Non solo Super Furry Animals.
Una trattazione monografica che intenda ripercorrere le gesta di Gruffudd Maredudd Bowen "Gruff" Rhys, che della mitica compagine psych-pop-rock gallese era ed è il condottiero indiscusso oltreché l'autentico motore creativo, non potrebbe prescindere da un sottotitolo come quello. È vero, alla testa dei Furries Rhys ha scritto, suonato e cantato le pagine più indimenticabili della propria carriera, nel corso di un quindicennio impareggiabile per inventiva ed esplosività. La prolungata pausa nelle attività della band, unita all'instancabile attività ideativa del suo frontman, spesa ad ampio spettro tra i mille rivoli di una progettualità (non solo) musicale a dir poco vulcanica, testimoniano peraltro quanto sarebbe ingeneroso liquidare la sua intera avventura di songwriter limitandosi a quel segmento pure così fortunato. A essere sinceri non andrebbe dimenticata neanche la prima appendice, quella giovanile e orgogliosamente autoctona dei Ffa Coffi Pawb, ma è tutta un'altra storia e finirebbe col portarci parecchio fuori strada. Quel che ci preme rilevare è come anche negli anni della maturità, a successo assicurato, Gruff abbia saputo offrire ai suoi estimatori album estremamente originali pur allontanandosi, nei limiti del possibile, dai consolidati cliché e dall'arrembante psichedelia del gruppo grazie al quale verrà ricordato.
Figlio di una coppia di poeti profondamente legati alle tradizioni culturali e idiomatiche del Galles, Rhys non poteva che soffrire la riduttiva etichetta di rockstar ed è quindi inevitabile che si sia reinventato nei panni del moderno bardo, non solo cantautore ma anche esploratore di luoghi, linguaggi e forme d'arte, spesso e volentieri a zonzo per il mondo ma con la terra natia a funzionare come irrinunciabile bussola del cuore.
Io canto da solo
La prima licenza dal quintetto si concretizza solo nel gennaio del 2005, a una decina di anni dall'inizio dei giochi, quando il cantante pubblica su Placid Casual Yr Atal Genhedlaeth. Quello all'esordio solista è lo stesso Gruff dei Super Furry Animals, ma in confezione povera e con l'arrembante vestitino freak tirato fuori dall'armadio per l'occasione. Questa raccolta di pop scarruffato in bassa fedeltà attacca con una micidiale canzonetta, "Gwn Mi Wn", che è tutta refrain e bene inquadra lo spirito. Frammentario, ruvidino, stropicciato e sempre al limite dello scherzo come gli amici Gorky's Zygotic Mynci, Rhys ha buon gioco soprattutto nella presa contagiosa di un melodismo ai limiti della sfrenatezza, oltreché nella simpatica, canagliesca stravaganza di quella sua weirdness galoppante. Chiaramente non è chiamato a stravolgere la sua cifra e infatti si limita a infiorettare le ottime intuizioni nella dote e a recitare se stesso senza filtri di sorta. Non mancano passaggi più ruspanti e ballabili, ritmati dalla drum machine ma sempre galvanizzati dalla prodigiosa propensione al singalong del gallese ("Rhagluniaeth Ysgafn"), così come le valvole di sfogo più rumorose e senza fronzoli (l'adorabile "Y Gwybodusion", esaltata da un organetto sbuffante scippato a un bambino) o gli occasionali episodi di più austero intimismo, su tutti il congedo "Chwarae'n Troi'n Chwerw" (che pure non rinuncia a quel suo radioso tono confidenziale, né al magnetismo di una musica agreste e magicamente senza tempo).
Le sporcature sintetiche umanizzano qualche cantilenante e miniaturizzato splendore aulico, un po' come faceva Jason Lytle nei Grandaddy (e come farà a breve nella sua avventura in solitaria). Laddove l'elettronica pidocchiosa sia invece omessa, il Nostro incanta con la purezza della semplicità o la sublime fragilità, come nel gioiellino "Pwdin Wy 2" o nel folk al cristallo di "Ambell Waith", davvero dalle parti dell'Euros Childs più ispirato. Sarà anche senza pretese come debutto a proprio nome, ma l'intrattenimento offerto resta di grana finissima e le buone suggestioni raccolte nella mezz'ora scarsa di tragitto si dimostrano notevoli, squisite come la bucolica cantilena alla saccarina di "Ni Yw Y Byd". Il psych-pop squinternato di Gruff non tradisce l'estetica Furries confinandola piuttosto in una dimensione domestica, con risultati piacevolmente caciaroni e pasticciati che creano un pregevole contrasto con i frangenti più "alati".
