› OoopopoiooO: Elettromagnetismo e Libertà // da DPI n. 93
[...] missione compiuta: la musica seria non è mai stata così divertente (Ossydiana Speri)
***
KETTLE OF KITES - Arrows (autoproduzione, 2019)
folk-rock
Fondati tra Glasgow e Genova dal cantautore folkish Tom Stearn e completati da Marco Giongrandi, Pietro Martinelli e Riccardo Chiaberta, Kettle Of Kites debuttano con “Loan” (2015) e quindi approdano alle dense, indaffarate, quasi nevrotiche orchestrazioni di “Arrows”. Prova ne sono la cantata luminescente con arpeggi “frattali” di “Supernova” e la cantata spiegata con fischioni ventosi e i tocchi metafisici dei tardi Talk Talk di “Caves”. Altre analogie subliminali stanno negli attacchi: ad impulsi elettronici quasi stocastici quello di “Lights Go Out” (con finale dinamitardo), a toni staccati a mo’ di allarme industriale quello di “Oliver” (la più composita, quasi da musical); la loro versione più terrestre è “Orchid”, un flamenco scattante con progressioni chitarristiche e nuova chiusa al TNT. Stearn, voce, chitarra e midollo spinale del combo, rinsalda poi la sua anima di putto folksinger in un gioiello filologico-ancestrale al dobro come “In The Dome” e in una melodia immacolata portata all’apoteosi come “Giants”. Concept ispirato alla “psychohistory” di Isaac Asimov, il conciso disco s’impernia sulla variazione imprevedibile, la rapida modulazione, anche una certa volubilità che porta talvolta a chiudere i pezzi con frettolosità, eppur eseguito, paradossalmente, con la massima sicurezza, un polso fermo invidiabile. Produzione scintillante, suono variopinto. Inclito, nel suo ingombro, lo Stearn canoro, una fusione a caldo di Rufus Wainwright, Robin Pecknold e Paul Simon. Nove scatti di Carlotta Cardana nel booklet. Registrato a Melbourne (A Pocket Full Of Stones) (Michele Saran, 7/10)
FREEDOM CLUB - Freiheit (LFA 27 Zeitgeber, 2019)
synthpunk, no wave, noise
Ribaltare i luoghi comuni sui sedicenti paradisi della middle class tenta un animo punk come poche altre cose: dalle spiagge di Hermosa Beach vandalizzate dai Black Flag alla boriosa Orange County messa a soqquadro dai Social Distortion, svelare il marcio sotto il tappeto incrostato di sangue è da sempre una prelibata goduria da teppisti. Tanto i Freedom Club quanto la loro label LFA 27 Zeitgeber provengono dalla ridente Riccione, che nella loro ottica si rivela però un inedito covo di malessere e perdizione, aggiornando l’anti-retorica da “isola infelice” di ferrettiana memoria. La “libertà” rivendicata dal nome della band e dal titolo dell’esordio è anch’essa di matrice punkeggiante: quella di delirare in un contesto che esige compostezza e rispetto. “I’m Stupid”, afferma pertanto e con orgoglio l’omonima traccia di apertura, che musicalmente prende le mosse dai Tuxedomoon di “No Tears” ma filosoficamente parte da “Cretin Hop” e arriva a “Mongoloid” (preferendo, però, la sinistra ingenuità dei Ramones alla demenzialità apocalittica dei Devo). La scheletrica formazione in duo (Vittorio Batarra alla chitarra e Francesco Gualtieri al synth e alla drum machine) potrebbe far pensare ai Suicide, ma la vera base d’atterraggio è da qualche parte tra Screamers e DNA. Dal canto suo, l’angosciata voce del Batarra (un incrocio tra Adrian Borland e Jamie Stewart) non si fa problemi a deturpare il deturpabile, in un rudimentale psicodramma che in brani come “OAAAAAAA” tocca vertici di aberrante schizofrenia. Chiude in bruttezza, come da programma, una devastante “Romagna Tua”, un po’ la loro “Oh! Battagliero”, deformata dalla stessa grazia Residents-iana con cui gli Hi-Fi Bros si accanirono su “Strangers In The Night”. Le cartoline dalla riviera non erano mai state rispedite al mittente con tanta intransigenza. Con ogni probabilità, l’album più sgradevole dell’anno (Ossydiana Speri, 7/10)
