Un’altra cantante folk americana
Una bambina timida nel salotto di casa. Una radio che le fa compagnia, sintonizzata sempre sullo stesso canale di vecchi classici. Gli artisti della Stax, Sam Cooke, Stevie Nicks, Sandy Denny, Odetta, Abner Jay, mandati a memoria fino a quando molto tardi, ormai ragazzina, realizzerà che esistono anche altre stazioni. In quella stessa stanza di Etobicoke, sobborgo di Toronto, la piccola assorbe come una spugna anche le lezioni di pianoforte e chitarra che la madre impartisce ai suoi studenti. Nessuno può ancora sospettarlo, ma una cantautrice di talento sta spendendo così il suo silenzioso apprendistato, nel rassicurante comfort domestico. E’ figlia di immigrati polacchi, Basia Bulat, e pare che i tratti somatici facciano di tutto per confermarlo: bionda, rotondetta, i lineamenti delicati. La medesima fisionomia la accompagna negli anni trascorsi alla University of Western Ontario di London, Ontario, dove si laurea in inglese e fa pratica con ogni sorta di strumento a corda, dall’autoharp al charango, dall’ukulele al dulcimer.
E’ in questo periodo che la sua passione per la musica ha modo di emergere, incentivata dall’amicizia con una coetanea, Olenka Krakus, che andrà presto incontro a qualche effimero successo grazie alla sua band folk-pop orchestrale, Olenka & The Autumn Lovers. Poca cosa, comunque, rispetto a quanto attende l’inconsapevole Basia quando una sera si lancia convincere dai compagni di corso ad aprire un concerto dell’affermata connazionale Julie Doiron. E’ un successo, e nel circuito locale il nome comincia a farsi notare.E’ il 2005 quando arriva la prima uscita discografica della Bulat. Si tratta di un Ep eponimo di sei brani, autoprodotto e amatoriale, che rivela in germe le peculiarità espressive della giovane cantante. Ci sono ingenuità, è vero, lo stile è ancora acerbo e convenzionale, ma come tassello Basia Bulat ha comunque la sua importanza visto che una copia di questo Cd-r è destinata dal passaparola ad arrivare nelle mani giuste. In questa fase la ragazza stringe infatti amicizie preziose e divide il palco con diversi membri di tre formazioni emergenti di Toronto – Ohbijou, Timber Timbre e Great Lake Swimmers – e con Hayden, che in seguito curerà una prima edizione canadese del suo debutto sulla piccola label di proprietà, la Hardwood. Difficile ricostruire dopo una decina di anni quale sia stato l’aggancio propizio, ma in un modo o nell’altro qualcuno in Rough Trade intercetta quella voce poco più che ventenne e non esita a metterla sotto contratto. Si spalancano in un amen le porte del celeberrimo studio di registrazione Hotel2Tango a Montreal, quello dove sono nate le opere più acclamate di Arcade Fire e Silver Mt. Zion. A farlo è uno dei quattro padroni di casa, Howard Bilerman, che viene scelto per produrre l’agognato esordio.
Da più parti ecco fioccare ingombranti paragoni con l'immensa Joni Mitchell, legittimati (a dirla tutta) più che altro dal vago accostamento estetico che è la fotografia in copertina a suggerire. Quella dolce figura sembra provenire da un'altra epoca: un cappello insolito, da creatura silvana, e lo sguardo senza trucco ma non banalmente acqua e sapone rimandano allo stesso mitico passato della musa Vashti Bunyan, tornato attuale con prepotenza grazie al suo tardivo recupero e alle affermazioni internazionali della colorita nicchia del cosiddetto Naturalismo. Rispetto ai vari Devendra Banhart, Joanna Newsom o Jana Hunter, la prospettiva fieramente yankee di Basia Bulat sembra però decisamente più placida e canonica, meno incline alle stravaganze da freak folker e in fin dei conti genuina. L'incipit di Oh, My Darling non lascia dubbi riguardo la sincerità dell’artista, che in “Before I Knew” offre con lucido disincanto la ribalta ai propri tormenti e fa lo stesso nel delizioso congedo di “A Secret”, quasi avesse scelto di tratteggiare un’ideale cornice per la sua prova da sapida storyteller.Dentro l’album fioriscono miniature sghembe ma gentili, quadretti malinconici che barano all’anagrafe (la title track, “Little Waltz” e “The Pilgriming Vine”, un pelo più affettata), una collezione di voce e chitarra oligominerali e ben ponderati, buttati giù con l’anima e il cuore. A scaldarli il tepore di archi mai invadenti, o di un’armonica quasi trasparente, nella predilezione per i registri tra l’Americana e il bigino indie-folk che in quello stesso periodo cominciano a fare la fortuna, tra gli altri, dello spirito affine Anais Mitchell. In punta di piedi, sostenuta dalle cautele di una delicatezza irriducibile, la canadese regala le sue confessioni sposando intimismo e impressionismo nel solco di un cantautorato felpato, onesto, mai vanamente sopra le righe (“Why Can’t It Be Mine”) e mai costretto in anguste caricature.
