Carlo Massarini

Le 120 notti live di Mr. Fantasy

In occasione del suo nuovo libro "Vivo dal vivo 2010-2023", ho raggiunto Carlo Massarini, uno dei più autorevoli e affermati giornalisti musicali italiani. L'intervista ci permette di ripercorrere la carriera di "Mr. Fantasy" da più angolazioni, senza dimenticare il pregevole lavoro svolto dal giornalista in fase di realizzazione: il racconto in presa diretta dei live, coadiuvato da affascinanti fotografie scattate dallo stesso, ci riporta in un'epoca nella quale la passione per la musica superava qualsiasi confine.

Buon pomeriggio Carlo! Per me è davvero un piacere conoscerti. Partirei subito con qualche battuta su “Vivo dal vivo 2010-2023”, il tuo nuovo libro. Sono rimasto piacevolmente colpito sia per la profondità di analisi, sia per il tuo modo di raccontare l'evento in presa diretta. Non ho mai letto "Dear Mr. Fantasy", ma in giro se ne parla un gran bene, quindi prima o dopo lo recupererò. Adesso lascerei a te la presentazione, così da entrare "nel vivo" della tua opera.
Ti ringrazio, alla buona scrittura ci tengo. Credo che le foto raccontino parte della storia, ma naturalmente sono solo un'immagine, per quanto iconica. La parte scritta è il valore aggiunto: "Vivo dal Vivo" è scritto come fosse la sera stessa, anche se poi molti concerti sono stati ricostruiti, perché in realtà mentre fai le foto non ti rendi veramente bene conto di tanti dettagli, dell'intensità. Il codice QR presente alla fine di ogni articolo serve proprio a quello, a raccontare la stessa esperienza che ho avuto io. La mia è una scrittura in presa diretta, molto empatica, cerco di portare la persona dentro il concerto. Ho provato a raccontare l'emotività di quella sera. Sappiamo tutti che il linguaggio che si può usare nel giornalismo musicale italiano è un po' ridotto rispetto a quello americano, perché mancano i termini, perché gli americani inventano dei neologismi, in inglese metti qualsiasi sostantivo e lo fai diventare un verbo. Insomma, la nostra lingua è un po' limitante. Però ho cercato di fare del mio meglio. Io sono di quella generazione che scriveva. Ho scritto tanto. Ho ancora una pila di diari che conservo da quando ero più giovane. Ho sempre scritto molto, e naturalmente scrivere e leggere aiutano a scrivere un po’ meglio. Poi è anche un dono naturale, come anche la fotografia, se vuoi. Io non sono mai andato a scuola di nulla, né di scrittura, né di fotografia, di niente. Non leggo neanche le istruzioni, chiedo agli amici o ai figli di farmi vedere come funziona. Ho una certa ritrosia verso l'apprendimento metodico, però credo di essere riuscito a portare la gente dentro i mondi nei quali mi ha portato a sua volta la musica, perché quello è il senso di andare a vedere la musica del vivo. Ogni artista ti porta dentro un suo mondo, che può essere un mondo divertente, o un mondo molto intenso, ci sono mille mondi diversi. Però quando l'operazione riesce, quando come dice Vasco nell'introduzione, “riesci a prendere lo spettatore per mano e fargli credere che tutto è possibile”, o comunque fargli credere di essere in un altro mondo, in un'altra dimensione, di avere un contatto con qualcosa di diverso rispetto all’abituale. Come tu avrai visto ci sono gli stadi, c’è il Circo Massimo, ci sono i piccoli club come nel live di Lee Scratch Perry, ci sono moltissimi concerti all'Auditorium di Roma, soprattutto d'estate. Credo sia un approccio per certi versi tridimensionale: puoi guardare le foto, puoi leggere e fartici portare dentro e poi, se vuoi, puoi cliccare il codice QR che ti indirizza su YouTube e ti permette di rivedere il concerto in maniera simile a come l'ho visto io, per avere un punto di riferimento abbastanza preciso di quella sera. Quindi credo che sia abbastanza coinvolgente come lettura. Certo se ti fermi solo alle figure…

