolo non è senz’altro un’impresa facile. Quando poi uno dei musicisti, in questo caso la ragazza che si alterna tra basso e flauto, mostra una padronanza tecnica al di sotto di ogni limite accettabile per questi livelli, la missione si fa ancora più ardua. Eppure la mezz’ora dei Forest Fire non entusiasma, ma nemmeno delude, perché comunque l’ambientazione che sta dietro alla proposta della band riesce comunque a stagliarsi sul palco ed i presenti la vivono senza compromessi. Una band che quindi deve migliorare sia dal punto di vista della composizione che da quello dell’esecuzione, ma già il fatto che si siano dimostrati capaci di imporre la propria identità in una condizione difficile rappresente un importante punto a loro favore.


Phosphorescent / Eagleowl
Sostiamo per un attimo al Garden Stage, occupato da Phosphorescent, avendo promesso alla backing band di Woodpigeon, gli Eagleowl, di presenziare alla loro esibizione alla Tipi Tent. Tanto più che lo show di Matthew Houck non pare esattamente convincente: perlomeno nel primo brano, “It’s Hard To Be Humble (When You’re From Alabama)”, il Nostro arranca pericolosamente al seguito dei propri musicisti, accumulando diverse stonature. La riuscita della riproposizione live dell’ultimo “Here’s To Taking It Easy” migliora con le successive “Nothing Was Stolen (Love Me Foolishly)” e la dolce “We’ll Be Here Soon” – insolita fra l’altro la scelta di ripercorrere i pezzi nell’ordine con cui appaiono sul disco. Pare che il crescendo emotivo del disco, in questo senso, sia stato rispettato egregiamente, dato che molti partecipanti hanno poi scelto “Los Angeles” come uno degli highlight del festival. 
All’End Of The Road, però, una promessa data vale più del momentaneo piacere: in più la possibilità di assistere ai primi timidi passi di una band promettente come quella scozzese è un’occasione sempre gradita. In particolare è forte la curiosità di vedere se gli eagleowl sapranno rompere quella sensazione di scolastico, ancora abbozzato data dall’ascolto della propria limitata produzione. Va ammesso che il loro live conferma impietosamente l’impressione avuta in precedenza: la timidezza che trasmettono è quella dell’impaccio, la vocalità dimessa di Bart pare ancora rinchiusa in un bozzolo costruito da un’espressività strumentale ancora da affinare – espressa al massimo grado nella riproposizione del sognante bozzetto à-la Seabear di “Morpheus”.


Citay
Questi giovani canadesi provano a fare ciò che a molti loro connazionali è venuto benissimo negli ultimi anni, ovvero canzoni dall’impostazione pop ma dalla struttura cangiante, sia negli arrangiamenti che nelle melodie. Purtroppo dal vivo riescono a dare soltanto una forte sensazione di manierismo e di aver voluto compiere il classico passo più lungo della gamba, ovvero proporsi in modo ambizioso avendo anche le capacità tecniche ma non accompagnate dalla necessaria ispirazione in termini di songwiting e di creazione degli arrangiamenti. Magari in un futuro acquisiranno anche quella e diventeranno una realtà interessante, ma il momento appare ancora lontano, quindi, al momento, si tratta di una band quantomeno prescindibile.