L’equilibrio di vuoti e pieni, al contrario, è già mirabile e, pur votato a una rigorosa economia di risorse, il sound appare spesso rigoglioso (“La-da-da”). Le tentazioni adulte cui talvolta la songwriter cede portano peraltro a sviluppi interessanti e sufficientemente intensi, un passo sicuro dietro l’altro e mai più lungo della gamba, per come la ragazza rifugga il clamore, la deriva espressionista o l’incanto da quattro soldi (“Birds Of Paradise”).
Ne esce un disco zampettante, amabilmente autunnale e controllatissimo, che svela insospettate riserve di grazia e calore e si mostra attento a non forzare in alcun modo, a non bruciare quella sua candida evocazione di sentimenti in un bieco sentimentalismo (“December”). Un’opera a suo modo umile ma rinfrancante, con qualche prima timida prova da virtuosa equilibrista del bel canto (“Snakes And Ladders”) che non devia mai dai comodi binari tracciati dal pianoforte. La pulizia e la misura aiutano e non poco a rendere il tutto ancora più credibile e fare di Basia una promessa a tutto tondo, una scommessa su cui puntare senza troppe remore.Oh, My Darling è accolto con recensioni lusinghiere, fa bella figura sulle college-radio nordamericane e si guadagna la shortlist del Polaris Prize. Arriva l’ora del primo tour in Europa e in Australia, a rimorchio di artisti ben più celebrati, e tra un impegno e l’altro la giovane canadese trova il tempo di pubblicare sempre per Rough Trade un Ep di soli tre pezzi, In The Night, giusto per rincarare la dose. Bandistica e raggiante con il suo garbato approccio folk campestre, la Bulat si offre ancora come cantrice convenzionale ma dimostra di aver fatto tesoro della lezione di vecchi (Linda Thompson) e nuovi (Gillian Welch) classici.
Fragranze country avvolgenti si impongono con l’entusiasmo di una novella Victoria Williams, e nella medesima direzione va anche la cover formalmente corretta, ma non certo trascendentale, di “Touch The Hem Of His Garment” dell’amato Sam Cooke. Un’uscita minore, quindi, più orientata in senso tradizionalista, che contribuisce ad attirare alla sua autrice le simpatie degli organizzatori del Dawson City Music Festival nel remoto Yukon, dove si esibisce e si ferma per un breve soggiorno nell’estate dello stesso anno, traendo ispirazione per diverse delle canzoni che troveranno spazio nel sophomore.
Heart Of My Own, questo il titolo, ha in un romanticismo primaverile e in scampagnate assolate il suo fil rouge, con una certa tendenza a un appiattimento country-pop che marca un po' la distanza tra questa prova e il lavoro precedente, più essenziale e spigoloso. La canadese mette la firma su un disco che ha dalla sua, effettivamente, un certo tepore profumato e anche festoso ("Gold Rush", "If Only You") ma che finisce per regalare meno sorprese di quante era lecito attendersi.
Si comincia con l'ardore di "Go On", in cui la giovane cantautrice recupera le rullate tangibili del disco precedente, in una nervosa ballata in cui nuove doti vocali vengono rivelate, non solo nell'interpretazione; la voce della Nostra è calda e decisa (si veda ad esempio la title track), impreziosita da un vibrato pregevolmente controllato ("Sugar And Spice"). "Keep Running Back To Me", intona poi nella seguente "Run", progressione che accompagna il richiamo d'amore della Bulat in un sovrapporsi di strumenti che non disdegna un certo afflato orchestrale, comunque in sottofondo. Dietro questo parziale "cambio di marcia" dell'artista dell'Ontario c’è ancora la mano di Howard Bilerman, batterista in "Funeral" e collaboratore in dischi dei Godspeed You! Black Emperor e di Vic Chesnutt, che già l’aveva aiutata al debutto.
