Opeth

Opeth

Dannazione e liberazione

A cavallo tra due secoli, gli Opeth di Mikael Akerfeldt si sono rivelati una delle più significative e apprezzate realtà del metal progressivo e anche di quello estremo. Per poi voltare pagina e dedicarsi all'amore per il prog anni 70

di Alessandro Mattedi

Con oltre un milione e mezzo di dischi venduti in tutto il mondo e numerosi premi e  riconoscimenti, gli svedesi Opeth sono una delle formazioni metal scandinave più celebrate di sempre. Il loro grande merito è quello di aver coniugato, con una personalità e una creatività uniche, le strutture articolate e cerebrali del progressive-metal e i ritmi aggressivi e gli attacchi pesanti del death-metal. Il tutto senza mai rinunciare a un elegante gusto melodico che prevede anche numerosi inserti acustici, interventi di tastiera/organo (a un certo punto il gruppo troverà linfa vitale nell'uso di strumenti come hammond, moog o mellotron) e digressioni soft, figlie tanto del progressive rock che della tradizione folk-rock. In entrambi i casi l'ispirazione verrà sia dalle note scene anglosassoni che da quella locale svedese. 
Questa nicchia occupata dagli Opeth nel mondo metal è stata poi abbandonata negli anni Dieci del nuovo secolo, in cui la musica del gruppo si è tramutata un po' a sorpresa (anche se qualcuno se lo aspettava) in un revival affettuoso e nostalgico del prog anni 70, che ha suscitato forti controversie tra pubblico, stampa e critica. Ma ci arriveremo per tempo.
L'unione di chiaro e scuro vede come grande protagonista, oltre alle componenti strumentali di primissimo piano delle formazioni che si sono succedute, la versatile voce dell'uomo-gruppo e polistrumentista Mikael Åkerfeldt (letto: Ocherfelt), capace di alternare un canto pulito soave e delicato a un ruggito catarroso e oltretombale ("growling"). Anche le atmosfere conseguenti rispecchiano un delicato equilibrio tra anime contrapposte, sposando tra loro con sorprendente naturalezza i toni immaginifici e vellutati di certo progressive e quelli oscuri e feroci del metal estremo, nonché umori più spettrali, il tutto senza mai suonare sconnesso o incoerente (a parte qualche ingenuità degli esordi). Soprattutto i testi si rivelano un caleidoscopio di espressioni differenti: meditabonde e riflessive, oppure decadenti, funeree se non depressive, "gotiche" nel senso ottocentesco del termine. Piccoli drammi personali ed ermetici, ma anche avventure fiabesche, sognanti, di tanto in tanto malinconicamente dolciamare. 
Luce e oscurità, violenza ed eleganza, quiete e conflitto, desolazione e passione, si fondono costantemente nella musica degli Opeth.

Gli esordi: grezzi e ambiziosi

Mikael Åkerfeldt, come anticipato, è la mente determinata e fantasiosa degli Opeth, vero e proprio padrone del progetto che ha visto nel corso degli anni alternarsi numerosi validi musicisti alla sua corte, lasciando spesso rapporti positivi - ma anche qualche screzio - sul piano umano. Sue sono tutte le decisioni finali, dai nuovi ingressi in formazione alle direzioni intraprese, gli intenti artistici, il linguaggio adottato. Ma vi sono stati addirittura membri esterni al gruppo che sono riusciti a imprimere il loro segno, con consigli tecnici e teorici molteplici che in più di un'occasione hanno permesso al gruppo di rivitalizzare il proprio stile o battere nuovi sentieri creativi: su tutti, Dan Swanö (Edge of Sanity), Steven Wilson (Porcupine Tree) e Jonas Renkse (Katatonia).
Nota biografica curiosa: Åkerfeldt, però, non è affatto il fondatore del gruppo, titolo che spetta invece a David Isberg, che creò il nucleo iniziale degli Opeth a Stoccolma nel 1989, prendendo ispirazione per il nome da un romanzo fanta-storico di Wilbur Smith, "L'uccello del Sole" (in cui è menzionato Opet, immaginario insediamento perduto fenicio in Sudafrica il cui nome vuol dire "Città della Luna").

In questa fase primigenia gli Opeth erano concepiti semplicemente come un gruppo death-metal come i molti che nello stesso periodo stavano prendendo piede nella capitale svedese (tipo Tiamat, Dismember, Entombed o i primi Edge of Sanity). Isberg chiese all'appena sedicenne, ma già talentuoso musicista, Åkerfeldt di unirsi al gruppo al basso, senza neanche avvisare gli altri membri (soprattutto quello che era già il bassista ufficiale!) scatenando una prima giravolta di conflitti e separazioni. Tagliando corto, dopo un paio di anni lo stesso Isberg se ne andò, perché disinteressato alla direzione che Åkerfeldt, giovanissimo ma carismatico e deciso, voleva dare al suono. Il gruppo non era formalmente sciolto, così quest'ultimo ne prese le redini in maniera totale, dedicandosi alla voce, alla chitarra e alla scrittura di tutte le canzoni. Accanto a lui erano intanto giunti come nuovi componenti dei giovani pezzi da 90: Peter Lindgren (secondo chitarrista), Johan De Farfalla (basso) e Anders Nordin (batteria), a dare una prima formazione stabile al gruppo.

Mikael Åkerfeldt era cresciuto metallaro - e anche collezionista. Come molti della sua epoca, aveva iniziato con i Black Sabbath e da ragazzino andava per i negozi di vinili a cercare qualsiasi cosa somigliasse loro in qualche modo. Raggiunta la maggiore età, vedeva con interesse il brutale death-metal che stava nel frattempo nascendo negli Stati Uniti e nella natia Svezia, due scene ciascuna con le proprie peculiarità; ma soprattutto era legato ai suoni più melodici dell'heavy-metal tradizionale di Iron Maiden e, soprattutto, Judas Priest. Era poi molto attratto dagli svizzeri Celtic Frost, con la loro seminale e avanguardistica interpretazione del thrash-metal che a metà anni 80 anticipava già molte sonorità tipiche del death-metal, del black-metal e anche del gothic-metal. Sono tutti nomi celeberrimi, ma accanto a loro vanno segnalati anche i misconosciuti Mefisto, band di culto nella scena underground svedese durata il tempo di qualche demo thrash/death, con dei tratti che avevano catturato immediatamente l'attenzione di Åkerfeldt. Così racconta in un'intervista: "Vendevo nastri, e il cantante che aveva formato gli Opeth, David, mi diede la demo dei Mefisto, 'The Puzzle'. Fino a quel momento mi interessava il death metal, ma non ne ero davvero rapito. Gruppi come gli Hellhammer erano brutali, e la brutalità mi piaceva, ma sentivo la mancanza di qualcosa. I Mefisto avevano un chitarrista che suonava introduzioni di chitarra classica, e gli assoli erano grandiosi, ma manteneva quella brutalità che cercavamo. Rimasi del tutto spiazzato. Per me 'The Puzzle' è il super classico del death metal scandinavo".
Questa scintilla è indicativa del fatto che per il giovane svedese le cose avrebbero preso una piega tutta nuova per quanto riguarda i suoi gusti musicali.

Con l'arrivo degli anni 90, approfittando del lavoro part-time in un negozio di strumenti, il vulcanico musicista nordico scopre anche il mondo progressive, rimanendo totalmente catturato dai classici e meno classici inglesi (King Crimson, Genesis, Yes, Jethro Tull, e poi ancora Gentle Giant, Wishbone Ash, Comus, ma su tutti va matto per i Camel). Non impiega molto tempo a scoprire con gusto anche i nomi continentali (dai francesi Magma ai nostrani Banco del Mutuo SoccorsoGoblin e Pfm), anzi, è uno dei più grandi cultori del prog internazionale, sebbene sia meno entusiasta di gran parte del cosiddetto neo-prog. Quando ce n'è l'occasione, chiacchierando nel backstage di un concerto o rispondendo alle interviste, Åkerfeldt non manca di suggerire o consigliare nomi meno noti di scene da portare sotto i riflettori e riscoprire. Raramente si può trovare una personalità tanto devota e appassionata verso un genere, fonte di informazioni con un bagaglio culturale immenso. Chiedete a Åkerfeldt di parlarvi di prog e passerà ore a raccontarvi dettagli e curiosità come solo i cultori più genuini sanno fare, in nome del suo amore sincero e generoso per il prog. Chiedetegli in particolare consigli sul prog scandinavo e gli si illumineranno gli occhi mentre vi citerà nomi per noi impronunciabili di grandi gruppi che per lui sono veri e propri classici da riscoprire, degni di figurare accanto a quelli inglesi che hanno contribuito a influenzare l'evoluzione della sua musica, oppure talenti più recenti da seguire con fiducia e stima: Kebnekaise, Trettioåriga Kriget, Samla Mammas Manna, oppure dai 90 in poi anche AnekdotenÄnglagård e Landberk; nomi importanti in Svezia ma fin troppo spesso dimenticati altrove. E uno dei suoi dischi preferiti è l'omonimo dei danesi Culpeper’s Orchard.