Deer Tick / The Unthanks
Una delle poche band a cui ci avviciniamo del tutto ignari della loro produzione, pur avendo un’idea delle loro frequentazioni, i Deer Tick incarnano alla perfezione quello che pare essere il “genere End Of The Road” di quest’anno, ossia un folk-rock con forti radici, eppure riproposto con un certo fervore e con un piglio convincente. Questo gruppo di Providence non fa eccezione: bravi musicisti con canzoni non memorabili, ma curate, che spaziano da Dylan a Springsteen a Waits, passando per gradevoli escursioni à-la Fleetwood Mac. È una somma di tributi che forse farà storcere il naso a chi è in cerca di personalità: in qualche modo questa e altre band sembrano un poco pulcini razzolanti al cospetto della chioccia Wilco. Ce ne fossero, però, di giovani band come questa, in grado di resuscitare il mito del “passato prossimo” senza annoiare, mettendoci prima di tutto sé stessi, senza affettazioni nè pose.
La ricerca di un vantage point adatto al successivo concerto di Sam Beam ci costringe, giocoforza, ad assistere ai minuti finali dell’esibizione delle Unthanks. Nonostante le ragazze annuncino il loro ultimo pezzo, quest’ultimo si trascina purtroppo per quasi dieci minuti, infarciti di tutto il possibile cattivo gusto si possa chiamare a raccolta in un così breve lasso di tempo. L’apice viene probabilmente raggiunto nel doppio numero di clog-dancing, tra l’eccitazione dei presenti: oh, come sono rustiche e genuine!