FIORI - L'Eleganza (Scatti Vorticosi Records, 2019)
alt-rock, hardcore punk
"Il talento nel suonare/ non è affatto necessario/ far suonare chi ha talento/ è piuttosto necessario". Basterebbe questa frase per riassumere l'attitudine diretta e stradaiola di questo progetto formato da tre musicisti torinesi (Sandro Serra, Luca Pisu, Giuseppe Azzariti) tutti già indiscutibilmente affermati nei rispettivi gruppi di provenienza (Fratelli di Soledad, Titor). Si dà il caso quindi che i Fiori il talento nel suonare ce l'abbiano per davvero, e che lo rendano evidente senza troppi fronzoli, giri di parole, o bisogno di apparire. Undici tracce di sano alt-rock al gusto hardcore punk, che fa tesoro sia della lezione dei Fugazi sia di quella degli Husker Du, per arrivare a un risultato che non ha nessuna pretesa di innovazione ma è decisamente efficace in termini di impatto e sincerità. Qua e là affiorano spunti chitarristici di matrice Foo Fighters ("Come Dio", "Cane Mangia Cane") e qualche variante stoner (l’intro di "Cose piccolissime"), ma è con "Animali Da Riciclo" che la band sembra raccogliere al meglio le forze, grazie alla robustezza della struttura ritmica e a un finale che sfocia in maniera piuttosto naturale nella disperazione. Chiudono il disco due cover riuscite ("Sotto controllo", "Intorno") dei So:Ho, band torinese nella quale lo stesso Serra ha militato (anche in qualità di autore) a inizio anni duemila (Paolo Ciro, 7/10)
HUMAN COLONIES - Cloudchaser And Old Songs (2019, MiaCameretta, Lady Sometimes)
shoegaze, psych-rock
Si rinnova la partnership fra MiaCameretta e Lady Sometimes Records per supportare il nuovo Ep degli Human Colonies, qui per confermarsi abili come pochi altri nel percorrere i medesimi sentieri nu-gaze ben rappresentati a livello internazionale da band quali Nothing e DIIV. A tratti si pongono più prossimi ai Dinosaur Jr. che My Bloody Valentine (“Body”, “S. J.”), ma resta la band di Kevin Shields il faro che illumina la scrittura del trio. Quattro tracce che arrivano ad appena un anno di distanza da “Midnight Screamer”, a sottolineare il momento di grande vitalità dei ragazzi. “Cloudchaser” è il brano portante, nonchè l’unico inedito. Gli altri tre, come suggerito dal titolo dell’Ep, sono rielaborazioni attualizzate di tracce già comparse nei primi demo del gruppo, ai quali viene così assicurata una seconda opportunità. Un dischetto che conferma quanto in campo shoegaze le giovani formazioni italiane abbiano ben poco da invidiare ai più altisonanti nomi d'oltrefrontiera. Musiche per osservarsi le scarpe, ma anche per guardarsi dritti negli occhi, senza paura (Claudio Lancia, 7/10)
DUE - Due (autoprodotto,2019)
electro-pop