423062948_1117704676252854_8544837284221490654_nLeggendo in "Vivo dal vivo" ho apprezzato il tuo entusiasmo quasi contagioso di vivere la musica, specialmente dal vivo. Accanto ai dinosauri del rock (penso ai Van Der Graaf Generator, oppure al "tuo" Steve Winwood) si trovano dozzine di report di importanti artisti contemporanei, come ad esempio quello di Lana Del Rey. La tua passione sembra non avere confini, è una cosa piuttosto rara da leggere, persino fra i miei coaetanei...
È una bella osservazione! Come ho scritto nell'introduzione, il mio approccio è stato in parte professionale in parte nelle vesti di fan. È una mia caratteristica, non ci posso fare nulla, sono fatto così, io amo tutta la musica. Dovunque ci sia un suono, dovunque ci sia un ritmo, in qualche maniera mi arriva dentro. Questi 120 concerti sono naturalmente scremati, in realtà ne ho visti molto di più, almeno 160. Ho raccontato i migliori, i miei preferiti. Ho sempre avuto una grande passione per la musica, sin da ragazzino, quando comprai i primi 45 giri di Gianni Morandi e di Rita Pavone, poi arrivarono i Beatles e i Rolling Stones e nulla fu più come prima. Poi la musica è diventata il mio lavoro. Ho sempre pensato che il mio ruolo fosse di un medium fra la musica e le persone e quindi mi piace andare a scoprire delle cose nuove, anche se non ho un gusto estremo, non mi piacciono le cose troppo di nicchia, ho un gusto diciamo da mainstream avanzato. Io vedo il mainstream un po' prima che arrivi, scopro le cose con qualche anno d'anticipo rispetto a quando diventano famose, Lana Del Rey è un buon esempio. Naturalmente, se fossi stato americano, non sarebbe stata così originale la cosa, ma vivendo in Italia credo di aver avuto un gusto anticipatore, poi in realtà non mi piacciono le nicchie, non mi piacciono gli estremi e non gradisco più di tanto alcuni generi che invece su OndaRock trionfano, come l’indie-rock. Neanche l'hip-hop mi ha mai coinvolto molto: il segreto nella musica è quello di identificarsi con le note, soprattutto con i testi, di certo non riesco a farlo col gangsta rap, io sono nato a Roma! Apprezzo però gli A Tribe Called Quest e, in generale, quel rap un po' jazzato e molto musicale degli anni 90, o anche il primo Kanye West. Tornando ai live, ogni concerto ti mette davanti alla persona, che in quel momento può essere un canale che ti connette con l'assoluto. Penso a Bob Marley, a Eugenio Finardi, ma anche ad altri artisti che hanno trovato spazio in questo libro, come Anthony and the Johnsons,  Leonard Cohen,  Benjamin Clementine: tutti questi artisti hanno un'anima che riesce in qualche maniera a connettersi e quindi a far trascendere anche il pubblico, a creare una sorta di magia. In un certo senso, certi artisti sembrano dei veri e propri sciamani...