The Wilderness Of Manitoba
manitoba1Diciamolo subito: la presenza di questi ragazzi ha rappresentato il momento più alto del festival. Dico la presenza, e non semplicemente il concerto, perché tra il quintetto canadese e l’End Of The Road si è instaurata una relazione che va molto al di là della semplice interazione tra musicisti e appassionati. Questi ultimi sono impazziti per le tre diverse performance che la band ha voluto offrire tra sabato pomeriggio e domenica notte, ma lo stesso si può dire per il modo di essere come persone dei cinque, amanti non solo delle sensazioni che sa dare la musica dal vivo, loro come creatori e noi come fruitori, ma anche della complicità, del feeling speciale che si instaura tra chi sta sotto il palco e chi ci sta sopra, un rapporto fatto di sguardi, di sorrisi, di un’osmosi progressiva che attira noi verso loro ma anche loro verso noi, in modo delicato ma progressivamente sempre più magnetico. Di conseguenza anche la band è andata totalmente fuori di testa per l’incanto proprio di questo luogo, e ha quindi voluto vivere il giorno e mezzo di presenza nel modo più intenso possibile, andando a vedere tanti concerti, parlando con un gran numero di persone e suonando ben due volte nella zona del boschetto adibita ai concerti a sorpresa. Li incontravi in giro e leggevi nei loro occhi la gioia fanciullesca che stavano provando, loro che stanno soltanto ora iniziando a farsi un nome in Europa, e che provenivano da una data a Tallinn, dove forse il riscontro in termini di calore del pubblico non era stato dei più entusiasmanti. Arrivano qui tre ore prima del loro set, in programma a metà pomeriggio sul palco più piccolo, ma il più adatto alla loro proposta musicale, e alla fine dei loro 45 minuti si ritrovano con decine di appassionati a sgomitare per comprare il merchandising e implorarli perché cerchino in tutti gli angoli dei loro bagagli altre copie dell’Ep del 2009, che in quel momento erano andate tutte vendute.
Entusiasmo più che giustificato, perché questo live è semplicemente una magia. La forza del repertorio della band è il saper unire un senso melodico già fuori dal comune al primo disco con un impasto sonoro che sfrutta un numero di ingredienti non molto elevato, con ognuno di essi che però sa andare sempre al di là dell’esecuzione di un compitino, dando invece un contributo la cui importanza è palpabile sia per apprezzare il risultato dal punto di vista tecnico che per farsi rapire dal punto di vista del coinvolgimento emotivo. Mi si consenta di citare la recensione del mio compagno di avventura qui, quando confronta queste canzoni con “altri interpreti del movimento folk contemporaneo - persi in rievocazioni e operazioni di sartoria sostanzialmente non necessarie”. Qui è tutto necessario, anche una Melissa Dalton che si limita ad eseguire dei controcanti e a fare un po’ di delicato rumore con la ciotola tibetana, un piccolo strumento tondo sfregato in senso circolare con un bastoncino: potrebbe sembrare un contributo insignificante, e invece è fondamentale, così come lo sono i sobri accompagnamenti del violino e del banjo. Tutto molto semplice, ma perfettamente funzionale ed assolutamente indispensabile per far sì che la platea viva questi momenti con grande trasporto che sfocia in veri e propri moti di commozione.
Quando poi ci si rende conto, già solo dal modo in cui ringraziano tutti ed autografano i cd venduti, che la loro personalità di individui è speculare alla loro proposta musicale, non puoi non amarli. Anche perché loro si rendono conto allo stesso modo di avere a che fare con un’audience composta da persone come loro. Nasce da questa immediata armonia la mia richiesta insistente di tirare fuori in qualche modo altre copie di questo benedetto Ep. Lo confezioniamo a mano, mi dicono, troviamoci da qualche parte tra tre – quattro ore. Ok, appuntamento alla fine degli Yo La Tengo sotto l’affresco sulla destra del palco. E quando Will, il cantante, arriva veramente, è evidente che questo non è solo un appuntamento di lavoro, ma c’è anche il piacere di rivedersi proprio per il feeling che si è creato in termini di rapporto umano. Lui e Melissa chiamano me e gli altri miei compagni d’avventura con i nostri nomi ogni volta che ci vediamo, e quando suggeriamo loro di suonare nel boschetto, loro lo fanno, come detto, per ben due volte. La prima volta ce la perdiamo, per la seconda veniamo avvisati per tempo. Finiti gli Wilco, ci dicono, venite in quella zona, che manitoba4qualcosa succederà. Sono le undici e mezza, il festival è alla fine e la gente probabilmente è stanca, ma il piccolo spazio d’erba di fronte a loro è gremito e quando qualcuno ignaro di cosa stia accadendo passa parlando ad alta voce, subisce i peggiori insulti del mondo, che questo momento magico non può essere rovinato da nessuno. Il suono, ovviamente, è molto più flebile, ma la resa dei brani è comunque di livello eccelso, e quella sensazione di essere tutti una cosa sola, noi e loro, già presente nel live “istituzionale” è forte come non mai, favorita anche dalla consapevolezza che si tratta dell’ultimo atto. Tra l’altro i ragazzi sono molto più sicuri di sé, visto il successo dei precedenti set, e si lanciano in simpatiche battute come “Questa canzone si chiama Orono Park, è come Toronto senza le t”. Il set dura poco, come tutti quelli suonati qui, e finisce con il lungo vocalismo proprio di "Orono Park" cantato in modo sussurrato ma convinto da tutti, e sono minuti che cristallizzano un weekend intero e vorresti che non finissero mai. Ce ne andiamo non prima di averli salutati calorosamente, e ci sono abbracci e commozione per tutti. Ognuno si dirige verso le rispettive tende con la convinzione che questo sia stato solo l’inizio per i Wilderness Of Manitoba. Perché se un gruppo è capace di regalare emozioni così forti e prolungate che vanno ben al di là dell’aspetto strettamente musicale, non può trattarsi di un fuoco di paglia, ma il loro destino è necessariamente quello di acquisire sempre più popolarità. “Ci vediamo in Italia, è solo questione di tempo” ci dice Will salutandoci per l’ultima volta, e nessuno ha dubbi che stia dicendo la verità. E se anche non dovessero farcela, basta aspettare solo un anno, perché è impensabile non ritrovarli nella line-up del 2011, dopo tutto quello che è successo quest’anno.