Un nome semplice per un concetto tanto immediato sulla carta (canzone d'autore + elettronica) quanto ostico da rendere al meglio in termini di coerenza stilistica. Stefano Giovannardi non è nuovo a questo genere di imprese, avendo già stravolto con i suoi synth le "Canzoni Perse" di Cesare Malfatti, ma sceglie stavolta l'amico di lunga data Luca Lezziero (anch'egli già collaboratore di Malfatti) per allargare lo spettro della sperimentazione. Laddove in "Canzoni Perse" l'utilizzo della tecnologia preparava di volta in volta (e a posteriori) la veste più appropriata per un corpo sonoro dalla forma acustica, "due" raccoglie la sfida anche in direzione opposta, permettendo alla voce Lezziero di inserirsi tra le pieghe di questo complesso mondo di oscillatori in ben quattro tracce delle otto totali. La fotografia d'insieme mostra un equilibrio raggiunto con delicatezza e abilità, a cominciare dal singolo "Argilla" o dalla successiva "Impronte", sintonizzate su coordinate personali che evidenziano un Lezziero talvolta audace e talvolta messo alla prova da cotanta sinteticità in odor di John Foxx e Gary Numan. Altri episodi percorrono strade più vicine a Battiato ("Per dirsi l'amore") o al Battisti dell'ultimo periodo ("Tutto questo (senza di te)"), senza mai perdere la rotta di un percorso autoriale che ha margini di sviluppo sicuramente interessanti (Paolo Ciro, 7/10)
LEANDRO - Fossimo già grandi (Bunya, 2019)
songwriter
Il debutto di Leandro, “Fossimo già grandi”, sembra una raccolta di saggi di produzione ricombinante. L’unica ospitata, Eugenio In Via Di Gioia, che dovrebbe portare pienezza di suono e forza dirompente, partorisce al contrario l’unico episodio fiacco del breve album: il soul-pop di “Emancipazione”. A partire da “Saprai farti valere”, svelta ballata acustica sovrastata da una solenne bruma post-shoegaze e poi incalzata da fremiti boliviani, le canzoni sembrano acquisire dapprima vigore e preziosismi. “Tuo fratello”, ribollente saltarello lunare, si fregia di arrangiamenti stratificati, tra vocali stroboscopiche, brezze di tastiera e, al di sotto, un carillon sepolto ma ben luccicante. La scomposizione cubistica Beck-iana di “Per mano”, culmine estetico del disco, riesce con prodigio a preservare tiro e aggressività. Dove invece il clima si rassegna nel crepuscolarismo viene anche meno la convinzione: più tradizionale suona la corale e marciante “Una casa sopra un albero”. Sincopata drum’n’bass e resa dotta da un pianoforte post-classico Radiohead-iano, anche “Il mondo alla rovescia”, pur con queste buone intenzioni, appare indebolita da un’indolenza da musica leggera italiota. Stesso discorso vale per la seconda parte di “E’ meglio”, verbosa e languida, laddove la prima, tra droni vocali, tamburi sparuti e figure pseudo-minimaliste delle tastiere, fa da introduzione al lied apatico che fa da chiusa, “Solo me stesso”, tutta presa a volgere una riflessione nostalgica a elegia ultraterrena. Da un giovane cantautore del torinese (classe ’94; primo singolo di rodaggio “Tempo da omicidi”, 2018), una breve operina a quattro: lui, più tre produttori (Fabio Rizzo, Francesco Vitaliti e Paolo Bertazzoli) che sanno quello che fanno. Non soltanto interpretano, pur con misti risultati, il mood di confronto (con sé stesso, la propria coscienza, l’altro) diramato dalle liriche dell’autore, ma gli donano pure una magica vibrazione d’impulsi ritmici. Uno dei migliori figliocci dell’Iosonouncane di “Die” (Michele Saran, 6,5/10)
FRANCESCO INCANDELA - Flow vol. 1 (Tip Off, 2019)
prog-rock