Quante differenze ci sono, se esistono, tra un live degli anni Settanta e un concerto odierno?
Semplicemente: è un altro mondo rispetto a quello attuale. All'epoca, i musicisti navigavano in territori "uncharted", erano sprovvisti di mappe. Amavano andare a scoprire quello che non si conosceva. All'epoca, se facevi due dischi uguali - vedi Guccini - Bertoncelli te lo faceva notare! All'epoca la critica ti massacrava. La varietà era fondamentale. Adesso è quasi il contrario: se registrassi due dischi diversi, il management non te lo permetterebbe. Prendo David Bowie come esempio. In ogni suo lavoro ha cambiato personaggio, ha cambiato la musica, sempre molto diversa. La musica odierna è molto meticcia, ibrida. I musicisti contemporanei si incontrano, collaborano tra di loro, spesso e volentieri è anche dura definire un genere, perché i generi non sono più puri, è tutto ibridato con qualcos'altro, con un ritmo o una melodia che vengono da un altro mondo artistico. Oggi la musica è davvero molto diversa dagli anni 70. La parte visuale, poi, è mutata in maniera incredibile. Oggi molta musica è puro intrattenimento, non che in passato non sia stato così, sia chiaro, ma la ricerca sonora non è quella di prima. Se penso ai grandi gruppi rock o a Tina Turner e a James Brown, così come a Prince, quegli artisti nascevano proprio con l'idea di fare intrattenimento. Le luci -il cosiddetto light design - è completamente diverso: se vai a vedere nell'altro libro i live dei Ten Years After, dei Jethro Tull, dei King Crimson, nella maggior parte dei concerti degli anni 70 sul palco c'erano soltanto quattro faretti, e anche il cerca persone (il faro frontale) c'era raramente. Spesso c’erano soltanto i fari laterali che facevano molto meno effetto, erano molto più bassi rispetto alle luci odierne.
In buona sostanza era molto più sconveniente scattare le foto, perché i colori erano sempre più o meno quelli. Il colore rosso era pessimo per le pellicole di allora e anche la velocità di scatto era molto inferiore. Mi ricordo la foto di Robert Fripp sul primo libro, lui sul panchetto (e così è rimasto nel tempo) scattata a un quindicesimo, ora mai meno di un 125esimo. Fa molta differenza, ora puoi scattare quasi al buio. Ma è cambiato completamente tutto il mondo. Una volta il cinema costava caro e i concerti costavano poco, adesso è il contrario: al cinema la gente va di meno e di conseguenza i prezzi dei biglietti hanno prezzi irrisori, mentre ai concerti oggi vogliono andarci tutti; per di più devi pensare che gli artisti non guadagnano più dai dischi, per cui per alcuni live devi accendere un mutuo... e non hai idea di quanto costino i biglietti negli Stati Uniti! È davvero un mondo diverso, sono trascorsi 50 anni e, d'altronde, la tecnologia ha cambiato quasi tutto, ha spostato sicuramente la prospettiva nel mondo della musica.

Per te che sei cresciuto musicalmente negli anni Settanta, quanto credi che l'ideologia del periodo abbia influito sul tuo modo di sentire la musica e di conseguenza di ascoltare il mondo?
Non sono mai stato molto politico o molto ideologico, a differenza di molti miei coetanei non ero particolarmente interessato al lato politico della musica, anche se naturalmente ne riconoscevo la presenza e anche l'importanza. La musica italiana degli anni Settanta è una musica essenzialmente ideologica: da Gaber a Guccini, passando per De André Venditti e anche per il mio amico Finardi, quel movimento era basato su forti spinte ideologiche che in qualche maniera dovevano render conto ai propri ai propri fan, ai propri azionisti, come li chiama un mio amico. La musica di allora era considerata una musica di impegno: tanto è vero che quando nel 1978 escono “Burattino senza fili” di Edoardo Bennato, “Sotto il segno dei pesci” di Venditti e il Lucio Dalla di “Comè è profondo il mare”, si rompono certi schemi, si torna al "personale". Nel cantautorato italiano di quel periodo, come in tutta la società,  "il personale era politico", era una musica dal profilo prettamente ideologico. Con quella musica ci sono cresciuto e, probabilmente, rimane forse la migliore che è stata prodotta in Italia, però aveva un taglio che era molto limitante. In quel periodo c’erano anche altre musiche "politiche" o ideologiche, per esempio quelle del Sud del mondo. O quella nera americana: la black music è la musica della lotta e della liberazione del popolo nero contro la segregazione, contro le leggi razziali, contro tutta una serie di limitazioni e ingiustizie che il popolo nero ha dovuto faticosamente, e a volte anche sanguinosamente, superare. Lo riconoscevo, ne avevo una simpatia istintiva, ero dalla loro parte, però è chiaro che era comunque una realtà lontana dalla mia, come dicevo. È più facile rimanere legati a qualcosa con la quale ti identifichi piuttosto che qualcosa che ti è lontano. Negli anni questa caratteristica di impegno è andata via via scemando, adesso la musica è intrattenimento, anche di alto livello. Può anche ancora essere ricerca sonora, vedi i Radiohead, tanto per citare una band contemporanea. Ci sono ancora i duri a morire, vedi i vari Billy Bragg o Graham Nash, ci sono ancora quelli che in qualche maniera o a un certo livello, fanno ancora politica. Gli U2 hanno un approccio simile, sebbene siano star planetarie, però nel frattempo la musica è diventata un'altra cosa, è puro intrattenimento. Certo, alcuni hanno continuato a fare ricerca musicale ma senza quel crisma della necessità di soddisfare un preciso bisogno ideologico. Come vedi, nel libro ci sono le tre grandi dive africane del momento, ovvero Oumou Sangaré, Fatoumata Diawara e Angélique Kidjo, loro sono persone che tengono invece a sottolineare l’importanza della emancipazione femminile africana. Fatomauta dice “quando le donne africane si emanciperanno, il nostro continente sorgerà” ed è una cosa profondamente vera: il ruolo della donna in Africa è molto limitato, in buona parte è addirittura sottomesso, anche perché l’Islam - in buona parte la religione dei paesi africani - non è esattamente la religione che più stimola un ruolo attivo e propositivo nelle donne, e le tradizioni fanno il resto, specialmente le tradizioni tribali. È politica questa? Sì, è politica sociale, è politica umana non so come dire, quindi senz’altro in alcune autrici (e in alcuni autori) è rimasta la voglia di parlare di diritti umani, di politica. È interessante la black music in generale: è una musica sempre in qualche maniera fisica, divertente, ballabile, ma anche di liberazione e trascendenza. Tu balli e ascolti una lingua che non conosci, sebbene si intuisca che i testi siano da vero campo di battaglia, è la loro cifra. Certa musica può essere ancora politica, però magari è molto ballabile, molto divertente.