Iron & Wine
ironandwineQuando compare sul palco, col completo grigio che sembra impolverato della sabbia del deserto nonostante appena indossato, barba e capelli severamente acconciati, Sam Beam pare un caratterista western, una di quelle figure paterne di placidi, saggi capifamiglia. Il suo solo aspetto sarebbe sufficiente ad attirare gli sguardi, zittire l’ultimo chiacchiericcio: Beam non si accontenta, si avvicina al microfono senza dire una parola e, come se iniziasse una celebrazione religiosa nella chiesetta di legno del paese, intona una “Flightless Bird, American Mouth” a cappella che lancia saette di una silenziosa tempesta elettrostatica nel pubblico attonito. Già al secondo pezzo, “The Trapeze Swinger”, Beam ha il pubblico ai suoi piedi, lo accompagna con un ciondolare appena accennato nell’incessante rimestare emotivo di uno dei cavalli di battaglia di Iron & Wine. Nella lunghezza del brano c’è tempo anche per un breve siparietto, quando il Nostro è costretto a interrompersi, avendo dimenticato un passaggio. Un breve, divertito scambio col pubblico, e via fino in fondo: l’episodio mostra però il volto di navigato professionista di Beam. Figure come la sua certo giovano al festival ma, certo, se ci si poteva magari aspettare di trovarlo a suonare nel bosco in maniera più informale, questa esibizione dissolve ogni speranza.
L’espressività di abile tessitore di vellutati bozzetti melodici è ormai rodata, la sua voce riconoscibile tra mille e decisamente valorizzata da un’esibizione così scarna, dato che le uniche intromissioni strumentali verranno fornite, oltre che dalla sua chitarra, da lievi, fugaci tocchi di pianoforte o remote movenze di steel guitar. La scaletta è abilmente progettata, tra l’appagamento di grandi classici come “Naked As We Came” e il dare di gomito ai fan di lunga data, come in “Upward Over The Mountain”. Arriva anche il momento di una nuova canzone, in cui rivediamo il Beam più tradizionale, dopo le escursioni “latine” di “The Shepherd’s Dog”. Un concerto di grande livello, insomma: poco importa se viene difficile immaginarsi Iron & Wine aggirarsi con sguardo da turista per gli stand dell’End Of The Road.


Yo La Tengo
Gli headliner del sabato sera portano nel loro set tutto il proprio eclettismo e la propria voglia di rimanere fuori dagli schemi e dagli steccati di genere. Un paio di volte la loro ambizione si spinge troppo in là perché risulti anche fruibile dal pubblico: partire con una lunga e reiterata cantilena hip hop non è certo il modo migliore per mettere dell’umore giusto i presenti, ed insistere sullo stesso elementare riff di chitarra per una dozzina buona di minuti rischia di essere un invito a nozze per quelli che comunque avevano deciso di vedere almeno un pezzo di Black Mountain o Wintersleep, in programma sugli altri palchi in contemporanea. Per il resto, però, il live è di grande livello, e quindi chi l’ha seguito con pazienza perdona volentieri le due cadute descritte. Il tasso di fantasia della sezione ritmica è davvero molto elevato, anche grazie agli efficaci ricami delle percussioni; la tavolozza delle tonalità delle chitarre è parimenti ampia; la capacità di usare la tastiera ora come semplice “colorante” del suono, ora invece come elemento di disturbo grazie a sventagliate di accordi dal suono acido e penetrante, rende il piatto ancora più stimolante e gustoso; la parte vocale non impressiona particolarmente però risulta essere il complemento ideale a questa gamma strumentale così ampia. Un live non certo facile, infatti il Garden Stage è senz’altro molto meno affollato rispetto a tutti gli altri headlining set, sia di quest’anno che dell’anno scorso, ma di indiscutibile qualità.