Per Åkerfeldt il progressive è innanzitutto libertà artistica, creatività, distinzione dalla massa, cambiamento. Se necessario è anche ironia, di cui è sempre ben fornito. Ma soprattutto è una serie di porte aperte a tante realtà diverse. Così racconta in un'intervista del 30 ottobre 2015 a Loudersound: "Sia in quanto chitarrista che come compositore, il prog mi ha permesso di capire che andava bene non fossilizzarsi su di un solo genere. Era più interessante mescolare un po' le cose, che è quel che iniziammo a fare con gli Opeth a quei tempi. Mi è sempre piaciuta la produzione calda che avevano all'epoca, rispetto a quelle delle grandi produzioni metal anni 80. Ascoltando il progressive rock ho anche iniziato a interessarmi ad altri tipi di musica come il jazz, la fusion e tutte quelle ficate, che riesco anche a sentire in alcuni di questi gruppi, tipo, 'ah, questo è come Miles Davis!' o roba del genere. Mi ha davvero aiutato a sviluppare i miei gusti musicali". E ancora: "Penso di essere un po' un ribelle in tal senso, ho sempre avuto un problema con ogni tipo di autorità e con la gente che dice che le cose debbano essere in un certo modo." E poi: "Sono un tradizionalista nell'altro senso, del tipo che se ascolto i Maiden non mi piacerebbe che facessero un disco techno. Ma per me è davvero un problema, perché non riesco a rimanere fermo a lungo su uno stile specifico. Alla fine, è questo che rende gli Opeth un gruppo progressive, nel vero senso della parola. Ci sono formazioni come noi, i Porcupine Tree e i Radiohead che semplicemente cambiano ogni volta, che è ciò che preferisco, a essere sincero. Mi va bene se ci definite un gruppo prog in questo momento, però forse la prossima volta saremo qualcos'altro. E immagino che sia proprio questo ciò che prog vuol dire!".

Con questo sfondo musicale alle spalle, Åkerfeldt nella prima metà degli anni 90 imposta la sua visione di quello che gli Opeth dovevano essere, dapprima scrivendo canzoni death-metal più lunghe, complesse e articolate della norma (per esempio "Into The Frost Of Winter" ed "Eternal Soul Torture", demo di 6 e 8 minuti marcissimi, sporchissimi e anche stereotipatissimi - sono degli Opeth ancora molto immaturi), poi iniziando man mano a scrivere lunghi brani poliedrici e a integrare sempre più le numerose influenze acustiche e atmosferiche fino a forgiare uno stile nuovo. Un processo ancora acerbo all'epoca, ma che si sarebbe man mano perfezionato in maniera lineare nel corso della carriera della band.

Il primo album Orchid viene inciso nel 1994, ma poiché l'etichetta Candlelight era ancora piccola e non molto ben organizzata, venne pubblicato solo nel 1995. I problemi organizzativi ed economici saranno un problema costante per i primi Opeth. La copertina mostra due orchidee di un rosa vivido e saturo su sfondo completamente nero, come a rappresentare l'eleganza nell'oscurità. La produzione è affidata a un amico di Åkerfeldt con cui egli stesso condivide molte cose: Dan Swanö, polistrumentista leader degli Edge of Sanity, altro gruppo death-metal che si stava avviando a coniugare il genere con il prog e poi altre sonorità in maniera aperta ed eclettica (nel loro caso Aor, heavy-metal e anche gothic-rock). I due si scambiano continuamente idee e suggerimenti, nonché consigli d'ascolto progressive per cui stravedono.
A causa dei limitati mezzi a disposizione, il suono scelto da Swanö nelle registrazioni ai suoi studi Unisound è ruvido e sporco, non ben colto per quanto riguarda la batteria (in particolare, il doppio pedale suona fastidiosamente sordo e copre le chitarre), e che mette pochissimo in risalto le parti vocali pulite (dal volume troppo basso nel missaggio). Il disco è introdotto dalle armonizzazioni di doppia chitarra di "In Mist She Was Standing", che rimandano al retaggio dell'heavy-metal britannico e che si dipanano poi per 14 minuti di duetti tra chitarra distorta e acustica, mantenendo un certo equilibrio tra aggressività e melodia. Le distorsioni tremolanti e le atmosfere ghiacciate mettono in luce fin da subito anche il contributo del black-metal in questi Opeth dei primi anni, in particolare ci sono punti di contatto con i concittadini Dissection, gruppo seminale per molti gruppi death svedesi dei primi anni 90 tanto da essere citato esplicitamente nei ringraziamenti.
La successiva "Under The Weeping Moon" invece inizia come uno spettrale ibrido tra prog, folk-rock e doom-metal, a metà tra Camel, Comus e Candlemass; poi sfocia in una cervellotica sfuriata deathster reminescente dei Morbid Angel e degli Atheist, salvo infine abbandonarsi a una coda arpeggiata dove subentra la voce pulita di Åkerfeldt. Per quanto ancora le composizioni denotino un po' di immaturità, si tratta di uno stile assolutamente personale, con pochi paragoni possibili, e in fondo proprio il suo suono ruvido e gli arrangiamenti dilatati riescono a catturare immediatamente le prime attenzioni della nicchia del metal scandinavo.
I due pezzi migliori sono probabilmente "Forest Of October", 13 minuti in bilico tra aggressività, desolazione e gelo, con un assolo al cardiopalmo che cita il meglio del technical-death-metal, e una commovente sezione centrale elettrica/acustica; e "The Apostle In Triumph", 13 minuti che iniziano come entusiasmante ballata folk che si trasforma poi in una marcia infernale speed/black degna dei Celtic Frost.
Non mancano pesanti rintocchi di pianoforte che si trasformano in virtuosismi romantici (la breve parentesi "Silhouette"); cavalcate di basso e chitarra reminescenti degli Iron Maiden se avessero il growl e fossero mescolati ai primi sulfurei At The Gates ("The Twilight Is My Robe", 11 minuti).
I difetti principali di Orchid risiedono nel fatto che il tutto suona ancora come un collage di spunti e passaggi eterogenei, ancora da fondere efficacemente in uno stile compatto e spontaneo, e nella circostanza che le varie sezioni dei brani tendono a essere eccessivamente ripetitive nelle sequenze, addirittura monotone nelle digressioni acustiche. Anche la lunghezza dei brani è più frutto della prolissità che del genuino sviluppo sulla distanza.
Åkerfeldt, insomma, ha un sacco di idee, ma deve ancora trovare l'equilibrio giusto per tramutarle in capolavori. Il talento però c'è e nell'underground europeo il disco inizia a far parlare di sé.

Nel 1996 Åkerfeldt restituisce il favore a Swanö, partecipando all'ottimo "Crimson" degli Edge of Sanity come chitarrista e per registrare alcune linee vocali di sottofondo. Subito dopo collabora con un altro amico, Jonas Renkse dei Katatonia (che però, racconta Mikael, "detestava il prog e preferiva i Cure", tanto che gli girò un disco dei Porcupine Tree che non aveva gradito, facendo scoccare in Mikael una scintilla su cui torneremo fra poco). Renkse era la voce del gruppo, ma aveva accusato problemi alle corde vocali, così Åkerfeldt lo rimpiazza nella registrazione delle parti in growling del tragico e dolente "Brave Murder Day", una gemma del death/doom-metal (prodotto sempre dall'onnipresente Dan Swanö). Da lì in poi Renkse sarebbe tornato al microfono, ma solo con voce pulita. Ci sarebbero state anche altre collaborazioni in futuro, in progetti paralleli, ma per ora torniamo agli Opeth.

Nello stesso anno viene registrato e pubblicato con tempismo il magnifico Morningrise. Per molti è già il primo capolavoro, se non addirittura l'apice ineguagliato degli svedesi. Per altri non lo è ancora, giacché eredita certi tratti che appesantivano l'esordio, ma è senz'altro un eccellente passo in avanti. Per chi scrive, parte del suo fascino è anche in questi contrasti ed è interessante soprattutto confrontare pregi (molti) e difetti (pochi) del disco rispetto a quanto realizzato dal gruppo in seguito, soprattutto alla luce dell'evoluzione stilistica che verrà. L'album è stato in effetti composto per la maggior parte durante il periodo di attesa prima che Orchid venisse pubblicato, e anche negli anni precedenti, con idee che risalgono addirittura al 1992; in tal senso, lo stile è il medesimo, espanso e reso ancora più ambizioso.
Al di là delle preferenze personali, è oggettivo che gli Opeth cerchino di stupire ancora di più. I brani sono solo cinque, ma tutti suite da almeno 10 minuti, per un'ora complessiva di ascolto. La monumentale "Black Rose Immortal" supera addirittura i 20 minuti, un continuo saliscendi emotivo e stilistico che eleva al quadrato lo stile Opeth fino a questo punto, dove la dimensione prog-metal e quella acustica/folk si intrecciano caoticamente e magnificamente con la pesantezza death.
Se le influenze black nel precedente album erano riconducibili soprattutto ai Dissection, andrebbero a questo punto segnalati anche dalla vicina Norvegia gli Ulver dei primi anni, che in quello stesso periodo con "Bergtatt" (1995) stavano mostrando un approccio simile per quanto riguarda le atmosfere, nonché per l'estetica sonora adottata nel passare con disinvoltura dal metal estremo al folk nordico (poi adottato completamente in "Kveldssanger", sempre nel 1996).
Nonostante la lunghezza, gli arrangiamenti di Morningrise in realtà sono più curati, c'è più equilibrio fra gli strumenti. "Advent" è inquietante e sublime nel suo unire Judas Priest e Death, "The Night And The Silent Water" naviga con disinvoltura tra sonorità martellanti che in lontananza esaltano il retrogusto black-metal nei primi Opeth, "Nectar" pennella paesaggi primaverili nei momenti acustici squarciati solo dalle sfuriate death-metal. C'è poi la conclusiva "To Bid You Farewell", commonente ballata folk acustica, scandita dalla mesta voce di Åkerfeldt, piccola e dilatata gemma di malinconia e solitudine che affronta il tema della separazione.