423105990_387926573936575_2280862166475582016_n_1In "Vivo dal vivo" racconti di un live dei Kraftwerk. Negli anni Settanta si nutriva un forte scetticismo nei confronti della derive più elettroniche della musica. Il mio sospetto è che quello scettiscimo fosse "generazionale". Col passare dei decenni hai rivisto la tua visione rispetto a una band come i Kraftwerk e in generale sulla musica elettronica?
Devo dire che io sono nato abbastanza "bianco" come gusti, ma progressivamente sono rimasto affascinato dai toni più caldi e da una musica più nera. Poi, per carità, c'erano i Kraftwerk, i Tangerine Dream o i Popul Vuh -  che mi piacevano molto perché erano più spaziali e più melodici - mi piacevano anche gli Amon Düül, una band completamente fuori di testa, ma non era la mia musica preferita. Ai Kraftwerk, in particolare, riconosco un enorme valore storico. Secondo me, sono davvero la band che ha influenzato di più la musica successiva degli ultimi 50 anni. Dopo i Beatles sono arrivati i Kraftwerk come influenza globale perché da loro parte la musica dance, l'Edm, ma anche certa musica di ricerca, o ambient...  non a caso un genio come Bowie, da pioniere quale è sempre stato, usava per i suoi concerti le immagini di "Un Chien Andalou" di Dalì e la musica dei Kraftwerk per aprire i concerti del suo "Thin White Duke Tour", nel 1976, quindi prima ancora che andasse a Berlino a fare quello che ha fatto. Fu profondamente influenzato anche dai Tangerine Dream e dai Neu!. Penso sempre che bisogna vedere la musica in maniera tridimensionale, devi conoscere le radici per capire il presente e per immaginarti il futuro, e oggettivamente se si riguarda indietro agli ultimi 50-60 anni devo dire che l'influenza di quella musica è stata molto maggiore di quello che uno poteva pensare all'epoca. Al tempo il progressive rock andava per la maggiore, ma le band del progressive sono rimaste fondamentalmente ancorate a quell'epoca: sono splendide fotografie di quel tempo - pensa ai Genesis - ma i Kraftwerk videro davvero il futuro.

Un dato che risulta evidente, leggendo i nomi degli artisti che hai selezionato per la tua opera, è che mancano all’appello diverse band che hanno esordito negli anni Ottanta. O meglio, ne compaiono soltanto una manciata. Come mai secondo te?
Io ho un approccio abbastanza eclettico, però sempre abbastanza solare. Non ho mai amato la musica gotica, il post-punk, la musica dark. Magari nel reggae sì, mi piace Lee Scratch Perry perché, ad esempio, trasforma il dub in una musica più misteriosa, più dark, ma nel rock non ho mai amato le cose troppo tenebrose, se posso usare questo termine. Tutta quella musica in realtà non l'ho mai amata allora e non la vado particolarmente a ricercare adesso. Di certo, gli anni Ottanta hanno tirato fuori delle cose sicuramente buone, ma per me furono soprattutto i Talking Heads e Peter Gabriel. Di sicuro ero molto più incline al gusto americano in quel periodo, la new wave inglese non è mai stata la mia cup of tea. Comunque, in questo libro ho parlato di molta world music che come filone musicale è andato consolidandosi in tempi più recenti. Se fai la lista di tutti gli artisti africani, caraibici e brasiliani, viene fuori una buona parte del libro!