Si procede così in un'alternanza abbastanza scontata tra questi motivi più tambureggianti (le già citate "Go On", "Run", "Gold Rush", "If Only You") e gli episodi solisti della Bulat ("Sugar And Spice", "Sparrow", "I'm Forgetting Everyone"): va detto che le soluzioni raramente stupiscono, gli spunti melodici scarseggiano e così il disco finisce per acquisire una certa monotonia pure non malvagia. Bisogna in effetti attendere la bella "The Shore" per avvertire la prima vera variazione sul tema: sulla scorta dell'evocazione sonora garantita dal dulcimer a percussione, Basia riesce finalmente ad arrivare più in profondità. Si tratta probabilmente della traccia che meglio può dimostrare il periodo di composizione (assai breve) del disco nella città della corsa all'oro, Dawson City appunto. Uno scenario imponente, una natura vigorosa e florida, che ha però avuto un effetto un po' deleterio sulla musica dell'artista canadese: forse per la fretta, forse per eccessiva cautela, la ragazza sceglie infatti di imboccare, quasi sempre, la strada espressiva più semplice.
Basia scopre il popIl 2013 è l’anno della svolta. A piccoli passi, ma di strada Basia ne ha già fatta parecchia: due opere apprezzate e una lista sempre più lunga di colleghi affermati – Arcade Fire, National, Nick Cave, Daniel Lanois, St. Vincent, Sufjan Stevens, Beirut, Destroyer, Tune-Yards, Sondre Lerche, The Tallest Man On Earth, Owen Pallett, Andrew Bird i nomi più altisonanti – con cui ha condiviso il palco. A tre anni di distanza dalla precedente fatica, la canadese ritorna, non ancora trentenne, con il suo terzo lavoro sulla lunga distanza, il primo a non vedere la luce nell’ormai familiare Hotel2Tango e a essere licenziato in tutto il mondo dalla piccola Secret City. Per l’occasione sceglie di farsi aiutare da Tim Kingsbury degli Arcade Fire e da Mark Lawson, che per il suo più recente lavoro al servizio della band di Montreal aveva anche vinto un Grammy, e si presenta in copertina con la sensualità di un bianco e nero a tutto contrasto, che più che la Joni Mitchell di ieri fa venire in mente lo charme tenebroso di una Nico. Mai come ora le scelte fatte in sede di registrazione si rivelano tanto proficue, perché cucite perfettamente su misura per la cantautrice dell’Ontario: sono infatti pregevoli tanto gli arrangiamenti quanto la scorta ritmica a supporto, sempre opportuni e mai invadenti, un corredo prezioso che evita di stravolgere il portentoso equilibrio delle composizioni.
Ne è una prova la canzone che presta il titolo alla raccolta e la inaugura, un piccolo scrigno con la delicatezza di un carillon che si apre poco per volta, illuminato da una voce calorosa e incredibilmente simile a quella di Natalie Merchant. L’impressione di ritrovarsi immersi nel clima magico di “In My Tribe” è così vivida, e il trasporto così autentico, che non si può evitare di lasciarsi rapire per poi applaudire convinti. La stessa eco si avverte anche in seguito (“Someone”) con suggestioni ancora lusinghiere per la promettente Bulat, esaltata quando ha modo di operare in libertà su sfondi sonori più spogli.
Tra le pieghe di questo Tall Tall Shadow, la ragazza di Toronto si muove con leggerezza zampettante in quadri molto ben radicati nella tradizione, facendovi spirare un alito di freschezza sottile ma caparbio. Con una frugalità folk aggraziata dal suo canto, in “Five, Four” fa propria l’essenzialità evocativa di un’altra giovane collega dal solido presente, la statunitense Alela Diane.
Poco oltre (“It Can’t Be You”) l’esilissima trama intessuta da uno svolazzante charango riporta alla mente analoghi disegni acustici di Josephine Foster e – sarà un caso – qui Basia punta con decisione a una maggior levità anche sul piano vocale. Il risultato è apprezzabile. Se la purezza cristallina della cantante del Colorado non è del tutto eguagliata, è vero che non siamo poi chissà quanto distanti. Non promette la luna ed è anzi adeguatamente controllata la Bulat, brava a non inficiare i brani con eccessive decorazioni o strappi vertiginosi che stordiscano. In “Promise Not To Think About Love” non rinuncia peraltro a indossare la vivacità elegante e smaliziata della connazionale Feist, riuscendo a non uscire ridimensionata dal confronto, pure impegnativo: poco più di un frammento che incide tuttavia in modo rilevante nell’economia del disco, con la sua vivacità. La fattura si rivela insomma quella mirabile delle prime prove, a conferma del gusto di un’autrice ancora emergente ma non certo sprovveduta.