We walked into the night
Am I to bid you farewell?
Why can't you see that I try?

When every tear I shed, is for you

Un altro miglioramento è che la produzione di Swanö mantiene lo stesso suono ruvido e glaciale del precedente album, ma risolve i problemi di missaggio: la batteria non suona mai scollegata dal resto degli strumenti, niente doppio pedale a coprire tutto, e le parti in voce pulita hanno il volume giusto. Trova anche maggiore spazio il basso, un sicuro punto positivo. La copertina è una foto in bianco e nero leggermente sfocata di un ponte in stile pre-neoclassico nella residenza di Prior Park a Bath, in Inghilterra, che trasmette sensazioni di desolazione e solitudine, un'atmosfera da romanzo di fantasmi. 

Morningrise riscuote un successo enorme nell'underground e molte riviste lo consacrano subito capolavoro progressive-metal e death-metal, sebbene si tratti di riconoscimenti che all'epoca rappresentano soddisfazioni limitate per gli svedesi, poiché i soldi scarseggiano, l'etichetta non può permettersi una promozione maggiore, e i membri del gruppo devono fare molti sacrifici per arrivare a fine mese. Per di più, Åkerfeldt non è in realtà molto soddisfatto dal disco, e ritiene che alcuni passaggi siano inascoltabili (come racconterà nel Dvd "Lamentations" del 2003). A motivarlo maggiormente nella scrittura di nuove canzoni è la necessità di dare un taglio nuovo agli arrangiamenti, più assimilabile e netto.
Nel frattempo, ritornano i problemi personali con gli altri membri del gruppo. Åkerfeldt ha stretto un sodalizio efficace con il chitarrista Lindgren, che è un po' il suo socio ormai, e con il quale vi sono molta intesa e complicità nel dividersi le parti chitarristiche nei brani (addirittura Lindgren contribuirà sporadicamente ad alcune canzoni, altrimenti esclusive di Åkerfeldt). Tuttavia, il rapporto con il bassista De Farfalla si incrina per motivi privati che lo portano a essere cacciato nel 1997 dopo una serie di concerti. Come avvenne all'epoca del suo ingresso nel gruppo, Åkerfeldt non ne informa il batterista Nordin, che, offeso, decide di lasciare il gruppo.
Åkerfeldt conseguentemente piazza un annuncio e sostituisce i due membri con due altri ottimi musicisti, figli di immigrati dell'Uruguay, rispettivamente Martín Méndez e Martín López  (quest'ultimo aveva appena inciso "Once Sent From the Golden Hall", esordio degli Amon Amarth). Sono giovani, non ancora ventenni, hanno impressionato ai provini con la loro perizia tecnica, e soprattutto non mettono in discussione il ruolo di Åkerfeldt. È l'inizio di una nuova fase per gli Opeth.

Perfezionamento melodico e maturazione continua

Il lavoro successivo My Arms, Your Hearse (il titolo è un estratto da "Drip, Drip" dei Comus) viene pubblicato nel 1998. È una naturale prosecuzione dello stile del gruppo lungo la nuova rotta che Åkerfeldt vuole intraprendere. Alla rifinitura negli arrangiamenti si aggiunge una decisa opera di sintesi: nessun brano raggiunge i 10 minuti, ci sono anche brevi interludi, e le melodie si fanno più dirette e oscure. Non viene compromessa la complessità nella scrittura delle canzoni, che si rivelano anche più tecniche, oltre che più compatte. Perché questa volta gli Opeth propongono brani diretti e intensi dal retrogusto tetro, piuttosto che lunghe suite articolate. Ciò mette anche in risalto la componente death-metal del gruppo, ma con un approccio molto più vicino all'interpretazione americana del genere, tecnica e viscerale, anziché a quella gelida, tipicamente svedese, dei due album precedenti. Anche la componente progressive-metal si fa più concisa.
Lo scorrere delle canzoni è fluidissimo, con quasi tutti i brani che sfociano direttamente nel successivo: tra i principali "April Ethereal" è una furiosa valanga di riff di chitarra e batteria, incentrata sul growling feroce e disperato di Åkerfeldt, mai tanto profondo e oltretombale; "When" è angosciante come non mai, ma senza rinunciare alla classe cristallina che è funzionale all'edificazione di queste atmosfere disperate.
Apice del disco è con tutta probabilità "Demon Of The Fall", un pezzo davvero spiazzante, grazie non tanto alla mera violenza in sé, quanto all'incredibile ricerca del suono, tramutandosi in un terremoto distorto che pervade l'ascolto. "Demon Of The Fall" sfocia poi in una coda epica, che si dissolve in "Credence", mesto rallentamento dove le chitarre acustiche scurissime creano il substrato perfetto per intonare parole decadenti. Gli Opeth non sono affatto monolitici ed esprimono con disinvoltura cambi di umore oltre che di tempo.
"Karma" è furiosa ed efferata, l'apice dell'oscurità del disco con alcuni dei riff più maligni e infernali mai composti dal gruppo, salvo poi cedere il posto al breve "Epilogue", strumentale guidato da chitarre melodiche e hammond in un nostalgico richiamo agli anni 70. Le parti acustiche e con voce pulita nel corso dell'album sono brevi inserti complementari alle schitarrate più violente, oppure intermezzi atmosferici con brani costruiti in tal modo, e risultano meno dominanti rispetto ai primi due dischi, nei quali i brani alternavano intere sezioni dedicate a queste digressioni. Ciò però non li rende meno importanti nell'equilibrio del disco: è proprio il gioco di contrasti tra pesantezza e morbidezza a rendere il sound Opeth tanto affascinante e personale.
Il suono è cupo, pulito e molto orecchiabile, merito del fatto che la produzione questa volta è passata a Fredrik Nordström con i suoi Studio Fredman, uno dei maestri del sound svedese di questi anni, che valorizza voce e strumenti (lo assiste Anders Fridén degli In Flames come collaboratore). Le atmosfere si sposano alla perfezione con la copertina, una foto ritoccata di una foresta svedese: il cielo è di un azzurro saturo e raggelante, gli alberi sono scurissimi, a generare un forte contrasto in cui non si discernono più i dettagli: un'unica massa che inghiotte l'osservatore; il prato in primissimo piano è di un inquietante rosso-bruno; al centro, una figura misteriosa vestita di nero che si confonde con gli alberi, eccetto che per il piccolo volto grigio. È una scena cupa e macabra.
I testi sono interessanti perché sono organizzati come un racconto i cui passi sono suddivisi fra le canzoni, e ciascuno menziona alla fine il titolo della canzone successiva. My Arms, Your Hearse è un concept-album: narra di un fantasma che rimane intrappolato sulla Terra perché angosciato dall'opinione che le persone a lui vicine hanno di lui ora che è morto; in particolare è afflitto perché ritiene erroneamente che la donna da lui amata in vita non sia sufficientemente dispiaciuta della sua dipartita. Cerca per un anno di influenzarne il comportamento, ma ottiene solo di spaventarla a morte. Dopo questa tragedia, tenta di far ricongiungere a sé il suo spirito, ma deve arrendersi e accettare che è impossibile, provando sentimenti come terrore, disperazione e, alla fine, rassegnazione. È a questo punto che capisce l'inutilità dei suoi propositi, e passa all'altro mondo in pace.

Se My Arms, Your Hearse è visceralmente intinto nel death-metal, il tutto senza abbandonare costruzioni e complessità progressive-metal, Still Life, uscito l'anno successivo, è invece più aperto alla voce pulita, alle contaminazioni acustiche, ai passaggi soft e al prog-rock. Queste caratteristiche rappresentano il filo conduttore dell'album anche nei momenti più estremi, donando una carica melodica unica, introducendo effetti peculiari che diverranno marchio di fabbrica del gruppo (in particolare, alcune note in sliding riverberate di chitarra che sembra quasi piangere in lontananza e per un confronto ricordano la parte conclusiva di "Perennial Quest" dei Death), sovrapponendo con sempre più scioltezza chitarra elettrica e acustica nella stessa sezione.
Un'altra novità è il ruolo della voce pulita: in precedenza era principalmente accostata ai momenti più calmi, raramente a quelli più aggressivi e schitarrati, distinguendosi in maniera netta dal growling. Stavolta, invece, Åkerfeldt sperimenta il suo impiego nei passaggi più pesanti con maggiore frequenza, inscenando un'alternanza imprevedibile con il canto ruggito. Per la precisione, si alternano in maniera imprevedibile eccetto che negli efficaci climax emotivi, in quanto questi ultimi sono generalmente associati all'uso della voce pulita, e la combinazione si manifesta con abile naturalezza (lasciandosi anticipare nell'ascolto del tutto immersivo).
L'iniziale "The Moor" cita "The Great Marsh" dei Camel non solo nel titolo ma anche nei fraseggi introduttivi, un tributo abbastanza esplicito che mostra gli Opeth tanto legati al passato quanto proiettati nel futuro. "Godhead's Lament" inizia come uno dei brani più aggressivi, dando poi spazio ad alcuni dei riff melodici più entusiasmanti nella storia del gruppo, a una voce magnetica nel quasi-ritornello e a una sezione acustica sensazionale. "Benighted" è soffusa e sommessa, così come "Face Of Melinda", entrambe quasi delle ballate decadenti. "Moonlapse Vertigo" rapisce con i suoi riverberi e le armonizzazioni, laddove "Serenity Painted Death" è ossessiva, cupa e alienante, salvo poi tramutarsi in intrigante acoustic-prog vintage e sfoggiare un assolo irresistibile - una combinazione che ricorda i Wishbone Ash. In maniera analoga rapisce infine "White Cluster", potente ed espressiva, culminante in un prog-death dai toni arabeschi.

