Un’esibizione al Sottoscala Nove di Latina è l’occasione propizia per incontrare i Calibro 35, la band italiana che ha ridato lustro a un genere musicale che sembrava ormai obsoleto e dimenticato: le colonne sonore dei film poliziotteschi anni 70. Il soundcheck è appena terminato, Enrico Gabrielli è tutto preso dal proprio sassofono che mostra qualche lieve problemino, Luca Cavina ci ringrazia per l’intervista agli Zeus! di tre anni fa, Fabio Rondanini rimette in sesto la batteria, in attesa della cena Massimo Martellotta, il chitarrista del gruppo, si presta al simpatico gioco dell’intervista. Pennette all’amatriciana e fettine panate non sono ancora pronte, abbiamo un po’ di tempo a disposizione. Ne approfittiamo per lanciarci in una spericolata chiacchierata che verterà sulla genesi e l’evoluzione della band, sui progetti paralleli dei singoli componenti, sui motivi che hanno condotto alla scelta estetica del poliziottesco, sui tentativi di conquista dei mercati esteri, sul mercato discografico che continua a rimpicciolirsi, e di moltissimo altro ancora…
Ciao Massimo, se sei d’accordo partirei dalla genesi del gruppo: come vi siete conosciuti?
E’ importante chiarire da subito che i Calibro 35 sono un progetto, non è un gruppo formato da amici che si conoscevano dai tempi della scuola e che sono cresciuti musicalmente assieme, magari con gusti simili. Ci siamo prima in qualche modo un po’ “annusati” da lontano, poi ci siamo scelti reciprocamente. La frequentazione è partita dal giro dei musicisti, di nome ci conoscevamo già tutti. Nel 2007, quando è partita la storia dei Calibro 35, ci conoscevamo io, Tommaso Colliva ed Enrico Gabrielli. Io ho tirato dentro il batterista, Fabio Rondanini, mentre Enrico ha portato il bassista, Luca Cavina. Abbiamo iniziato a frequentarci in studio, dove tutto da subito ha funzionato per il meglio. Abbiamo trovato immediatamente la giusta alchimia.
All’epoca con chi stavate suonando?
Io ho suonato con Eugenio Finardi, ho lavorato con Stewart Copeland e collaboravo per diverse colonne sonore. Enrico era negli Afterhours, dove contribuì alla stesura de “I milanesi ammazzano il sabato”, Fabio era, ed è tuttora il batterista di Niccolò Fabi. Luca suonava con Ferretti, con i Transgender e con Beatrice Antolini. Questi erano i progetti principali nei quali eravamo coinvolti in quel momento.
Qual è stata la missione, il motivo scatenante della vostra unione?
I motivi sono stati vari, primo fra i quali la constatazione che in molti festival europei la presenza italiana era un po’ limitata. Ci siamo domandati in cosa gli italiani fossero esportabili, e la risposta fu abbastanza immediata: nel campo delle colonne sonore abbiamo sempre avuto una grande tradizione. Questo aspetto, unito all’amore per quel tipo di materiale, ci ha spinti ad affrontare il progetto Calibro 35 ed a caratterizzarlo in questa maniera.
Perché proprio i poliziotteschi?
Eravamo interessati a quella materia musicale, una miscela di talmente tanti generi che consente a un gruppo molto eclettico come il nostro, con musicisti di estrazione completamente diversa, di confrontarsi con materiale dove confluiscono la classica, il jazz, il rock, il funk, a volte anche con grande azzardo, se vuoi. Un funk declinato in salsa italiana, insomma materiale sul quale era interessante misurarsi, prima di tutto come musicisti. Una scelta inconsueta, quindi stimolante. Poi c’è il discorso prettamente estetico: molti dei film ai quali facciamo riferimento hanno un taglio molto forte. Questa cosa ci piaceva non poco. Poi magari alcune pellicole sono più degne di altre, ma la forza estetica e il potere caratterizzante sono sempre notevoli. Fra l’altro non possiamo certo nascondere quanto le colonne sonore spesso superassero la qualità delle pellicole.