Altrove il tono si fa più austero (ma mai lugubre) oppure torna in auge la sobrietà affilata dell’esordio, come quando in un incontro abbastanza sorprendente (“The City With No Rivers”) il sottofondo richiama le ombre minacciose di un deserto americano dipinto da nessuno come da David Eugene Edwards. La canadese non se ne lascia però avvincere e la sua interpretazione resta soave, personale, non caricata dell’enfasi febbrile delle opere di 16 Horsepower e Woven Hand.
Forse la sincerità di Basia emerge in tutta la sua pienezza nei frangenti più amichevoli e confidenziali, magari piccoli ma fragorosi, in cui la sua voce accarezza l’ascoltatore con la forza genuina della semplicità. A una songwriter dotata che per indole non ama strafare, non occorrono artifici, sono sufficienti le sue qualità di affabulatrice gentile. Impronta classicista e piglio moderno convivono allora armoniosamente in una proposta che evita con cura di magnificare il proprio virtuosismo, e che ogni tanto fatica a tenerlo in sordina. Non è il caso del voce e piano palpitante che chiude il disco rievocando il cantautorato orgoglioso, romantico e scarmigliato di Azita, pur con meno esuberanza. Un ultimo tassello che non aiuta a comprendere meglio un’artista interessante anche perché così sfaccettata, ma vale come ennesima riprova di un talento che meriterebbe maggiori attenzioni: con un pizzico di timidezza in meno a frenarla, questa brillante fanciulla dell'Ontario potrebbe puntare – ormai è chiaro – a traguardi ancor più ambiziosi.Pur restando opera di nicchia, Tall Tall Shadow sfiora la vittoria sia al Polaris Prize che ai Juno Awards, di fatto i più importanti riconoscimenti canadesi in ambito musicale. I tempi per un ulteriore scatto in avanti sono maturi e all’inizio del 2016 tocca a Good Advice. Ancora una volta la copertina racconta già molto dell’atmosfera del disco: colorata, accurata, persino maliziosa dietro quel primo, inatteso, tocco di eyeliner, Basia sembra aver dato retta all’implicito “buon consiglio” di chi le imputava la sola pecca di un eccesso di prudenza e mostra di essersi disfatta di una riservatezza che tendeva ormai al proverbiale. Si prenda l’abbrivio di “La La Lie”. Trascinante e luminosa ancora tra Feist e la Merchant, con dalla sua tutto il calore della condivisione, del popolare, del singalong, la Bulat vi tratteggia una nuova ipotesi di pastorale, non esente da congenite tentazioni malinconiche ma al contempo rinfrancata da un tono generale radioso e partecipato, assai lontano dall’aria viziata di certi numeri eccessivamente angusti o introspettivi del passato.
Si mostra anche sensuale e autorevole nelle sortite dell’album, confidenziali ma ormai disinvolte quanto basta. Il modello a questo giro sembra essere la Neko Case viscerale e un po’ valchiria di “Middle Cyclone”. La personalità, insomma, è venuta fuori con caparbietà e la ragazza chiarisce di avere le carte in regola per non rischiare di passare inosservata. “Long Goodbye”, allora, può essere letta come un lungo addio alle troppe cautele di ieri. Jim James è il nome nuovo. Il frontman di My Morning Jacket e Monsters Of Folk suona di tutto, dalle tastiere al basso, dal mellotron al sassofono, e il suo tocco in regia pare aver messo davvero il turbo alla ragazza canadese, per nulla compassata e pronta a far sbocciare pienamente il suo talento. C’è stata, è vero, una semplificazione sul piano del songwriting, una sfrondatura più che altro, e la gamma di sfumature esce in parte ridimensionata. Per un'artista che scelga per una volta di guardare più al pop che al folk, questo non solo non è un male, ma appare una sacrosanta necessità, a patto che non comporti uno snaturarsi o un cedimento alla banalità. Non è il caso di Good Advice, comunque, apprezzabile anche per una produzione che enfatizza solo i dettagli realmente indispensabili, con marcature e cromismi sempre opportuni, tenendo il resto sullo sfondo (alla maniera del più recente – e più angoscioso, in realtà – di Nicole Atkins).Qua e là fanno capolino sottili inserti elettronici, come nelle opere di Hello Saferide ma con una propensione ben maggiore all’infiorettatura, senz’altro aliena all’inquieta malia della svedese. Capita, non per nulla, in un titolo che chiama palesemente all’inclusione (“Let Me In”) ma anche in un congedo tutto all’insegna del lindore angelicato e dell’incanto sospeso, candido, bianchissimo, che riporta quasi in automatico proprio all’aperta contemplazione e al flou della Norlin. Il resto Basia lo fa con quella voce fantastica, oggi più ardita che mai nelle sue evoluzioni. Decorativismo, svolazzi e perizia non le fanno quindi difetto, ma è soprattutto l’umore giubilante a mettersi in mostra in quest’occasione e a segnare a fondo un album contagioso per l’aura positiva che emana (senza scadere nelle pose stucchevoli di una Sally Seltmann, per dire). La più puntigliosa “In The Name Of” riporta alla mente i freschi e non meno riusciti tracciati synth-pop dell’ultima Sarah Blasko, pur con l’esclusiva di un abbagliante senso di pacificazione che è l’autentico valore aggiunto di questo disco. Basia non rinuncia peraltro a qualche passaggio più raccolto, forte di una stilizzazione e un controllo che si dimostrano più che sufficienti. La veste minimalista di “Time” le calza ancora come un guanto, ma non può contenere la nuova verve esplosiva che, alla fine, si prende comunque le sue licenze, mentre “The Garden” è un’altra canzone che si dischiude poco alla volta, emergendo come dalle brume vaporose dell’organo.