Chiusa l'esperienza del gruppo principe con la Sony, Gruff e compagni si accasano alla Rough Trade, etichetta che licenzia nell'arco di pochi mesi sia "Hey Venus!" che il sophomore del cantante, Candylion.
Già solo l'accuratezza delle stramberie lascia intuire che si tratti di un lavoro più rifinito. Se riesce a dir poco delizioso il folk-pop della title track, dove, aiutato da arrangiamenti ariosi ma sostanziali, il cantante si serve del registro fiabesco pur senza eccedere in svenevolezze, l'istrionismo easy listening certo non manca, per quanto venga esercitato in una dimensione raccolta e prevalentemente in acustico, con più di qualche occasionale slancio bandistico che rende il tutto contagioso e sempre piuttosto irresistibile ("The Court Of King Arthur").
Non un tripudio vero e proprio, quindi, bensì un'operina misurata che opta per le cromie tenui piuttosto che per i colori accesi e chiassosi della sua band; un piccolo disco straordinariamente fresco e vario in cui risplende tutto l'incontenibile eclettismo di un cantautore tanto anomalo quanto fantasioso, preservato dagli inciampi nella maniera grazie al suo raffinato talento di songwriter e arrangiatore onnivoro, equilibrato anche nella propensione al teatro. Le bislacche deviazioni rientrano da sempre nelle corde di un sofisticato artigiano del pop che pare esaltarsi quando sceglie di decorare i propri brani con svolazzi d'archi.
In questa occasione si svaria dalle sottili trasfigurazioni folktroniche di "Con Carino", adottate per una quantomai opportuna saturazione, alle prelibatezze corali assortite e alle tentazioni cinematografiche anni Sessanta di una "Painting People Blue", passando per il centrifugato stilistico (con tentazioni jazzy) di "Now That The Feeling Has Gone" o il gigionismo in zona country-western di "Lonsome Words", con esiti maccheronici ma anche squisitamente ispirati.
L'intonazione si mantiene leggera in modo formidabile, tra una strizzata d'occhio al Beck di "Tropicalia" e quel debole per la filastrocca, il disimpegno scherzoso ai limiti del plateale ("Gyrru Gyrru Gyrru"), e in fondo Rhys non riesce meno amabile quando torni a presentarsi in ciabatte, frammentario, dispersivo ma quasi casalingo nelle sue giocolerie ("Ffrwydriad Yn Y Ffurfafen"). Certo l'elegante fattura sconfessa in parte la confezione più spartana dell'esordio e si impone come autentica costante di Candylion, al pari del proverbiale vizio per la digressione curiosa.
L'album sembrerebbe trovare una parvenza di normalità giusto in coda con la verbosa favoletta di "Skylon!", non fosse che il cantastorie si diverte a tirarla in lungo per un quarto d'ora (peraltro senza annoiare nemmeno un po') con tanto di spoken word e lussureggianti accompagnamenti strumentali.
Ed ora qualcosa di completamente diverso...
Certo Gruff Rhys non è il tipo cui piaccia restarsene con le mani in mano. Neanche il tempo di metabolizzare il rimpiattino pazzesco tra uscite soliste e con i Super Furry Animals, ed eccolo sbucare fuori inopinatamente in tutt'altro luogo con una collaborazione a dir poco spiazzante dopo quella ormai remota con i Mogwai di "Rock Action". Primo di una lunga serie che ce lo proietterà sul dancefloor dei Simian Mobile Disco di "Temporary Pleasure", tra i fantasmi di Danger Mouse e Sparklehorse nell'indimenticabile "Dark Night Of The Soul", ebbro di hip-hop sulla spiaggia di plastica dei Gorillaz in un duetto con i De La Soul, oppure ospite a sorpresa sul palco del concerto autocelebrativo dei Manic Street Preachers alla O2 Arena di Londra nel 2011, il sodalizio con il dj, produttore e remixer californiano Bryan Hollon, in arte Boom Bip, rappresenta anche l'unica animazione collaterale a portare frutti discografici su lunga distanza, se omettiamo il più che trascurabile album partorito assieme al brasiliano Tony Da Gatorra qualche tempo dopo.