Searching my way to perplexion
The gleam of her eyes
In that moment she knew

La lunghezza dei brani varia, dai 5 agli 11 minuti, trovando un nuovo equilibrio rispetto agli estremi toccati nei due album precedenti. Stavolta la copertina è un dipinto realizzato da Travis Smith (che inizia la proficua collaborazione col gruppo), dominato dal contrasto tra i toni scuri della vegetazione autunnale e dal rosso acceso in lontananza che si riflette su un lago in cui una donna a lutto piange. In effetti, le atmosfere sono più calde, ma non meno inquietanti, anzi, sono anche più drammatiche. Anziché fantasmi primaverili e demoni autunnali, questa volta il concept del disco racconta di un uomo che viene bandito dal suo villaggio medievale per la sua mancanza di fede. Il protagonista è stato a lungo lontano, ma torna per ricongiungersi con la sua sposa, Melinda, l'unica che gli professa amore, ma che per questo viene assassinata dagli altri membri del villaggio che la vedono come alleata di un miscredente. Il protagonista, accecato dall'ira, si vendica col sangue dei responsabili; viene poi a sua volta catturato e condannato a morte. Dopo essere stato decapitato, si riunisce con la sua amata nell'aldilà. È un altro racconto macabro, che presenta sia similitudini che differenze con quello del precedente album, in particolare è la conclusione dolceamara quello che sembra ormai un tratto ricorrente delle liriche di Åkerfeldt.
Questa violenza nel racconto pare quasi mal adattarsi ai suoni più soffusi del disco, ma è un'illusione apparente: la minore pesantezza non impedisce di dipingere scenari psicologicamente tesi, causati dal trattare soprattutto situazioni terrene (i conflitti religiosi, l'emarginazione, l'odio e il disprezzo sociale) che donano forza narrativa a Still Life. È un album spettacolare, nonché il maggior successo degli Opeth fino a questo punto. Inoltre, segna la transizione della band, accasatasi provvisoriamemente presso l'etichetta Peaceville, prima di approdare definitivamente alla Music for Nations, duplice cambio che apre nuovi scenari agli Opeth grazie a finanziamenti e promozione maggiori: l'accenno di stabilità economica si rivela importante per il gruppo, in quanto gli permette di concentrarsi con maggior tranquillità e armonia sulla musica.

L'evoluzione stilistica e qualitativa trova il suo culmine nel 2001 con Blackwater Park, l'opera più emozionante, ricca e ispirata del gruppo, nonché quella di maggior successo, che lancia gli Opeth definitivamente nell'arena internazionale con le sue vendite (che permettono al gruppo di sostenersi con la sola musica senza dover ricorrere ad altri lavori e di permettersi anche un manager). Una pietra miliare della sua generazione, come testimonia anche l'accoglienza entusiastica da parte delle riviste di settore. Il titolo è l'ennesima citazione prog, questa volta riferita a un gruppo tedesco omonimo che pubblicò un solo album, "Dirt Box", nel 1972. La copertina è di nuovo realizzata da Travis Smith, che gioca con la scala di grigi per creare quella che sembra un'incisione su roccia, raffigurante alberi morti e allungati come falci in una palude, e un gruppo di ombre in lontananza. 
Complessivamente Blackwater Park è la summa di quanto fatto dagli svedesi fino ad ora, straordinariamente curata e caratterizzata negli arrangiamenti e nel lavoro di produzione, in cui Fredrik Nordström supera sé stesso. Ma il merito di quest'ultimo va condiviso con un'altra persona: accanto a lui, infatti, viene chiamato a collaborare Steven Wilson dei Porcupine Tree, non solo in veste di co-produttore, ma anche come musicista addizionale di supporto. Per Åkerfeldt l'inizio della collaborazione con Wilson è una vera e propria svolta che, a suo dire, apre una nuova fase nella carriera degli Opeth. Il suo tocco diretto si avverte soprattutto nell'uso delle tastiere di supporto e in alcune atmosfere di contorno. Ma è il ruolo indiretto quello più importante, così come spiegato da Åkerfeldt in un'intervista per Metalitalia del 19 luglio 2021: "Il suo contributo è stato fondamentale per 'Blackwater Park', perché ci ha insegnato che potevamo sperimentare, che non avevamo motivo di avere paura. Ai tempi avevamo più di un piede nel mondo del death metal, dove ci sono regole che non dovrebbero essere infrante, se non a proprio rischio. Steven ci ha fatto capire che questo disco era nostro e di nessun altro e che avremmo potuto fare tutto ciò che avremmo voluto. Questa sua lezione ci ha spinto a sperimentare ancora di più, a sviluppare idee musicali che altrimenti avremmo accantonato, e che non erano comuni vent’anni fa. Penso che 'Blackwater Park' suoni diverso da ciò che veniva composto allora, ha tutta un’altra complessità".
Così, volontà di sperimentare, estremismo sonoro, ricercatezza, complessità, atmosfericità e melodia si fondono con equilibrio ineguagliato. La già intensa e maestosa "The Leper Affinity", con la sua introduzione al cardiopalmo, è solo un entusiasmante biglietto da visita in confronto a "Bleak", potente, viscerale e con l'assolo più emozionante mai scritto da Åkerfeldt. "Harvest" è una ballata acustica spedita ed eterea, che cattura appieno l'immaginario di uno scenario bucolico tinto della foschia autunnale e del freddo nordico. "The Drapery Falls", tanto riverberata e incentrata sui giochi d'atmosfera e sugli acuti emozionanti, ricorda dei Pink Floyd immersi nel death-metal. "Dirge For November" inizia luttuosa e afflitta, per poi sprigionare violenza e potenza. "The Funeral Portrait" è una cavalcata spedita che sottomette la pesantezza al servizio dell'immediatezza. La title track finale segna un elegante, lungo congedo in midtempo, in cui riff cadenzati accompagnano un growl straziante e straziato.

Confessor of the tragedies in man
Lurking in the core of us all
The last dying call for the ever lost

Non c'è un concept questa volta, le canzoni sono tutte autonome tematicamente. Ma il senso di smarrimento etereo, la rabbia, la passione, la malinconia di cui sono pregne, sono caratterizzazioni dovute proprio a questo fatto, perché Mikael ha scelto di rendere ogni canzone assolutamente personale e introspettiva anziché abbinarle a un racconto. E a ispirarlo sono gli accadimenti negativi della sua vita, per i quali la musica funge da catarsi. In un'intervista del 12 settembre 2001 per Ultimate Metal spiega: "Non è un concept, ma si può dire che c'è un collegamento fra le canzoni perché tutte quante hanno piuttosto a che fare con lo stesso soggetto, cioè in pratica solo dei pensieri personali presi da qualche parte oscura del mio subconscio. Penso che tutte le persone provino questo tipo di pensieri oscuri e stavolta li ho in pratica tirati fuori per i testi. Mi sento sempre più recluso da tutto e tutti. Non mi piace più la compagnia delle persone. Sono molto sospettoso. Ho avuto strane vicissitudini negli ultimi due anni, non mi fido più delle persone, ho sempre l'impressione che vogliano solo qualcosa in cambio. A volte ne sono più o meno disgustato. Non è poi così male come sembra, ho aggiunto un po' di pepe ai testi per renderli più interessanti. In genere disprezzo la gente. Può sembrare molto strano, non sono scontroso, anzi sono abbastanza socievole. Ma è solo uno di quei sentimenti che a volte si provano: ti sembra come se tutti fossero dei cazzo di idioti".