Avete iniziato con delle cover, reinterpretando temi altrui, poi avete proseguito sviluppando una quantità sempre maggiore di materiale autografo. La fonte ha iniziato a esaurirsi, oppure già dall’inizio era previsto il disegno di sviluppare composizioni proprie?
Tutto si è evoluto in maniera abbastanza naturale. Ma devo svelarti un dettaglio che in pochi conoscono. Quest’anno abbiamo pubblicato “Said”, una colonna sonora composta esclusivamente da materiale autografo. Ebbene, quel disco è stato registrato soltanto tre mesi dopo l’uscita del nostro primo album, nel 2007. E fu il nostro primo grosso confronto con materiale originale. Appena pubblicato l’esordio, ci chiesero di elaborare questa colonna sonora, quindi ci confrontammo seriamente con un progetto interamente scritto da noi. Da quel momento, grazie alle musiche scritte pochi mesi dopo per il documentario “Eurocime!”, dal quale venne tratto il nostro secondo album, ci rendemmo conto che in effetti potevamo puntare molto anche su materiale nostro. E che probabilmente poteva essere considerato credibile tanto quanto gli originali dell’epoca, permettendo di presentarci al pubblico con uno stile personale e riconoscibile. L’idea di concentrarci sempre più su composizioni autografe venne pertanto soprattutto a seguito di “Said” ed “Eurocrime!”.
Fedeli agli originali, ma con personalità…
A molti piaceva il fatto che a volte restavamo decisamente fedeli agli originali e a volte riuscivamo a decontestualizzare. Ad esempio “L’indagine” di Morricone è originariamente orchestrale, ma noi l’abbiamo rifatta per quartetto rock. Oppure in alcune composizioni di Micalizzi abbiamo sostituito con la chitarra un tema eseguito con la tromba. L’approccio resta sempre filologico, e gli appassionati del genere hanno apprezzato alcune nostre riproposizioni perché erano molto simili agli originali: il fatto che oggi qualcuno riproponga quei temi con passione e cura dei dettagli ha interessato un bel po’ di persone. In occasione di “Eurocrime!” un regista americano ci chiese materiale musicale inedito per un documentario, nacque così lo “Stile Calibro”. Andando avanti nel tempo la percentuale di materiale nostro sul totale è andato sempre aumentando. Nel secondo disco c’erano otto pezzi nostri su dodici, nel terzo dieci su dodici.
Fino ad arrivare al recente “Traditori di tutti” che ha tutto materiale originale.
Sì, Ci siamo trovati a lavorare a una sorta di concept, giocando su un racconto di Giorgio Scerbanenco, dal quale non sono mai stati tratti film. Abbiamo pensato e scritto la colonna sonora di un film immaginario, basato su quel testo. Non ci aspettavamo di produrre così tanto materiale, ed invece in soli cinque giorni la produzione è risultata copiosa, e ci siamo ritrovati a dover fare una cernita su una quindicina di tracce. Questa volta non si è reso necessario il ricorso e cover, non c’è stato bisogno di ripescare materiale dai compositori del passato. Anche perché ci piaceva l’idea di lavorare all’idea di questo concept con composizioni esclusivamente nuove. Fare noi per intero la colonna sonora di un film che non esiste.
Quindi non solo cinema, ma anche letteratura nell’immaginario dei Calibro…
Questa volta abbiamo preso come spunto un libro, ma resta forte il collegamento con il cinema. Il cinema riveste sempre un ruolo centrale nel nostro immaginario. Noi continueremo a fare colonne sonore sia nostre che degli altri. Sicuramente nel prossimo disco ci saranno temi di maestri del passato, perché è una cosa che ci interessa e sulla quale intendiamo continuare a confrontarci e che ci consente di veicolare la nostra musica in un certo modo.
Nel nuovo disco c’è la novità, anche se già percorsa sporadicamente in passato, di introdurre dei vocalizzi. Quindi non più solo strumentali, ma anche la presenza delle voci.