Dylan LeBlanc
Questo ventenne è già dipinto come un predestinato da buona parte della critica d’Oltremanica, e ascoltando il suo debutto si colgono certamente delle potenzialità, non ancora pienamente espresse, però. Il set che inaugura il Garden Stage la domenica conferma quest’impressione: alcune buone idee in fatto di songwriting ci sono, così come la capacità di interpretare le proprie idee melodiche con quel tipo di leggerezza che sa essere contagiosa. La stragrande maggioranza delle soluzioni interpretative e compositive, però, sono ancora ai limiti dello scolastico ed è quindi piacevole ascoltare il tutto sdraiati sul prato in fondo al giardino all’ombra degli alberi, ma non viene certo la voglia di alzarsi e stare in piedi a pochi metri dal palco. Speriamo che gli elogi un po’ troppo frettolosi che LeBlanc sta raccogliendo a casa propria non ne minino il percorso artistico, perché il suo talento, se coltivato con pazienza, ha tutto per poter dare soddisfazione a lungo termine.


Fuzzy Lights / Smoke Fairies
fuzzylightsDopo gli exploit dell’anno passato al Piano Stage, immerso nella foresta, tra Leisure Society e Okkervil River il richiamo di questo palco di sogno è rimasto inevitabile anche quest’anno. Nessuno, a parte i beniamini Wilderness Of Manitoba (comunque una band minore all’interno del festival), a noi conosciuto si presenterà all’improvviso, imbracciando gli strumenti. Per questo ci rechiamo nei paraggi alla prima sosta utile, tanto per respirare la magia del luogo. Come sempre l’End Of The Road riserva i suoi frutti migliori a chi gli si affida. I Fuzzy Lights si presentano con una formazione scarna, la coppia fondatrice composta da Rachel e Xavier Watkins in primo piano. Col senno di poi (ossia dopo aver ascoltato il loro ultimo disco, “Twin Feathers”) la loro esibizione acquista ancora più valore, essendo essi riusciti a suggerire le proprie ambientazioni tempestose col supporto di una chitarra acustica e un violino, nella difficoltà di Xavier di proporre unplugged la propria intonazione di basso.
Tutto il contrario si potrebbe dire delle “raccomandate” Smoke Fairies, astri nascenti della scena indipendente britannica, col loro dark-blues che dovrebbe riesumare i Pentangle e mettere due PJ Harvey sul palco a cantare. Tutto molto interessante e affascinante sulla carta, non fosse per il fatto che le due non hanno nè le qualità di musiciste (una si barcamena con qualche riff di contorno, l’altra abbozza qualche accordo), nè quelle vocali per tenere il palco sostanzialmente da sole. Sentono il bisogno di scusarsi per la loro fascinazione per le “cose oscure” e per come queste stonino col sole, che finalmente splende gagliardo sul Garden Stage, ma... Meglio che pensino prima a fare musica, prima di affettare posizioni forbite.


The Mountains And The Trees
Cosa deve fare un folksinger solitario dal repertorio estremamente melodico? Semplicemente deve saper fare in modo che chi lo ascolta si senta pervaso dall’immediatezza delle sue melodie e dalla delicatezza del suo modo di cantare e suonare. Jon Janes riesce perfettamente in questo intento: non c’è niente per cui gridare al miracolo, ma il repertorio del debuttante artista canadese gode di una buona solidità complessiva e soprattutto c’è la sensibilità giusta nell’esecuzione per cui le sensazioni espresse sono facilmente trasmesse alla platea, che recepisce volentieri e si lascia cullare dalla malinconia dolceamara delle montagne e degli alberi. Un intermezzo piacevole che contribuisce a far respirare ancora più intensamente l’atmosfera unica di questo posto.


Lanterns On The Lake
L’End Of The Road è fatto anche della piccola soddisfazione di prendersi la libertà, ogni tanto, di seguire l’istinto. Non che ci sia bisogno di chissà che, ormai, nel bene e nel male: basta uno sguardo d’intesa e una mezz'ora libera da dedicare al rassicurante tepore della Tipi Tent. Ciò che colpisce, dal retro della tenda, a fianco della famigliola Fuzzy Lights – con tanto di passeggino – è il suono di una band che pare essersi già “fatta”. Le progressioni strumentali – che pure, sul momento, appaiono un po’ accademiche - della band di Newcastle invitano subito a un ascolto non distratto, così come la voce sognante di Hazel Wilde. Il loro concerto è breve ma intenso, allontana a poco a poco la sensazione che la loro sia una fusione fredda tra folk e post. Così intenso che, quando l’ultimo pezzo si interrompe per l’improvviso spegnimento dell’impianto audio, un suono aspirato, creato dallo stupore e dalla delusione dei partecipanti, si diffonde al di sotto dei panneggi della Tipi Tent, lasciando il pubblico con un vuoto nostalgico che serra la bocca dello stomaco.