Spesso si dibatte sul contrasto tra fra musica più spontanea e istintiva, ma talvolta vista come immatura, contrapposta ad altra più elaborata e "costruita", ma talvolta criticata come artificiosa. Sono due stereotipi forzatamente dicotomici, eppure torna utile ricordarli, perché Blackwater Park rappresenta l'unione degli elementi migliori di entrambi questi archetipi: è il risultato di quando si lascia esprimere a briglia sciolta la propria personalità e la propria creatività più genuine, per poi operare il più certosino e profondo lavoro di rifinitura possibile (negli arrangiamenti, nei suoni). Un capolavoro maturo e intenso, tecnico ed emotivo, dinamico, variopinto.
Nel frattempo, Mikael Åkerfeldt si unisce a Dan Swanö, Jonas Renkse e Anders Nystrom per formare i Bloodbath. Il quartetto pubblica a inizio 2002 "Resurrection Through Carnage", un lavoro di death-metal puro e vecchia scuola, senza compromessi, macabro e opprimente, ma soprattutto volutamente stereotipato per fini parodistici. Åkerfeldt, in fondo, ha sempre avuto una certa dose di humor, dimostrando a più riprese in varie occasioni di non prendersi sempre troppo sul serio e di stare al gioco quando serve. Il disco è violento, viscerale e sorprendentemente accessibile, nonostante la distorsione "a motosega" (tipica del death svedese di inizio anni 90 cui si fa omaggio costantemente) e le accordature ribassate di 5 semitoni. Si avvertono differenze enormi con lo stile degli Opeth e viene messo da parte ogni elemento prog. In seguito Åkerfeldt lascerà posto a Peter Tägtren (Hypocrisy, Pain) per concentrarsi sugli Opeth.

I am the Eros Ramazzotti of Sweden. And also a genius when it comes to modern music

Verso un punto di svolta inevitabile

Subito dopo la pubblicazione di questa parentesi/divertissement, Åkerfeldt si rinchiude in isolamento componendo una quantità notevole di musica. È un periodo per lui difficile, che sfoga con la chitarra in mano e scrivendo melodie e basi come non mai. Ma le scrive di tutti i tipi: il suo intento è di realizzarne di scurissime e pesantissime, qualcosa che estremizzi il percorso degli ultimi tre anni, ma ciò che esce seguendo la sua ispirazione è invece in gran parte melodico e meditato. Il geniale musicista è indeciso sul da farsi, perché sente che si tratta di una collezione di riff, arrangiamenti e melodie troppo diversi tra loro. Lo aiuta l'amico Jonas Renkse, che gli suggerisce di registrare tutto nella stessa sessione e realizzare due dischi complementari come due facce della stessa medaglia. A Åkerfeldt l'idea piace così tanto che prende una decisione senza consultare i compagni (che però gradiscono l'idea) né l'etichetta (che invece deve essere convinta dietro la promessa di completare tutto nel tempo necessario a registrare un disco solo, scelta che comporterà sessioni di registrazione estenuanti). L'idea di un doppio cd, a sua volta, si tramuta in due album pubblicati a breve distanza.

Nasce così anzitutto Deliverance, dato alle stampe nell'autunno 2002. Il titolo cita un celebre film del 1972 di John Boorman (qui la recensione di OndaCinema), in Italia uscito con il titolo "Un tranquillo weekend di paura"; in particolare, Åkerfeldt dedica l'album al dolore e alla sofferenza provati dal personaggio di Bobby Trippe, che all'inizio del film viene torturato, umiliato e violentato. La copertina, sempre a cura del fido Travis Smith, ricorda lo stile bianco e nero lievemente sfocato di Morningrise, ma è un dipinto realizzato di modo da sembrare una riuscitissima foto d'epoca. Il soggetto è una camera da letto vittoriana, buia, desolata e spettrale. Si notano soprattutto la bambola sul letto, che assomiglia sinistramente a una salma, e il riflesso in uno specchio di quello che sembra un fantasma. Il titolo assume un significato simbolico e quasi-religioso, suggerendo - assieme alla copertina - l'idea di un'anima che abbandona le sue spoglie mortali.
Il disco è pesante e violento, il più estremo dal 1998, e in parte ricorda gli esordi del gruppo per la lunghezza delle canzoni (tutte oltre i dieci minuti eccetto un breve interludio) e per i suoni freddi. Purtroppo la produzione peggiora, rendendo le chitarre più gracchianti e la batteria meno in equilibrio col resto degli strumenti. Ciò è dovuto soprattutto a numerosi problemi che affliggono le registrazioni: il gruppo è costretto a passare dagli studio Nacksving, inizialmente affittati, per tornare ai Fredman; gli strumenti e le attrezzature si rompono o guastano; c'è confusione sui ruoli nella produzione, cui si aggiunge Wilson solo nelle battute finali (per Åkerfeldt, ha "salvato il disco") e non potendo contribuire al missaggio che è appannaggio di un altro ingegnere del suono celebre, Andy Sneap; infine i tempi stretti rendono tutti un po' nervosi.
Le canzoni sono comunque in sé fantastiche: "Wreath" è una sfuriata immediata e diretta, che sembra mettere da parte il delicato equilibrio tra dolce e salato degli ultimi lavori, eccetto per alcuni gustose percussioni esotiche inserite al suo interno, che ricordano vagamente i Tool. La title track "Deliverance" è ancora più impulsiva e tetra, lasciando però spazio a una distensione melodica dolente e tesa.
"Master's Apprentice" (nuovo titolo-tributo, a un gruppo hard-prog australiano) è particolarmente macabra, sebbene la combinazione di riff lento e doppio pedale a tavoletta strida. "By The Pain I See In Others", infine, è la gemma dell'album, dolente, devastante, inframezzata da suoni bizzarri da circo itinerante che non fanno che trasmettere una sensazione di follia e alienazione, nonché nuovamente da strumenti esotici (percussioni, maracas).
Le uniche eccezioni a questa efferratezza sono la spettrale ballata per pianoforte e chitarra "A Fair Judgement", dieci minuti estasianti e oscuri con un crescendo funereo, e il breve intermezzo acustico "For Absent Friends" (che cita la canzone omonima dei Genesis). Ma per il resto è un disco più death che prog, pur mantenendo i tecnicismi e la lunga durata dei brani. Le canzoni non sono sempre completamente poliedriche, tendono più che altro a dilatare e prolungare ritornelli graffianti e riff martellanti, aggiungendovi raccordi di classe a mantenere coerenza e continuità. Alla fine spunta anche una traccia-fantasma.

Nella primavera 2003 esce invece Damnation, il disco complementare. Di metal non v'è alcuna traccia: è un lavoro prog-rock malinconico e funereo, pur tuttavia con un piglio melodico facilmente assimilabile, anche perché fondamentalmente schematico e lineare. Damnation è basato sul prog d'annata anni 70 e su quello più recente e orecchiabile dei Porcupine Tree (e quindi indirettamente dei Pink Floyd, ai quali il gruppo inglese deve molto, e la cui eco in effetti si avverte spesso nel corso del disco). Wilson è qui praticamente un quinto membro aggiunto, dato che si occupa non solo di produzione e missaggio, ma di tutte le tastiere e gli organi, in particolare il mellotron onnipresente, che dona un suono caldo e avvolgente, molto vintage, alle canzoni. Inoltre, scrive il testo di "Death Whispered A Lullaby". Infine, fa registrare le sezioni vocali nei suoi studio No Man's Land, per evitare i problemi prima descritti che hanno afflitto invece le parti strumentali. Il cuore creativo e di scrittura, però, rimane sempre e solo Åkerfeldt.
I pezzi sono languidi e calmi, sempre pervasi da una forte malinconia di fondo. "Windowpane" e "To Rid The Disease" si segnalano tra le più meste e ferali; "In My Time Of Need" è uno gli episodi più floydiani dopo "Death Whispered A Lullaby", che raggiunge vertici onirici e spaziali che mostrano come la lezione di Gilmour e soci sia stata ben appresa; "Closure", invece, mette ancor più in risalto le influenze prog-folk con risultati egregi per quanto riguarda il senso melodico, fondendole poi a percussioni esotiche tooliane. "Hope Leaves" è la canzone più dolce e toccante di tutte, senza abbandonare una certa inquietudine di sottofondo; "Ending Credits" è una strumentale blueseggiante, ma a dispetto del nome, la vera conclusione è l'atmosferica e notturna "Weakness", guidata dalla tastiera quasi ambient, dalle timide note di chitarra e dalla voce filtrata. In generale le similitudini con il gruppo di Wilson sono percepibili a livello di arrangiamenti, soprattutto nelle progressioni acustiche, ma gli umori e l'attitudine sono più crepuscolari e decadenti, e soprattutto senza la vena pop-rock che accompagna il porcospino inglese. Nondimeno, lo stesso Wilson a sua volta si fa un po' influenzare dagli Opeth negli stessi anni. Si può fare un confronto con "In Absentia" dei Porcupine Tree, uscito l'anno prima, per le affinità e le divergenze sonore nell'uno e nell'altro senso (in particolare con brani come "Lips of Ashes" con effetti di chitarra elettrica molto simili).

Damnation stupisce il pubblico metallaro che è diviso in due, in genere i progster lo apprezzano e lo vedono come una coraggiosa dipartita dagli standard del gruppo, mentre i deathster più puristi lo bollano come noioso. Anche i veterani del prog classico si dividono in due, tra chi lo trova esecutivamente impeccabile ma privo di mordente, e chi ne apprezza la peculiare vena melodica.
A prescindere dai gusti, l'album rimane un'opera importante nella discografia degli Opeth perché, inizialmente concepito come una significativa parentesi non metal, col senno di poi diverrà il germe di future decisioni drastiche prese da Åkerfeldt, e in ogni caso è evidente come le sue sonorità troveranno più compiuto sviluppo nei due dischi successivi. La copertina di Smith fa da contraltare a quella di Deliverance: sempre in bianco e nero, ma privilegiando il primo anziché il secondo, tanto da far predominare il bagliore accecante del Sole attraverso una finestra. In primo piano, una bambola in piedi, ma spostata a sinistra; il centro della visuale si sofferma su un tavolo apparecchiato per un tè, come uno squarcio di eleganza nella desolazione. Surrealmente, si possono poi scorgere le dimensioni proporzionate in realtà alla bambola, che per illusione ottica appare come una persona, ma disumanizzata.
Damnation è stato anche dedicato alla nonna di Åkerfeldt, morta durante le sessioni di registrazione.