Qualche sera fa, ho rivisto diverse puntate di "Mr. Fantasy", sul portale di Raiplay. Ho constatato la presenza di video assolutamente sconvolgenti e certamente inediti per l'epoca: in certe puntate passavi con disinvoltura dai Residents ai Tuxedomoon, mentre sullo schermo andavano in onda le geste di Carmelo Bene e del suo Pinocchio. "Che momento irripetibile" mi sono detto...
Sì, per certi versi è stato un momento irripetibile. Noi eravamo chiaramente interessati a far vedere dei prodotti culturalmente trasversali, ma è sempre stata la cifra stilistica anche dei miei programmi radio, ho sempre mischiato tutto, no? Era un periodo molto particolare e noi eravamo molto determinati a fotografare le novità del periodo, è stato un grande momento di cultura dell'immagine, anzi l'alba dell'era dell'immagine, e band come i Tuxedomoon erano comunque sulla frontiera della prima forma di videoarte. Erano veramente gli albori, poi è successo di tutto e il digitale ha cambiato completamente il gioco. L'idea a Mister Fantasy era quella di far vedere le cose più interessanti e le cose più interessanti spesso erano di nicchia, erano le cose più sperimentali. Ma nel tempo queste cose si sarebbero perse... perché nessuno adesso andrebbe a risentire i Tuxedomoon, no? In seguito, sono accadute tante cose proprio nell'elettronica: dal synth-pop dei Soft Cell e Depeche Mode a tutta l'elettronica degli altri gruppi inglesi. Il senso di "Mr. Fantasy" era di mettere in scena qualcosa che aprisse la mente alle persone. Noi mostravamo le nuova potenzialità della videomusica. Io ho sempre tenuto in considerazione il fatto che bisognasse dare degli strumenti alle persone per intendere quello che stava accadendo, e "Mr. Fantasy" a modo suo faceva la stessa cosa; dava delle chiavi di interpretazione di una società che stava cambiando: dalla parola scritta stavamo passando all'immagine. È stato un percorso molto lungo. In quel preciso momento storico, alcune cose andavano fatte vedere: ad esempio, le cravatte di Memphis erano una porta di accesso per la nuova architettura postmoderna che stava nascendo in quegli anni dei vari Mendini o Sottsass, architetti che stavano inventando una nuova estetica. "Mr. Fantasy" si proponeva come una trasmissione molto estetica. Ho sempre dato un grande valore all'estetica, per questo motivo il programma era all'avanguardia. Certo, i tempi sono cambiati, anche il glossario è mutato. Io sono orgogliosamente boomer, nel senso che porto con me quella che è la mia cifra stilistica e non l'ho mai lasciata, navigo in direzione ostinata e contraria, come direbbe il poeta. Non a caso l’unico social network che uso è Facebook, non abito negli altri social. Sono molto contento che tu sia rimasto colpito da certi elementi di quella trasmissione, perché vuol dire che sei d'accordo con me che la televisione odierna è sì molto giocosa e molto divertente, ma purtroppo anche troppo "gossippara", priva di quella capacità di analisi e di quella volontà di informare sulle tendenze. Oggi è talmente forte l'onda politica che l'informazione è tutta convogliata lì, mentre il pubblico è ossessionato dal gossip e dai social. Dopotutto, manca completamente un approccio culturale che sia un approccio consapevole e illuminato. Manca la capacità di essere trasversali come eravamo noi di "Mr. Fantasy" o come ho fatto in certi momenti su Rai 5, per esempio con “Ghiaccio Bollente”. Il mio "fil rouge" era collegare i musicisti con la pittura contemporanea, con la scultura, con le performing arts... in generale oggi mancano le guide - che non sono gli algoritmi - e poi manca la capacità di connettere i puntini, di connettere i mondi. Quando parlavamo di Bowie c'era l'interesse di raccontare di Burroughs che aveva inventato il cut-up, c'era la voglia di scoprire il mondo di Andy Warhol, volevamo capire Dalì e dall'altra parte i Kraftwerk... mondi diversi che in qualche maniera si connettevano.