Antlers
antlersChi conosce il delicate equilibrio tra nitidezza e dilatazione presente nel suono proprio di “Hospice", l’esordio degli Antlers, deve dimenticarsi di esso quando cerca di immaginarsi come potrebbe essere un loro live. Il trio, infatti, ci fa ascoltare una manciata di brani tratti dal debutto più un paio nuovi, ed il tutto gode di una veste molto più corposa, sia come volume del suono che come ruolo della batteria. Le ragioni di questa scelta possono essere molteplici: la difficoltà di riprodurre sul palco lo stile del disco, la voglia di differenziare la produzione in studio rispetto al live, una svolta stilistica a cui si è deciso di far aderire anche il passato. Quando ascolteremo il loro secondo album alcune cose ci saranno più chiare, per ora la performance divide i presenti tra chi trova questo cambiamento poco consono con lo spirito del disco e chi invece apprezza comunque. Il sottoscritto fa parte della seconda categoria, perché è vero che così i brani acquisiscono un altro tipo di emotività, ma sempre emozionanti sono, ed è bello lasciarsi andare ad una carica tanto inaspettata quanto coinvolgente sull’onda di melodie comunque di rara bellezza e di un cantato che anche qui mantiene la particolarità del proprio ruolo, ovvero quello di non elevarsi sopra la parte strumentale ma di rimanere quasi soffocato da essa facendosi sentire quanto basta per creare un’interazione particolare s stimolante tra voce e strumenti. Una performance magnetica a trascinante, tra le migliori di tutto il Festival.


Ben Ottewell
Dopo anni di militanza nei Gomez, che comunque continuerà, Ottewell sta per pubblicare il suo primo disco solista, e questo set solo voce e chitarra acustica serve per presentare in anteprima alcune canzoni e anche per ripercorrere le gesta della sua band. Di solito l’atmosfera in concerti di questo tipo all’End Of The Road è molto rilassata ed informale, e qui lo è anche più del solito. Ben ha il volto disteso e sorridente, così come tutti gli spettatori seduti compostamente ad ascoltare le composizioni di questo artista proposte in modo così essenziale. Alcuni bambini vestiti da supereroi percepiscono la particolare rilassatezza del clima e si sentono liberi di salire sul palco e correre e saltare su di esso. Ottewell ed il pubblico li guardano divertiti, la loro mamma dice di scendere ma loro non ne vogliono sapere, l’artista chiede alla gente se a qualcuno dà fastidio se rimangono e all’ovvia risposta negativa i giovanissimi invasori si godono il loro momento di gloria. La setlist vede più pezzi dei Gomez che solisti di Ottewell, e la resa dei brani è ottima, grazie alla sensibilità con cui Ben tocca le sei corde e alla sua voce calda e avvolgente. Ascoltare brani come “Free To Run”, “How We Operate”, “Hangover”, “Get Miles” e la conclusiva “78 Stone Wobble” in un mood così fuori dagli schemi consueti (ma abituale per questo Festival) è un godimento, e le canzoni nuove appaiono promettenti. Vedremo se l’ascolto del disco confermerà le buone impressioni, intanto questi 40 minuti sono stati davvero intriganti.