Deliverance e Damnation sarebbero poi stati ripubblicati nel 2015 come doppio cd, rimasterizzato e remixato. La produzione originale, per quanto ritenuta accettabile dopo le correzioni di rotta all'ultimo di Wilson, non ha mai soddisfatto appieno gli svedesi. Deliverance, in particolare, suona più pieno e corposo, le distorsioni delle chitarre sembrano meno ispide e più pastose, mentre le parti vocali risultano più effettate con riverberi vari. Per contro, viene un po' meno il gelo desolante originale che aveva un'aura peculiare, e il suono più pieno è anche meno nitido. Quale versione preferire è più che altro questione di gusti. In ogni caso il disco rimaneggiato risulta meglio bilanciato per quanto riguarda le tracce audio sui canali e si notano maggiori dettagli sonori nascosti. Il cambiamento principale è nella batteria, che prima era fin troppo sovraesposta e distaccata, mentre qui accade il contrario, con il volume che a volte risulta troppo basso. Damnation è in proporzione meno ritoccato, non si avvertono cambiamenti significativi, a parte il suono un po' più caldo e qualche effetto vocale marginale a piccole dosi. L'occasione del remix fa cogliere la palla al balzo per menzionare un problema, qui non del tutto risolto, che affligge molti dischi in tutto il mondo (non solo gli originali di questi due) ed è spesso discusso dagli audiofili, cioè la compressione dell'intervallo dinamico spesso eccessiva. Chi possiede l'edizione in vinile riferisce che la situazione è migliore, il suono complessivo è meno granitico che su cd.

Non ci vuole molto prima che gli Opeth tornino in studio, ma con alcuni cambiamenti. Innanzitutto, Steven Wilson non può collaborare in quanto troppo impegnato nei suoi progetti, ma anche perché Mikael Åkerfeldt vuole sperimentare nuovi approcci e nuovi tipi di suoni. Preso dall'ispirazione, inizia a gettare i primi semi del nuovo album, Ghost Reveries. Come tastierista ufficiale viene reclutato ufficialmente Per Wiberg, già collaboratore nei concerti, primo nuovo membro permanente dal 1997, in una formazione che è rimasta sorprendentemente stabile. Il suo ruolo si concentra soprattutto sull'uso dell'organo hammond, secondariamente del sintetizzatore moog e del pianoforte, ma si occupa anche del mellotron il cui utilizzo è diviso con Åkerfeldt; ciò fa sì che gli arrangiamenti suonino simili a Damnation, ma su composizioni metal, come nei precedenti dischi.
Nel frattempo, l'etichetta Music for Nations versa in difficoltà economiche. Il gruppo firma così un contratto con la più solida Roadrunner, una divisione della Warner già celebre per avere distribuito nomi celebri del rock e del metal, soprattutto americani. La prospettiva è di avere una promozione ancora più diffusa e di migliorare gli introiti.

Ghost Reveries viene registrato ai Fascination Street Studios di Jens Bogren ed è, di fatto, un riassunto dei capitoli precedenti, con alcune modifiche negli arrangiamenti. Ritornano gli estremismi sonori e il growling, ma la consueta combinazione prog-death mostra molte più aperture melodiche (retaggio dell'ultimo disco) e il riffing acquisisce di tanto in tanto un piglio vagamente più rockeggiante, meno violento. Già la title track iniziale e il successivo singolo d'anteprima "The Ghost Of Perdition", dove il growling in modo originale duetta con l'organo hammond, ricordando molto dei Deep Purple in versione death-metal, suggeriscono degli Opeth riconoscibili ma tangibilmente più orecchiabili (del gruppo inglese fra l'altro è presente la cover di "Soldier Of Fortune" nell'edizione limitata del disco). L'altro singolo "The Grand Conjuration" ha un'insolita attitudine radiofonica, impiantata sulla solita struttura poliedrica dello stile Opeth, lambendo nel finale i King Crimson più pesanti.
I suoni sono cupi ma caldi, dai toni volutamente vintage in più punti, lontani dalle atmosfere spettrali di Deliverance, ma con distorsioni volutamente più sporche che su Blackwater Park. La copertina mostra delle candele accese in una stanza buia, con sfumature giallo-brune; in lontananza, la luce della finestra di una chiesa, su cui si staglia una figura in ombra. Per Åkerfeldt è "probabilmente la copertina più gotica che abbiamo mai avuto", ma a dire il vero le canzoni in Ghost Reveries non sono poi così tetre e anzi trasmettono un discreto senso di familiarità e vitalità.
"Beneath The Mire" aggiunge anche tinte esotiche con il suo sintetizzatore arabesco che si sposano alla perfezione con il tono infernale del growl, per poi diventare notturna e avvolgente nella tenue sezione bluesy/prog centrale. "Atonement" è un piacevole pezzo soft lievemente psichedelico, con tenui chitarre che ricordano i Led Zeppelin più blueseggianti, percussioni tribali e filtri vocali à-la Tool, stratificazioni acustiche e tastieristiche che rimandano ai Camel, atmosfere corpose vicine ai Pink Floyd. Giusto un preambolo prima degli accattivanti riff distorti della favolosa "Reverie/Harlequin Forest", che mostrano un Åkerfeldt davvero a suo agio nell'impostare un canto pulito calmo e delicato mentre il brano prosegue su sentieri sempre più epici, fino a che torna il growl terrificante immediatamente spezzato dalle parentesi acustiche. "Hours Of Wealth" nuovamente rifugge dai suoni metallici, suonando come i Jethro Tull più folk intinti nelle atmosfere dei Camel. La conclusiva "Isolation Years" è un breve brano emozionale e decadente, in puro stile Damnation.

Ghost Reveries è un lavoro che, anche con la sua enfasi per la melodia, si rivela al solito complesso e articolato; tuttavia sembra mancare di quel quid che aveva reso tanto memorabili i dischi precedenti. I motivi sono due: innanzitutto, il riffing, come già accennato, generalmente non ha la stessa potenza e la stessa passionalità, anzi sembra che il gruppo si mostri più ispirato proprio nei momenti non metallici, dove si concentra sull'atmosfera e in cui le chitarre distorte a volte suonano blande o fuori luogo; gli episodi migliori nascono proprio quando queste sono relegate in secondo piano o dismesse, per dare più spazio a basso, batteria e soprattutto tastiera e organo, questi ultimi veramente pervasivi. 
Dopodiché, quanto a composizioni, il gruppo sembra adagiarsi ora su un certosino lavoro da artigiani sapienti e maturi, meno rivoluzionario e più manierista nell'attingere dall'hard-rock, dal folk-blues e dal prog-rock anni 70. Le canzoni sono tutte ben scritte e congegnate, semplicemente un po' più derivative nei singoli ingredienti.
Il disco così viene quasi all'unanimità lodato dalla critica e anche grazie alla distribuzione della nuova etichetta ottiene discreti risultati di vendite, ma la percezione generale è che si situi comunque un gradino più in basso rispetto a Still Life o a Blackwater Park (o anche a Morningrise per i più tradizionalisti). Ripetersi, d'altronde, è difficile, e sarebbe ingenuo pretenderlo anche da loro.

Subito dopo la pubblicazione di Ghost Reveries, Mikael rientra nei Bloodbath, con i quali pubblica nel 2008 "The Fathomless Mastery": puro death-metal senza compromessi, stereotipato al massimo per preciso intento. Tuttavia, il vulcanico svedese lascia di nuovo il gruppo per concentrarsi sugli Opeth e anche perché le sue corde vocali non riescono più a sostenere il growl a questi livelli per un intero album.
Nel frattempo, l'equilibrio interno che aveva funzionato fino a quel momento tra i membri degli Opeth si spezza per brutti motivi esterni: Martin Lopez lascia il gruppo a causa di problemi di salute che gli impediscono di proseguire nei concerti. Al suo posto viene reclutato Martin Axenrot, conosciuto da Åkerfeldt nei Bloodbath, e da poco tempo divenuto uno dei batteristi più precisi e brutali nel metal svedese. Lopez avrebbe poi preso parte al progetto Soen assieme al celebre bassista americano Steve DiGiorgio, proponendo uno stile a metà tra Opeth e Tool. Non è il solo addio: nel 2007 lascia anche Peter Lindgren, che sente di aver perso entusiasmo e ispirazione ora che gli Opeth sono divenuti un fenomeno mondiale, e non riesce a reggere i ritmi dei tour. Al suo posto subentra Fredrik Åkesson degli Arch Enemy, formazione melodic-death-metal svedese.