In effetti, il vocalizzo lo abbiamo sempre utilizzato, basti pensare che uno dei nostri pezzi forti, che finì anche sul film hollywoodiano con John Malkovich, “Convergere in Giambellino” (sul secondo album, ndr), aveva il bom-bom-bom-bom-bom. In questo disco, “Traditori di tutti”, abbiamo utilizzato la voce di Serena Altavilla, la strepitosa cantante dei fiorentini Blue Willa, che ha interpretato un paio di ruoli: in un pezzo simula degli orgasmi, ed in una altro fa dei cori. Si è prestata al gioco, sicuramente con lei faremo altro in futuro. Fra l’altro la trovo strepitosa quando canta in italiano.
Meglio di quando canta in inglese coi Blue Willa?
Il progetto Blue Willa è una figata, un progetto compiuto che funziona molto bene, mostruoso anche nella dimensione live. Abbiamo già fatto con lei una parte dello spettacolo sul cinema del brivido, una retrospettiva sul cinema giallo e horror, si chiamava “Indagine sul cinema del brivido”, dove lei cantava un paio di pezzi, e su un brano di Mina venne giù il teatro. E’ pazzesca.
Si stanno creando due correnti di pensiero: alcuni ritengono che per sfondare all’estero sia meglio cantare in inglese, altri che per raggiungere meglio la platea di casa nostra, per far arrivare meglio il tuo messaggio, sarebbe più efficace cantare in italiano. I Calibro 35 hanno scelto una terza via, lo strumentale. Ritieni che questa scelta possa rendere più internazionale la vostra musica?
Non essendoci un idioma nella nostra musica, in effetti potrebbe essere più facilmente veicolabile oltre i confini nazionali. L’esportabilità è insita nel Dna dei Calibro 35, ma non è un aspetto pianificato a tavolino, non è che decidiamo di non mettere le parole per vendere dischi in Cina o in Giappone. Il discorso è che a noi interessava la musica strumentale, anche perché siamo tutti e quattro musicisti, e nessuno di noi è un cantante. Semmai dovessimo fare dei pezzi cantati, come fra l’altro è già accaduto con “Tutta donna” e “L’appuntamento” (entrambi nel primo album, con le voci rispettivamente di Georgeanne Kalweit e Roberto Dell’Era, ndr), essendo degli episodi unici, potremo tranquillamente suonarli all’estero in italiano, e caratterizzerebbero in maniera forte il fatto di essere un progetto italiano che propone un pezzo in italiano, perché in quel caso è importante farlo in italiano. Se l’atteggiamento è in questi termini, diventi automaticamente internazionale, perché non può sembrare strano se una band di nazionalità italiana ad un certo punto propone una canzone nella propria lingua.
Forse proprio per questi motivi suonate tantissimo all’estero, molto di più di quanto accada alla media delle indie-band del nostro paese.
Certo che essere strumentali ci apre un po’ le porte, riusciamo a funzionare bene ovunque, non posso contraddirti. Siamo stati diverse volte negli Stati Uniti, siamo stati in Brasile, nei Balcani, in Turchia.
Ma quando vi trovate in questi posti, vi conoscono? Qualcuno conosce già la vostra musica?
Ovviamente prima che riesci a diventare familiare ci vuole un po’ di tempo, soprattutto in un posto grande come gli Stati Uniti. Però ci siamo sempre mossi in maniera molto mirata. Ad esempio negli Usa non abbiamo mai fatto il classico tour coast-to-coast che intraprendono molte band europee per cercare di farsi conoscere in maniera capillare. Abbiamo scelto di darci un’organizzazione più mirata, puntando su situazioni aventi una grossa risonanza massmediatica. A New York ci invitarono ad uno dei festival più imponenti della East Coast, a Los Angeles a un altro superfestival sulle eccellenze italiane. In quel caso l’evento veniva trasmesso da una emittente radiofonica importante, ed un migliaio di persone che ci avevano ascoltato in radio vennero poi a vederci in un’altra data. Anche in Brasile ci hanno invitati e spesati completamenti, perché erano molto interessati al nostro progetto. Abbiamo sempre cercato di suonare nei posti giusti. Siamo stati in Texas al South By SouthWest, dove nacque anche una collaborazione con una label americana.
E l’Europa?
Ora stiamo battendo molto sull’Europa. Saremo presto in Spagna ed abbiamo consolidato la nostra presenza nell’area dei Balcani. In Turchia, a Istanbul in particolare, abbiamo una scena che ci segue con grande interesse.