Palermitano, il violinista Francesco Incandela si diploma e laurea nel suo strumento prediletto tra 2006 e 2009, e subito si prodiga in numerosi progetti, da quelli più estemporanei a quelli più stabili, come il collettivo Cordepazze e l’ensemble Sharper String Quartet, entrambi di sua ideazione. Angelo Di Mino, con cui fonda gli Hysterical Sublime impreziosendo le soundscape del loro primo “Colour EP” (2014), e Simona Norato, per la quale è intervenuto nel suo “Orde di brave figlie” (2018), restituiscono il favore quando Incandela si dedica infine anche a una sua discografia solistica tramite le estese composizioni di “Flow vol. 1”: il primo produce, la seconda intarsia qualche brano con il proprio talento vocal-strumentale. Al folk saraceno sono improntati i 7 minuti di “Camel Loop”, appunto un loop di corde pizzicate a imitare oud, lira, mandola, quindi un accenno di (debole) melodia, quindi l’approdo a un florilegio di contrappunti d’archi, un giardino armonico in fiore. “Gadir” suona del tutto analoga: dapprima costruisce per blocchi in successione il riff come in certe pièce di Steve Reich, quindi di nuovo apre una parentesi più terrena folk-blues e di nuovo un’oasi contrappuntistica, che comunque stavolta frutta anche un riff acid-rock distorto. Questa cellula dà l’indole psichedelica alla più breve “Oversound”, coronata da un concertino con fragore, respiro alieno e subliminali vocalizzi in sottofondo, performance di Norato. Ancora Norato, ma stavolta all’elettronica, scolpisce la bella ambience pittorica William Turner-iana che apre i 9 minuti di “Drumatic”, prima che di nuovo tutto si lanci nella solita routine di pizzicati in loop (a parte un discreto concertino per violino sdoppiato). “Dream 70” si apre con nuovi droni impressionistici, ma il grosso del pezzo lo dà un crescendo post-rock rutilante di violino moltiplicato, ben ornato e retorico quanto un lieto fine hollywoodiano. Il lato migliore del disco sta nel celato dondolio tra ripetitività e concatenazione; a furia di loop station e pizzicati l’autore trova uno spunto e lo riprende nel brano successivo, e così via. Pur senza vera visione, il procedimento, il suo “Flow”, gode della dotta caratura della musica colta. Qualche problema: leggera disorganizzazione, timidezza nell’improvvisazione, una sezione ritmica un po’ inessenziale. Tecnica e sciolta maestria a compensare. Nel solco tracciato da Cabeki. Copertina: scatto della serie “The Ebb Tide” del compaesano Pietro Motisi (Michele Saran, 6/10)
ANDREA ROMANO IL FRATELLO - La famiglia non esiste (I Dischi Del Minollo, 2019)
songwriter
Già membro di Albanopower e Matildamay, collaboratore di Mauro Giovanardi, Colapesce e Carlo Barbagallo, e creatore di colonne sonore, il siracusano Andrea Romano esordisce solista come leader, ideatore e autore di una sorta di supergruppo, Il Fratello (Cesare Basile, Toti Valente, lo stesso Giovanardi e altri) per un omonimo “Il Fratello” (2013), un diario confessionale sfocato ma arrangiato con levità (“Per chi ne avrà”, “E’ vero che per te”, “Tra i lacrimogeni”). Il seguito “La famiglia non esiste” fa compiere un certo scatto a quel moniker che Romano ora stringe maggiormente sulle proprie esigenze, in primis in un complesso di supporto in cui svetta proprio lo stesso Barbagallo. Questo duo sotto mentite spoglie partorisce così viepiù canzoni domestiche, comode e sicure nel loro baustellismo, “Sexy Siracusa”, “Estate di ghiaccio”, “In pieno caos”, “La stazione dell’amore”, etc. Sempre sentimentale, il lento “In quel parco di stelle” nella sua ipertrofica indole psichedelica indica però un’altra via (l’eccezione, non la regola del disco): quando Romano eleva l’impegno delle sue liriche, anche Barbagallo alza la posta della ricercatezza d’arrangiamento. “Nel bere e nel mare”, in particolare, si trascina in una concitata andatura noir-jazz-thriller per culminare con una jam incrociata di due sax. Ancora col jazz, fiati e ritmo sincopato, sperimenta un’altra canzone-sceneggiata, “La