The Felice Brothers
What the fuck is Americana?
Così prorompe, senza preavviso, il vocione sarcastico di James Felice, in un intermezzo del live dei Felice Brothers, band effettivamente composta, nei suoi tre quinti, di tre fratelli. Di tutti i live di questo lungo weekend, il loro è forse quello che meglio riesce a intercettare il clima del festival, a tradurlo in sonorità ruspanti, i piedi che battono il tempo sul Garden Stage e folate di vento polveroso che si agitano nella mente. Festosi senza essere sboccati, sanno riproporre sul palco il loro modernariato di irrefrenabile emotività dylaniana (come nell’ottima “Frankie’s Gun”) e presentarsi con un’oggettistica finalmente verace e credibile, di chi ha vissuto con la fisarmonica appesa sopra la testata del letto.


Yuck
Avete presente l’indie pop-rock che tanto andava di moda nell’Inghilterra degli anni Novanta? Quel lato del brit-pop che puntava più sull’impatto del suono che non sulla leggerezza? Voce robusta e impostata; chitarra solista che si produce in continui riff che corroborano la resa della voce ora sovrapponendosi, ora alternandosi ad essa; sezione ritmica potente e capace di poche ma efficaci variazioni sul tema per dare ancora più spinta al suono. Di proposte così oggi non cene sono più, ma questo gruppo appena nato ha deciso di precorrere proprio questa strada, che ovviamente non ha molta probabilità di portarli verso un successo di massa, dato che ormai questo stile sembra un po’ passato di moda. Alcuni dei membri della band facevano parte degli ottimi Cajun Dance Party, compreso il cantante, la cui performance vocale è molto positiva, e anche il gruppo nel suo complesso suona più che bene: certo, le canzoni non presentano particolari difficoltà tecniche, però c’è sempre modo e modo di suonare anche le cose più semplici, e questi ragazzi eseguono il proprio compiti con buona qualità. Anche la fattura delle canzoni è più che soddisfacente, a parte un paio di cadute, quindi si può sperare che, quando uscirà il disco, sarà un lavoro che magari non cambierà la vita di nessuno, ma che si lascerà ascoltare frequentemente.


Olöf Arnalds
olofarnaldsL’unica volta in cui ci avviciniamo al mesto tendone del Local Stage, l’unico che, nel leggere il programma, non risveglia alcun fremito di riconoscimento, è per un’altra delle inaspettate rivelazioni che ci riserva il festival. Incassato tra gli stand, che sparano musica ad alto volume, non è certo un posto per fare gli schizzinosi. Né, tantomeno, sarebbe il luogo ideale per accogliere le filastrocche di folletto islandese di Olöf Arnalds, accompagnata da un severo lungagnone alla chitarra. Per di più il pubblico pare vagamente più disimpegnato e sbrigliato rispetto ai canoni dell’End Of The Road, che sono in genere di devoto silenzio. Forse sono però, più che le corpose ale del luogo, le malìe della Arnalds a scaldare i cuori. Tutte le qualità delle cantautrici nordiche sono riassunte nell’islandese: un fascino insieme intellettuale e giocoso, tradizionale e moderno, popolare e distaccato. Le doti di simpatica intrattenitrice della Nostra, nella complicata sfida di tenere a bada gli appetiti del pubblico con le poche armi di un gorgheggio e di un ukulele, le permettono di giostrare al meglio gli intermezzi, a improvvisare siparietti senza sacrificare alcunchè alla precisione dell’esibizione. Il respiro esotico delle sue composizioni senza dubbio mette del suo nell’accrescere la godibilità dello spettacolo, questo va detto, nell’orgia americanista che ha contraddistinto questo festival in particolare. Ma il sorriso di Olöf nell’accompagnareil montare del sussurro di accompagnamento al coro di “Allt I Guddi” – per niente semplice, tra l’altro! – rimarrà una delle immagini indimenticabili di questi giorni.