Entrare in Inghilterra è più dura?
Il mercato inglese è un po’ più difficile, c’è una competizione altissima, ma ora con la nuova label può smuoversi qualcosa. Ci siamo un po’ cercati a vicenda, e loro hanno possibilità di sbocco significative in Gran Bretagna ed in Giappone. Record Kicks, non sono grandi, sono una piccola etichetta, abbiamo scelto di lavorare con loro perché sono molto mirati, poche cose ma fatte molto bene. Ora suoneremo a Londra, abbiamo delle buone prospettive.
Perché in Italia non si riescono a organizzare dei festival così importanti come quelli negli States da te citati?
In Italia avevamo Arezzo Wave, che inizialmente era di livello internazionale: palchi giganti, una bella scena che si era creata intorno, con band che andavano dagli emergenti al mainstream. Sai, non credo che queste cose in Italia non si facciano perché ce ne freghiamo o non siamo in grado. Il problema è che tutto ciò che ruota intorno alla musica viene sempre visto come molto amatoriale, come se le attività che ruotano intorno alla musica non siano dei lavori veri e propri. Il mercato italiano è minuscolo rispetto al mercato inglese, tedesco o francese, ha numeri davvero ridicoli. Quando i numeri sono così piccoli ed i fondi destinati alla musica sono pressoché inesistenti, come fai? E’ molto difficile riuscire a fare cose davvero forti e originali.
In Spagna però non sono così numericamente diversi da noi, eppure hanno il Primavera…
E dentro ci trovi di tutto, dall’elettronica alle avanguardie noise. Ma sai, abbiamo delle situazioni interessanti anche qui in Italia. Ad esempio in estate il Miami, magari è un po’ autoreferenziale, in quanto un po’ troppo ripiegato sulla scena indie, però tutto sommato è un festival che funziona, ogni anno diventa sempre più grande, mantiene delle politiche sostenibili, viene organizzato con dietro una forte passione per la musica, per far sì che la musica dal vivo diventi un’abitudine.
Ci sono comunque rassegne che cercando di tracciare una strada?
Sì, anche se a volte ci siamo ritrovati in situazioni un po' strane, come nel caso del Nova Rock, in Austria, dove abbiamo suonato qualche anno fa in una situazione molto importante, ma forse troppo generalista. Nella stessa serata c’eravamo noi, perfetti sconosciuti al secondo disco, poi c’era Slash con i nuovi Guns 'n' Roses e c’erano i Rammstein. Tutto bello, c’era lo spazio giusto. Insomma, credo che il problema sia il mercato troppo piccolo e l’assenza di fondi. Però mi pare di riscontrare che la voglia di fare cose importanti ci sia.
Avete avuto tante collaborazioni in passato. Ora c’è un sogno nel cassetto?
Non abbiamo il mito di qualche personaggio particolare. Ci riteniamo degli artigiani. Abbiamo molti progetti possibili. Ad esempio, ci piacerebbe fare un disco alla Beastie Boys con qualche rapper americano di quelli fighi. Poi ci piacerebbe fare una colonna sonora per Quentin Tarantino, cosa che fra l’altro ci consigliano praticamente tutti, una cosa che in molti percepiscono come pressoché ovvia.
Non sai se Tarantino abbia mai ascoltato qualcosa dei Calibro?
Credo di sì. Nel film "Django Unchained" hanno usato materiale di Bacalov, e c’è il pezzo di Elisa che è gestito dalla Sugar. Io personalmente ho dei rapporti costanti con la Sugar, e so per certo che sono riusciti a far avere un disco dei Calibro a Quentin.
Ma non hai un idolo di gioventù che sogni di coinvolgere in un vostro disco?
Sono cresciuto ascoltando un po’ di tutto. Da Keith Jarrett a Jimi Hendrix, personaggi non proprio raggiungibili. Ci piacerebbe fare più progetti possibili, Magari qualcosa con un’orchestra.
Facciamo un po’ di ordine fra i vostri side-project?