Questi due nuovi ingressi potrebbero suggerire una direzione più "pestata", diretta e d'impatto, ma ricordiamoci che gli Opeth sono Mikael Åkerfeldt ed è lui a decidere la direzione musicale. Watershed esce nel 2008 ed è un lavoro che acuisce il contrasto tra le parti metal e quelle non metal, e che per quanto riguarda le prime diminuisce la componente death. Il titolo è tutto un programma: spartiacque, perché - come vedremo - sarà l'ultimo disco metal del gruppo. Åkerfeldt ha già in mente di dedicarsi al progressive, vuole ripetere l'esperienza di Damnation, ma dedicandosi completamente a tutt'altri suoni: non come parentesi da approfondire, ma come proprio cuore e marchio di fabbrica. La copertina è ambigua: una figura di spalle seduta a una scrivania, in una stanza immersa nell'oscurità, eccetto che per la finestra centrale da cui proviene una luce abbagliante. Sembra quasi indicare che la figura stessa si stia affacciando su di qualcosa di nuovo, lasciandosi alle spalle l'oscurità; suggestione in effetti in linea con il concetto di "spartiacque".
Il disco è molto melodico, tecnico e intenso, ma nuovamente, suona di maniera: un notevole esercizio di stile. Gli arrangiamenti e i suoni sono simili al precedente album, viene ridimensionato l'elemento tastieristico (che suona più d'accompagnamento) in favore di vari inserti di strumenti atipici, come l'oboe, il corno, il flauto e persino gli archi (a dare un tocco symphonic-prog mai eccessivo). Il lato migliore è, come nel predecessore, lo spazio dedicato a strumenti diversi dalla chitarra, in particolare alla sezione ritmica molto muscolare, in grande spolvero. I suoi interventi, però, suonano più come virtuosismi che come pennellate atmosferiche. 
Il brano d'apertura, "Coil", è una breve (appena 3 minuti) canzone folk acustica dove Åkerfeldt duetta con la voce femminile di Nathalie Lorichs, spiazzante nella sua semplicità. Sfocia però direttamente in "Heir Apparent", pesante, cupa e fangosa, intricato saliscendi di sfuriate death e gorgheggi prog-folk, generando un contrasto stridente per l'improvviso cambio di tono che poi diventa alienante e allucinogeno. La schizoide "The Lotus Eater" suona spiazzante, tra sfuriate improvvise accompagnate da canto melodico, interruzioni atmosferiche raggelanti, duelli tra chitarre frenetiche e hammond, parentesi strumentali esibizioniste o psichedeliche, saliscendi continui tra canto pulito e growl oppure tra blastbeat e digressioni minimaliste. In effetti, a questo punto gli Opeth sembrano essere stati contagiati da un prog folle, virtuoso e sensazionale, e al tempo stesso vogliono ricordare il loro lato più intimista e soffuso. Parte del merito va anche ad Axenrot, che alla batteria compie un lavoro mostruoso, estremamente tecnico, preciso e variopinto.
Ecco poi "Burden", lunga ballata epica scandita dall'hammond e dalle chitarre, che nella coda di chiusura diviene insolitamente dissonante (Åkerfeldt ride quando finisce di suonare la chitarra classica scordata, e la sua risata viene ripetuta e distorta, come a voler dare un tocco inquietante all'ironia). Il singolo "Porcelain Heart" è cupo e spettrale, incentrato sui contrasti tra i riff pesanti, le tenui atmosfere acustiche, gli effetti stranianti della seconda chitarra e la mesta voce di Åkerfeldt. Nell'edizione limitata del disco è presente come bonus track una versione alternativa, intitolata "Mellotron Heart", modo umoristico per celebrare lo strumento chiave dell'arrangiamento, per l'appunto il mellotron (assieme a un moog).
"Hessian Peel" è inizialmente timida e delicata, con chitarre dolcissime e flauto commovente; poi più inquieta e tesa, in un crescendo di hammond e chitarra classica che cede il posto a quella elettrica, mentre la batteria è sempre più decisa, salvo poi divenire quasi silenziosa ed essere squarciata improvvisamente da una sfuriata death con growl e doppio pedale a manetta. Chiusura, infine, affidata a "Hex Omega", monolitica ma melodica, come se i Black Sabbath incontrassero i Porcupine Tree

Partendo dagli stessi ingredienti, Watershed sembra essere al tempo stesso più massimalista e minimalista di Ghost Reveries, rimescolando dolce e salato, nonché riuscendo soprattutto a ritrovare parte dell'incisività nei passi più duri e aggressivi. Presso pubblico e stampa, il disco segna un nuovo successo, oltre che un record personale di vendite per gli Opeth. Molti fan di vecchia data storcono il naso, ma aumentano i nuovi sostenitori del gruppo. La differenza principale tra gli ultimi due album e il resto della discografia è di attitudine: anziché un gruppo metal che approda al progressive e lo fa proprio, sembra di ascoltare un gruppo prog anni 70 che percorre sentieri metal.
A questo punto, Åkerfeldt decide di fare la cosa più ovvia che si può fare quando si è all'apice del successo, ovvero lasciarsi tutto alle spalle, cambiare pelle e ammettere esplicitamente di voler scontentare i fan per dedicarsi interamente a quello che gli pare, che piaccia o meno.

Cambiare tutto per non cambiare nulla

Il cambiamento arriva deciso e clamoroso con Heritage. Per Åkerfeldt il metal è ormai da anni un genere stagnante e auto-indulgente, non fa che riciclarsi in continuazione, seguendo i soliti cliché e diffidando di chi prova a osare di più con qualcosa di diverso. Intendiamoci, di gruppi creativi e innovativi ne sono saltati fuori a iosa negli ultimi anni, ma rappresentano piccole gemme di nicchia: la maggioranza del metal è giudicata ripetitiva, semplicistica e fine a sé stessa. In una parola, per Åkerfeldt il metal è commerciale, senza più la vena artistica di un tempo. Inoltre, le sue performance vocali non sono più quelle di un tempo e cantare in growl anziché pulito risulta per lui sempre più difficoltoso. Nel frattempo la sua predilezione per il progressive-rock e per gli omaggi ai classici del passato è cresciuta, e si fa sempre più vivida in lui la voglia di staccare tutto e dedicarsi a quel sound che tanto ama e vuole riattualizzare. Quale occasione migliore per farlo che rifondando la propria musica?
Il titolo del nuovo disco è nuovamente tutto un programma: l'eredità, il retaggio. Quello che gli Opeth raccolgono, nel dedicarsi interamente a suonare come i gruppi prog anni 70, quello che lasciano del loro passato. La copertina è altamente simbolica e ricorda lo stile fantastico del prog classico: al centro un albero i cui frutti - che una processione si appresta a raccogliere - sono in realtà le teste degli attuali membri degli Opeth; ai suoi piedi le teste cadute, o meglio i teschi, a rappresentare i membri passati (in modo invero poco diplomatico). Una testa sta cadendo: è quella del tastierista Per Wiberg, che senza cerimonie ha lasciato il gruppo subito dopo le registrazioni. L'albero rappresenta la nuova direzione prog del gruppo e ha radici infernali che crescono da Lucifero stesso, a rappresentare il passato metal estremo da cui proviene.

Heritage è un album di progressive-rock melodico, semi-acustico e citazionista, totalmente scevro di parti metalliche, che attinge a piene mani dalla stagione d'oro del genere e dalla scena svedese più recente. Meno intricato ed estroso di Watershed, non rinuncia alla complessità, ma la pone al servizio della ricerca sonora e della riflessione. Magistralmente eseguito, superbamente fedele come suoni e arrangiamenti, è un omaggio dall'inizio alla fine. Il problema è nel fortissimo senso di derivazione che toglie personalità e caratterizzazione. Ci sono brani che sembrano usciti direttamente da un disco dei Genesis (come  "The Lines In My Hand"), dei King Crimson o dei Jethro Tull ("Famine" pare provenire direttamente da "Red" ma con un flauto palesemente ripreso da "Aqualung").
Il confronto più ovvio dovrebbe essere con Damnation, ma paradossalmente il disco del 2003 suonava più personale, anche se meno elaborato e curato. L'opera di resurrezione è perfetta e mostra anche momenti davvero suggestivi, non solo per la capacità di attenersi al linguaggio di certi gruppi (su tutte l'epica "Folklore" e la malinconica "Marrow Of The Earth"). Viene da chiedersi, tuttavia, dove gli intenti di sperimentazione libera e progresso di Åkerfeldt possano trovare compimento, se si cerca di riproporre un preciso sound, un preciso feeling, anziché filtrarli e riattualizzarli al contesto odierno.