giovane coppia”, ma gli esiti stavolta sono ben più piacioni. Registrato nel 2016 e poi posticipato, è un disco più di abbellimenti che di canzoni: i primi si sentono pure troppo, le altre non di rado vegetano nell’indecisione. Non sempre il canto di Romano, docile e afono nella tradizione di Mario Barbaja e Cesare Malfatti, si applica alla baldanza del suono. Questo quasi-concept sulle relazioni in dieci declinazioni ha comunque il merito - un tutto superiore alla somma delle parti - di rendere una nevrosi agrodolce sottilmente eclettica e di non comune soavità. Cameo di Marcin Oz, basso dei Whitest Boy Alive (è la voce al telefono in chiusa) (Michele Saran, 6/10)
DHEITI - Rebirth Ep (autoproduzione, 2019)
songwriter
Nome d’arte della cantantessa e cantautrice Gemma Conforti, calabrese di nascita e torinese d’adozione, Dheiti debutta con un EP di quattro pezzi, “Rebirth”. Ogni canzone espone una credibile ipotesi di carriera di qui a venire. La sola “Loser” incorpora la chanteuse r’n’b sofisticata alla Sade (strofa) e la shouter espansiva alla Meredith Brooks (ritornello). Coronata da un assolo David Gilmour-iano e da un piano tamburellante da tango, “Feel” non sfigurerebbe in uno dei tardi dischi di Kate Bush. Tramite una cover, “A Long Walk” di Jill Scott, Conforti si permette un’altra sterzata: il funk dei Red Hot Chili Peppers (pur in versione melliflua da cocktail-lounge), mentre lei si fa vamp come non mai. “Bud In Bloom” dà infine luogo alla ballata disperata in stile Sheryl Crow, introdotta da una soffusa elettronica in stile theremin e chiusa una convoluta elettronica che, prima di sfumare nel nulla, sembra assurgere a incipit di poemetto d’avanguardia. Scritto da Conforti, arrangiato dall’amico Sergio Bertolino (tastiere, già leader degli Enjoy The Void), completato da Domenico Anastasio (chitarre), e una sezione ritmica, Tony Guerrieri (basso), Francesco Magaldi (batteria), reclutata al BAM! di Sapri. Prova ancora ammorbata d’ingenuità, ma scorrevole, coinvolgente, eseguita e prodotta con robusta passione e qualche nascosta spruzzata di originalità. Uscita digitale su chiavetta Usb a forma di 33 giri (Michele Saran, 6/10)
CIULLA - Canzoni dal quarto piano (Black Candy, 2019)
pop
Trascorsa la militanza nei Violacida (due album, 2013 e 2016), Antonio Ciulla esordisce a proprio nome (cognome) con una raccoltina di proprie intime “Canzoni dal quarto piano”. Fabio Grande (I Quartieri) agli arrangiamenti e alla produzione artistica le organizza via via secondo l’elettronica, il soul-pop elettronico di “Stupidi argomenti” e una “Il mio covo” colta tra il Battisti elettropop e il Ryan Paris di “Dolce Vita”, oppure costruendo armature dub in “Ventisette anni”, o ancora, quasi con schizofrenia, secondo litanie caricate di tastiere, “Da quando hai perso la testa”, fino a lagne britpopprossime ai Lunapop, “Fanali”. Nemmeno “Temporali”, che cita la “Strawberry” Beatles-iana, convince appieno; solo in “Calafuria ‘90” emerge lo spirito del vero cantautore (De Gregori-iano, per l’occasione) integrato appieno da una melodia da cantico ecclesiale. Opera prima in co-produzione con la solida Costello’s. C’è un clima ma l’interpretazione è spesso tremolante. Mancano le canzoni: un gruppetto di melodie evanescenti, amene barchette di carta trascinate dalla corrente, schiantate infine nelle cascate dell’it-pop. Ciulla (Lucca, origini sicule, classe 91) ha fiuto, e un’autoanalisi che pecca solo di poetismo. Mastering: lo scafato Giovanni Versari (Michele Saran, 5/10)