Enrico ha i Der Maurer, ma soprattutto arrangia moltissimi dischi di altri artisti, ultimamente ha scritto le partiture per “Fantasma” ed è stato in tour con i Baustelle in qualità di direttore d’orchestra. Luca ha gli Zeus!, con i quali ha realizzato finora due album, Fabio suona con Niccolò Fabi. Per me il progetto principale è i Calibro, sin dal momento in cui sono nati: è il progetto nel quale credo di più. Poi mi capita di produrre dischi, recentemente ho fatto una cosa con Filippo Timi, realizzo colonne sonore, e ho in ballo un programma televisivo che potrebbe andare in porto. Insomma, ognuno ha i propri sfoghi.
A proposito di Baustelle: “Fantasma” ti è piaciuto?
Non l’ho ascoltato.
Ma come! Enrico ci ha arrangiato tutte le partiture?
Beh, è stato un progetto suo, non mio…
Dai, non avete la curiosità di ascoltarvi reciprocamente?
Eravamo in tour come Calibro, e ho avuto occasione di ascoltare delle basi strumentali e orchestrali prima che ci fossero aggiunte le voci. Diciamo che prima delle voci lo trovavo più interessante. Comunque i Baustelle li stimo molto, però diciamo che “Fantasma” non è esattamente il mio panino preferito. Loro son bravi, il progetto è molto saldo, ma non è esattamente il mio genere.
Riuscite agilmente a coniugare tutti questi impegni così diversi?
Facilmente no, ma considera che i nostri dischi spesso escono fuori da session di cinque o sei giorni. Fermo restando che Calibro 35 è il progetto principali per tutti noi.
Qual è lo stato di salute della scena indipendente italiana?
Faccio davvero fatica a definire e a circoscrivere una scena indipendente, perché non ci sono i numeri. Pensa che una band come la nostra è corteggiata da tre major, una situazione impensabile fino a sette o otto anni fa.
Come mai? Forse perché riconoscono la vostra bravura?
Noi siamo musicisti/performer, ma ci smazziamo anche molto lavoro di contorno, quello che si svolge fuori dal palco, che significa stare su Facebook e sugli altri social network, farsi promozione da soli, mantenere un mare di contatti, sviluppare nuovi progetti, gestire il sito, tutte una serie di azioni che se non le fai bene non riesci a stare in piedi. In pratica si creano delle piccole entità, vere e proprie piccole aziende, alle quali le major guardano con attenzione.
Interessante: spiegaci meglio…
L’autogestione, soprattutto sul web, è il futuro, anzi è il presente. Le piccole label ci si muovono già discretamente bene. Le grandi etichette stanno cercando il modo per entrare in questo giro. Altrimenti quando sarà esaurito il filone del rap e dei talent, quelli che ora producono più denaro, si troveranno con un pugno di mosche in mano, e in ritardo rispetto ai potenziali concorrenti. Ed allora i più lungimiranti stanno guardando con attenzione a quelle realtà come la nostra, che con passione riescono a fare molto da soli, ad autogestirsi. Se tu fai molto da te, per la label potrebbe configurarsi un potenziale risparmio su alcune attività…
Quali sono le band che vi piacciono di più? Cosa state ascoltando in questo periodo?
Ascoltiamo di tutto. A fine concerto ci lasciano molti demo e noi li ascoltiamo. La riteniamo una cosa gratificante. Fra gli internazionali stiamo ascoltando tantissimo il Fela Kuti dei primi anni 70. Fra gli italiani il bolognese Federico Fantuz con il suo progetto strumentale “Music For No Movies”. Poi divoriamo i prodotti dell’etichetta Daptone, una label americana che fa cose retrò, con un’estetica molto primi anni 60, con dentro artisti tipo Sharon Jones e Dap-Kings. Siccome siamo stati campionati in un pezzo rap, ci siamo anche molto incuriositi verso la scena hip-hop contemporanea.
E’ notizia di questi giorni che avete un videoclip nominato al PIVI.
Sì, ci fa piacere, abbiamo già vinto in passato il PIMI, sono riconoscimenti importanti.
La birra è terminata, dalla cucina ci avvertono che gli spaghetti sono pronti, buon concerto ragazzi.