Magica e intrigante, la Bulat si reinventa anche come abile creatrice di paesaggi sinestetici. A fare eccezione è solo la calligrafia un tantino leziosa della title track, poco più che l’essenzialità di un sussurro che piano piano si scioglie nel consueto abbraccio, con qualche ovvietà di troppo. Stupisce per l’anomalia la scelta di piazzare i due singoli, “Infamous” e “Fool”, quasi in coda alla lista, ma denota anche una bella sicurezza di sé: in linea con il clima festante ma risoluto il primo, colmo della necessaria meraviglia e di un virtuosismo corale evidentemente irriducibile, abitato con prepotenza dall’eco della signora dei 10,000 Maniacs, nell’incarnazione più irresistibile e zuccherina della carriera (zona “Our Time In Eden”, per intenderci), mentre per il secondo torna d’attualità quella più puramente estatica (“In My Tribe” o “Tigerlily”, quindi).
Parto non facile, Are You In Love? segna il ritorno di Basia Bulat a quattro anni di distanza da Good Advice, un album accantonato dopo la morte del padre e poi rimesso in moto con la conferma di Jim James al banco di produzione. L’approccio stilistico è ancor più ricco di pathos, la voce quasi predomina sulla materia musicale, il flusso emotivo è così intenso che a volte sembra che l’artista non riesca a contenerlo.
Lo slancio romantico di “Electric Roses” e il pop sbarazzino e insolitamente danzereccio di “Your Girl”, sono il termometro dell’ennesima mutazione della cantautrice canadese, che risulta più convincente quando riscopre la sua devozione per Natalie Merchant in brani come “Light Years”, “Pale Blue” e la title track.
Jim James prende a modello Phil Spector, incorniciando la voce di Basia Bulat con atmosfere al limite dell’esotico d’antan in “Homesick” o compiendo un vero e proprio balzo nel passato con il funky-soul di “No Control”, che in questa chiave di rinnovamento di atmosfera e stile risulta la prova più convincente.
Are You In Love?, è senza dubbio l’album più ricco di Basia Bulat, ma anche quello meno incisivo dal punto di vista delle composizioni, troppa carne al fuoco ed un cantato spesso sopra le righe, mettono spesso a dura prova l’ascoltatore, indeciso se dare fiducia e stima ad un’autrice indubbiamente dotata o se desistere dal percorso a ostacoli del nuovo progetto. Non mancano in verità autentiche perle, come la magica e vaporosa ballata adagiata “Already Forgiven”, ed anche la conclusiva “Love Is At The End Of The World” rinnova vecchie buone vibrazioni, alfine Are You In Love? tra alti e bassi conferma il talento dell’autrice canadese.
Il mimetismo ancora una volta sbalordisce, ma non toglie forza alle doti espressive di una cantante che, ora più che mai, ci sentiamo di ascrivere tra le più brillanti della sua generazione.
Contributi di Lorenzo Righetto ("Heart Of My Own"), Gianfranco Marmoro ("Are You In Love?")
Basia Bulat Ep(autoprodotto, 2005) | 6 | |
Oh, My Darling (Rough Trade, 2007) | 7 | |
In The Night Ep(Rough Trade, 2008) | 6 | |
Heart Of My Own(Secret City, 2010) | 6,5 | |
Tall Tall Shadow(Secret City, 2013) | 7 | |
Good Advice (Secret City, 2016) | 7 | |
Are You In Love?(Secret City, 2020) | 6,5 |
A Secret (live, da Oh, My Darling, 2007) | |
In The Night | |
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