Dopo una prima partecipazione vocale nel disco di Hollon del 2005, "Blue Eyed In The Red Room", Gruff e il suo compare lanciano l'avventura Neon Neon nel 2008 facendo un discreto baccano, un po' per la solita messe di comparse (Fab Moretti degli Strokes, Spank Rock e altre eterogeneità assortite), molto per l'esplosiva freschezza della proposta che li porta dritti a una nomination ai Mercury Prize, ma anche per l'idea di confezionare un synth-dance concept parecchio bizzarro, incentrato sulle gesta del dissennato car designer e playboy americano John DeLorean. Roboante eclettismo eighties ("I Told Her On Alderaan"), pacchianate per vocoder ("I Lust U", duetto frizzantino con la conterranea Cate Le Bon), scattanti ibridazioni tra classic-rock, tribalismo ruffiano, chillwave e hip-hop inquadrano in Stainless Style (fuori per Lex, sussidiaria Warp, nel marzo 2008) un lavoro piuttosto guizzante, originale e divertente in cui del Rhys "ortodosso" non si scorgono che poche tracce pure adulterate, come nella notevole "Steel Your Girl".
L'inventiva incontenibile del musicista gallese, frattanto, si è già spostata in altri lidi. Nel 2010 viene presentato un film indipendente realizzato da Dylan Goch nella forma di un bizzarro documentario incentrato sul recente viaggio in Patagonia di Gruff, conciato come la versione tarocca di un Power Ranger. Tra umorismo, indagine storica, anomalo canzoniere e strampalata raccolta di gag kitsch, "Separado!" adotta come pretesto la caccia a un oscuro autore di canzonette pop e ballate gallesi (cantate nello stile dei cowboy delle Pampas), René Griffiths, di cui si sono perse le tracce proprio in quella remota regione argentina sul finire degli anni Sessanta e che Gruff sostiene fosse un suo lontano parente. È anche l'occasione - tra un siparietto con lo scozzese King Creosote e uno con lo sconosciuto artista brasiliano Tony Da Gatorra - per raccontare la vicenda di un buon numero di emigrati che lasciarono il Galles a fine Ottocento cavalcando l'utopia di un paradiso libero dagli inglesi e si imbatterono in un arido deserto.
A proposito dello strampalato Da Gatorra, lo stranito pantagruelismo pop psichedelico di Rhys parrebbe poter trovare il suo ideale accompagnamento proprio nella musica dell'electro-freak sudamericano, verso il quale il gallese nutre una sorta di venerazione. L'ipotesi di una collaborazione è accolta assai favorevolmente dal carneade paulista e così Gruff, conclusa l'esperienza argentina di "Separado!", si concede una piccola deviazione prima di rientrare nel Regno Unito.
Registrato in una manciata di ore dopo qualche giorno trascorso in combutta a San Paolo, al loro primo incontro dopo quello sul set, The Terror Of Cosmic Loneliness rispecchia in effetti lo sconclusionato sodalizio di due musicisti separati da una insormontabile barriera idiomatica e destinati a intendersi, per via esclusiva, attraverso la musica (oltreché a gesti). Sfortunatamente non si può dire che la missione sia proprio delle più riuscite: il risultato, parecchio al di sotto delle aspettative, marca un dischetto electro-punk miserabile - da favela più che da favola - con abbondanza di rumenta cacofonica, sperimentalismi balzani, funk ipnotico e ritmiche industriali.