Il discorso non cambia poi con il successivo Pale Communion, album che sembra modellato su archetipi prestabiliti e li ripropone pedissequamente, con commoventi richiami nostalgici e lodevole fedeltà, ma di nuovo lasciando più di un dubbio su quanto abbiano senso degli Opeth del genere quando si possono ascoltare direttamente gli originali. Rispetto a Heritage, c'è un po' più brio, con momenti più virtuosi e diretti, e meno digressioni atmosferiche, ma i due album sono legati da un filo rosso. Le tastiere stavolta sono affidate a Joakim Svalberg, che predilige riempimenti caldi ed evocativi.
Alcuni brani riprendono appieno la coralità degli Yes ("Eternal Rains Will Come"), altri navigano sulle coordinate mediche ed epiche dei King Crimson ("Cups Of Eternity", "Voice Of Treason") o suonano come egregi tributi alla chitarra acustica di Steve Howe ("Elysian Woes"). Non mancano spunti jazz-rock (la divertente "Goblin"), suite magniloquenti nello stile dei Camel (l'eccellente "Moon Above, Sun Below"), lunghi poemi drammatici ("Faith in Others"). 
Pale Communion è un perfetto manuale d'istruzioni sul progressive d'epoca, tra cambi di tempo, poliritmi, stratificazioni tastieristiche, fraseggi arabeschi, sezioni estrose, passaggi acustici abbinati ad assoli tecnici su cornici sfarzose. Un esperimento sicuramente coraggioso, stante la reazione negativa del pubblico e della stessa etichetta (la Roadrunner non rinnova dopo quest'album e gli Opeth devono accasarsi dalla Nuclear Blast). Non si può negare che Åkerfeldt si dimostri coerente nel portare avanti la sua scelta con dedizione e cognizione di causa, fregandosene dei giudizi altrui e puntando solo a esprimere il proprio intento artistico.
Tuttavia, mentre si ascoltano gli ultimi due album, c'è un convitato di pietra nella stanza, e cioè la definizione di progressive originaria di Robert Fripp e che lo stesso Mikael Åkerfeldt ha rivendicato ed elogiato, nel desiderio di farla propria nel corso della carriera: quella di musica libera, slegata da confini o dogmi, aperta a contaminazioni, che progredisce, innova e rinnova. Viene da chiedersi, allora, se sia davvero definibile prog ciò che è un accurato, genuino e devoto revival del sound di 40 anni fa - in poche parole, un omaggio.

Nel 2016 esce Sorceress, che prova a rivitalizzare la verve creativa ed emotiva del gruppo svedese, rimanendo nelle coordinate degli ultimi due album, ma in direzione più hard-prog. La title track iniziale vanta alcuni dei riff di chitarra e organo più accattivanti da molti anni a questa parte, ed è probabilmente il pezzo più convincente e carismatico del lotto. La grinta di "The Wilde Flowers" (titolo ispirato al precedente nome dei Caravan) e di "Chrysalis", con i suoi attacchi di chitarra accompagnati dall'organo, ricorda l'hard-rock più tecnico dei Deep Purple. "A Fleeting Glance" contamina il folk psichedelico britannico con schitarrate vicine ai Rush e melodie di marca Porcupine Tree, "The Seventh Sojourn" (dichiaratamente ispirata a "Summer '67" dei Family) assume tinte etniche fra arabeschi di tastiere e percussioni etniche, mentre "Era" è forse il brano più catchy, spedito e diretto del lotto, prossimo all'hard & heavy anni 80.
Il lato più complesso e cerebrale emerge soprattutto in "Strange Brew", brano tecnicista e virtuoso, che eleva al quadrato i Led Zeppelin più psichedelici (qualcuno ha detto "Dazed And Confused"?) per poi svilupparsi in maniera più pomposa e graffiante, infine concludendosi con una coda spettrale e scarnificata. Fra i momenti più placidi, da segnalare invece "Will O' The Wisp", derivata da "Dun Rigill" dei Jethro Tull.
Sorceress è forse l'album più "mainstream" di questi "nuovi" Opeth. Qualcuno lo troverà in parte un Watershed senza metal, qualcun altro un Heritage più melodico e d'impatto e altri ancora un Pale Communion più immediato. Accettando che questo è ciò che Åkerfeldt intende esprimere ormai, Sorceress rimane, pur con i suoi difetti e un immancabile "passatismo", un disco con i suoi momenti godibili e con tutta probabilità il migliore del nuovo corso, anche se non quel che in molti si sarebbero aspettati.

Nel 2019 è la volta di In Cauda Venenum, registrato in due versioni (svedese e inglese). L'album conferma le prospettive degli ultimi lavori con brani mediamente più lunghi (7-8 minuti), spesso complessi e altalenanti negli stili, nonché un'attitudine che si è fatta più hard & heavy. Gli Opeth, piacciano o meno, sono una band di elevato livello tecnico e compositivo. Lo dimostrano ovunque, con cambi di ritmo diversi, pochi momenti metal, svariati arrangiamenti folk, melodie ben ricercate contenute all'interno di un enorme calderone di influenze prog di vario tipo (dai King Crimson ai Genesis, dai Dream Theater fino al prog italiano, sino alla inattesa citazione dei Megadeth di “Hangar 18”). Per contro, si avverte una certa ripetitività, dovuta a una struttura fin troppo consolidata, e forse troppo lunga, dei brani.
L’intro quasi petrucciana con coro di “Dignity” è indubbiamente di altissimo livello, come tutto quello che segue, con una voce capace di cambiare e adattarsi continuamente ad atmosfere folk, momenti hard-rock e riff prog-metal. I testi riprendono un discorso del leader socialdemocratico svedese Olof Palme, ucciso nel 1986 in un attentato ordito da esponenti dell’estrema destra svedese. Il discorso che omaggia questo grande leader della sinistra europea racconta la paura del futuro e della solitudine, tema conduttore dell’intero album. “Heart In Hand” è un altro dei punti di forza, che mette in mostra un riff sabbathiano e una melodia azzeccata, oltre a una tecnica prodigiosa da parte di tutti i musicisti e a una capacità di far convivere mondi diversi senza creare strappi.
Nei brani successivi siamo alla ricerca di arrangiamenti sempre più pomposi e magniloquenti (il finale epico sinfonico di “Next Of Kin”) o di atmosfere fin troppo romantiche (la ballad da band pop-metal anni 80 “Lovelorn Crime”). “Universal Truth”, con le sue tastiere imponenti, è decisamente legata ai primi King Crimson, per poi dirigersi in territori tipicamente Opeth. Volendo cercare qualcosa di davvero diverso, dobbiamo addentrarci nei sei minuti di “The Garroter”, con un inizio inconcludente di chitarra spagnola che però è da rivalutare appena dopo con un ritmo di piano e chitarra jazzati, indizi di una cultura musicale non indifferente, figlia del jazz-rock che non abbandona la ricerca melodica.
Il finale “All Things Will Pass” gioca la carta epica e straziante allo stesso tempo, con riff potente ma malinconico e testi sull'alienazione di una società di uomini soli, immersi nella tecnologia, iperconnessi tra loro, ma chiusi nei loro micromondi.

Dopo aver attraversato un decennio di esplorazioni prog che hanno ridefinito la loro identità artistica, The Last Will And Testament si presenta come il tentativo degli Opeth di riconciliarsi con le proprie radici metal, senza però rinunciare all'ambizione concettuale che ha guidato i loro lavori più recenti. Questo quattordicesimo album in studio segna due ritorni significativi per la band: è il primo concept album dai tempi di "Still Life" (1999) e il primo album primariamente metal dal lontano "Watershed" (2008), due lavori che rappresentano pietre miliari della loro discografia.
L'album, con l'insolito contributo di Ian Anderson dei Jethro Tull, è un viaggio nella devastazione emotiva di una famiglia del primo dopoguerra, sconvolta da un testamento che svela segreti inconfessabili. Tuttavia, nonostante il concept ricco e la produzione curata, la fusione stilistica sembra rimanere incompleta. Se da un lato ci sono momenti di grande intensità – come nella stratificazione dinamica di "§6" o nel prog epico di "§5" – dall'altro emerge una frammentarietà che impedisce una coesione autentica tra i generi. La chiusura dell'album, "A Story Never Told", è un suggestivo brano folk/prog privo di elementi metallici, ma appare scollegata dal resto del lavoro, sottolineando l'assenza di una sintesi davvero incisiva.
Pur nel suo carattere ambizioso e nella capacità degli Opeth di mantenere un'identità sonora unica, The Last Will And Testament soffre di una monotonia emotiva e di un'eccessiva rigidità nella gestione delle sue molteplici influenze. Questo disco, più che un passo avanti, sembra rappresentare una pausa di riflessione, in cui la band si confronta con la propria eredità senza trovare una piena direzione. Nonostante le criticità, il lavoro non cancella la rilevanza storica degli Opeth né il loro potenziale creativo: se riusciranno a sintetizzare le lezioni del passato con la loro continua evoluzione, sapranno ancora regalare al pubblico nuove opere all'altezza della loro fama.

Because if we stop thinking, we will be dead

Contributi di Valerio d'Onofrio ("In Cauda Venenum"), Marco Sgrignoli ("The Last Will And Testament").

Opeth

Discografia

Orchid (Candlelight, 1995)
Morningrise(Candlelight, 1996)
My Arms, Your Hearse(Candlelight, 1998)
Still Life (Peaceville, 1999)
Blackwater Park (Music for Nations, 2001)
Deliverance (Music for Nations, 2002)
Damnation (Music for Nations, 2003)
Lamentations: Live at Shepherd's Bush Empire 2003 (dvd live, Music for Nations, 2003)
Ghost Reveries (Roadrunner, 2005)
The Roundhouse Tapes(live, Peaceville, 2007)
Watershed(Roadrunner, 2008)
In Live Concert at the Royal Albert Hall(live, Roadrunner, 2010)
Heritage(Roadrunner, 2011)
Pale Communion(Roadrunner, 2014)
Deliverance & Damnation Remixed (Music for Nations, 2015)
Sorceress(Nuclear Blast, 2016)
Garden of the Titans: Live at Red Rocks Amphitheater(live, Nuclear Blast, 2018)
In Cauda Venenum (Nuclear Blast, 2019)
The Last Will And Testament (Reigning Phoenix, 2024)

Pietra miliare
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