Secondo te, manca soltanto la volontà di connettere questi mondi?
Qualche giorno fa ho rilasciato un'intervista per un giornale. Il giornalista mi ha chiesto chi fosse secondo me il mio erede televisivo. Verrebbe istintivamente da pensare a un Alessandro Cattelan, non lo scultore, bensì l’ex-conduttore di Mtv. In realtà, io mi sento molto più vicino ad Alberto Angela oppure al Baricco che parla della musica operistica o classica. Mi sento più vicino a loro perché in qualche maniera hanno una visione trasversale della realtà e connettono determinate arti che possono essere anche socialità quotidiana, possono essere storia, e Alessandro Barbero, ad esempio, è un altro che sento vicino, proprio per la capacità di narrare in maniera trasversale il mondo. Se mi dessero l’opportunità di rifare un programma musicale, non farei un programma necessariamente basato soltanto sulla musica, mi piacerebbe connettere la musica con tante altre cose, perché in realtà tutto parte della stessa tavolozza, sono solo circostanze e momenti storici differenti, ma la realtà si chiama mondo contemporaneo e la musica ne è la colonna sonora.

Hai qualche curiosità da raccontarci sui live o sugli stessi artisti che hai raccontato nel libro e che per qualche motivo non hai scritto o non hai voluto scrivere? 
No, io scrivo quello che mi pare. Ogni tanto mi sento dire "ah, sei pagato alle case discografiche!" e io rispondo "magari", forse ne avrebbe giovato il mio conto in banca. È normale avere delle amicizie, delle simpatie… certo se il mio fratellone Eugenio Finardi registrasse un disco non particolarmente brillante non lo massacrerai, sia chiaro, con tutta probabilità gli farei notare alcune cose ma non sarei cattivo con lui. Sai qual è il problema? Oggi nessuno dice che i dischi sono brutti. Penso all'ultimo disco dei Maneskin: è brutto, possiamo dirlo? Onestamente, a me inizialmente è sembrato anche un fenomeno molto interessante; una band italiana così famosa all'estero, persino in America! Ma se uno fa un brutto disco, è così, pace. Anche i trapper, fanno una musica tutta uguale, le canzoni hanno sempre gli stessi accordi, lo sosteneva ieri Finardi e, voglio dire, chiunque capisca di musica comprende che quel genere è molto limitato. Adesso non conta più sapere di musica. Non conta più essere bravi a fare musica, l’importante è fare i click, è un altro mestiere, è un altro campo da gioco. Vai a vedere un concerto di Jan Garbarek! Ti si dispiega un mondo dinanzi agli occhi! Prova ad andare a vedere un concerto di Travis Scott. Non è musica quella, sebbene sia un fenomeno sociale interessante. Ma la musica è un'altra cosa.

Mi hai bruciato due domande, ma se ti può rincuorare anche io sono poco avvezzo alla musica trap, sebbene porti il cognome che ho…
Io sono stato insultato pesantemente per colpa dei Maneskin, anche se inizialmente li ho supportati. Ma presto sono diventati soltanto un prodotto di un management multinazionale. E direi che possono andare via da soli, non hanno bisogno di me...

Un’ultima domanda: conduco da poco più di un anno e mezzo una trasmissione radiofonica per OndaRock, in una piccola stazione radio di Milano. Hai qualche consiglio da darmi?
Come ti dicevo prima, è fondamentale connettere i puntini. Ricorda che tutta l'arte è intrecciata, sia stilisticamente che storicamente, per cui devi avere sempre un’idea se parli di una cosa e puoi fare riferimento a un'altra ancora, e questo, secondo me, arricchisce il vostro pubblico, a cui potrete suggerire informazioni e nuove suggestioni. Secondo me, è interessante riuscire a spiegare il contorno, il contesto nel quale si muove la musica.