Low Anthem
Con un solo album realizzato, i Low Anthem sono uno dei gruppi più popolari qui all’End Of The Road: l’anno scorso il Garden Stage era affollatissimo per loro alle due del pomeriggio, e quest’anno che il loro slot è immediatamente prima dei Wilco, c’è ancora più gente e tutti ascoltano in religioso silenzio. Dal punto di vista tecnico la band è formidabile nel ricreare perfettamente atmosfere da traditional statunitense, con una pulizia ed una delicatezza talmente perfette che escono dal loro semplice status di elementi formali, per divenire anch’essi sostanza. Il problema di questo tipo di proposte, però, è che il confine tra il sembrare fuori dal tempo e l’essere nient’altro che dei calligrafici copiatori è molto labile, e la sensazione, difficile da descrivere ma molto chiara nell’ascoltare il live, è proprio quella di trovarsi di fronte a un gruppo di amanuensi, così impegnati nel cristallizzare il passato da non farsi nemmeno sfiorare dal pensiero di qualcosa di diverso. Si parla tanto di musica derivativa, ma ogni gruppo etichettato con questo aggettivo ha un minimo di elementi propri, mentre i Low Anthem non hanno niente di niente, e questo non può certo renderli meritevoli di interesse.


Wilco
wilcoUna premessa è dovuta: quest’anno, all’End Of The Road, non si sono risparmiati neanche un finale pirotecnico. Comunque la si pensi sulla loro musica, i Wilco sono come quei personaggi che entrano sulla scena con già pronto il raggio di sole sul Ray-Ban nuovo di zecca e lasciano trapelare dal ghigno sardonico un: “Avete chiamato il tipo giusto”, tra l’adorante sbigottimento dei presenti.Ogni volta che i sei di Chicago si palesano, si tratta di un incontro ravvicinato di terzo tipo, più che di un concerto. Potremmo andare avanti con queste iperboli che, a giorni di distanza, l’emozione ancora detta per molto, ma tocca il minimo sindacale di un reportage che farà di tutto per non apparire burocratico.
Il limite di tempo imposto dal programma del festival forza i Nostri a impostare un live più secco rispetto alle travolgenti cavalcate di una “Spiders(Kidsmoke)” o di una “At Least That’s What You Said”. Nels Cline pare assai meno chiamato in causa, si dimena alla sua maniera ma i suoi schizzi chitarristici sono assai sparuti, quando non sono incamerati nel discorso della canzone. Dopo una trascinante “A Shot In The Arm” il gioco si fa facile, ma i Wilco non danno mai l’impressione di andare col pilota automatico, nonostante le mossette “aizza-pubblico” siano sempre le stesse, Kotche che sale sullo sgabello come una star delle bacchette e Jorgensen che si improvvisa guitar hero. Il lungo divagare dell’aria chitarristica di “Impossible Germany” è sempre una prelibatezza unica, una sublime opera umana che tutti dovrebbero provare, come il vero gelato siciliano o il profumo della pasta all’uovo fresca, appena fatta. L’End Of The Road regala così un commiato regale e non a caso i biglietti scontati per l’anno successivo andranno esauriti in nove ore: è solo la promessa di essere di nuovo lì che può in qualche modo alleviare la malinconia dell’addio.

Stefano Bartolotta: Darren Hayman, Freelance Whales, Wolf People, Here We Go Magic, Modest Mouse, New Pornographers, Forest Fire, Citay, The Wilderness Of Manitoba, Yo La Tengo, dylan LeBlanc, The Mountains And The Trees, Antlers, Ben Ottewell, Yuck, Low Anthem.
Lorenzo Righetto: Isobel Campbell & Mark Lanegan, Elliott Brood, Woodpigeon, Mountain Goats, Wolf Parade, Phosphorescent / eagleowl, Deer Tcik / The Unthanks, Iron & Wine, Fuzzy Lights / Smoke Fairies, Lanterns On The Lake, The Felice Brothers, Olöf Arnalds, Wilco.

Le foto sono di Francesca Baiocchi.