Dando credito a quel "Vs" riportato nell'intestazione e in copertina, le divergenze artistiche e di background tra i due interpreti spiccano rispetto agli esigui punti di contatto, dando forma a un affresco trash parecchio disarmonico in cui Gruff si fa apprezzare più che altro per gli invertebrati contributi di un'elettrica à-la Neil Hagerty. A primeggiare è purtroppo Da Gatorra, sorta di via di mezzo tra un agitatore avanguardista e straccione, Alan Vega, Alejandro Jodorowsky e un improbabile eroe da rivoluzione sudamericana. Il suo surreale e misticheggiante tono da etno-hippie fuori tempo massimo ammorba una raccolta senza capo né coda - il cui ideale manifesto è "Eu Protesto" - trascinando con sé anche qualche buona idea visionaria del gallese ("In A House With No Mirrors" più che l'allucinata e sempre minacciosa "Oh Warra Hoo!"). Non fosse abbastanza, il tizio sproloquia di capitalismo e amore cosmico accompagnandosi con un incombente strumento di sua ideazione - in parte chitarra, in parte drum machine - ribattezzato Gatorra con non troppa originalità (e già smerciato in precedenza, nei suoi quindici minuti di gloria, a qualche piccola celebrità come Nick McCarthy dei Franz Ferdinand).
L'amore per i concept dà solo buoni frutti
Ormai è chiaro, quando è in licenza dai suoi compari Superpelosi, Gruff sembra avere un debole per i progetti eccentrici ma dalla precisa identità artistica, ideali per un affabulatore di caratura superiore come lui. Forte di un nuovo concept creativo e autobiografico semplicemente superbo, il nostro sceglie allora di raccontare in un disco, terzo in solitaria per lui, il suo punto di vista di privilegiato a contatto con quell'insana routine di attimi e relazioni fuggenti che è poi la vita dell'artista giramondo. Dio solo sa quanti alberghi nei cinque continenti ne abbiano accolto i sonni in oltre quindici anni di onorata carriera, e quanti gadget e ricordini lo abbiano seguito da quelle camere fino in Galles. Non tutti quei saponi, quegli shampoo, quelle ciabatte e cuffiette per doccia hanno l'onore di finire nel bizzarro sacrario realizzato dal cantante e venduto come fumo a una nota galleria d'arte di Cardiff, con abile operazione promozionale, ma è certo che fossero veramente una legione.
Al di là della simpatica fuffa pubblicitaria, il leader dei Super Furry Animals regala con Hotel Shampoo (fuori per Turnstile il giorno di San Valentino del 2011) un concreto asilo alla sua anima di musico randagio, plasmando questa splendente collezione di gemme easy listening, supportato da un progetto grafico geniale per davvero, di quelli che farebbero la gioia dei semiologi.
Dio solo sa, si diceva. God Only Knows. Ecco. Non per caso si va sempre a inciampare nelle melodie impossibili di quei Beach Boys, nella magia di una musica leggera che sembra poter arrivare proprio dappertutto. "Pet Sounds" è sempre stato molto più che un semplice disco: un genere a sé, una visione, un'utopia forse. Qualcosa che Gruff deve aver inalato mentre scriveva questo piccolo album, qualcosa che rifulge in controluce e disegna sorrisi, l'anidride carbonica che saluta la bibita e ti si libra trionfante su per il naso. Hotel Shampoo funziona per una caterva di motivi così insignificanti da risultare imprescindibili. Allieta allitterando, per dire, ha in custodia titoli fantastici e ostenta carisma a tutto campo, come l'affabile primo della classe che ti conquisti a suon di goliardate e di compiti in classe gentilmente offerti. Abbaglia la linearità di ogni trama, i grani dorati del rosario sono semplici e semplicemente decorati. Scivolano fra le dita uno via l'altro, con tanta sfacciata nonchalance da avvalorare l'impressione che nulla al mondo sia più facile che comporre canzoncine ipercatchy come quelle a marchio Rhys. I numeri in colore lunghi due minuti e mezzo finiscono con l'incarnare la modestia nella perfezione anche meglio degli zero a zero del leggendario Annibale Frossi: partita sublime quella in cui il disco non si schioda più dal lettore.
La capanna di boccette e flaconcini va forse ripensata come metafora di un fantasmagorico laboratorio sul pop dove giocare senza posa al piccolo clonatore, replicando fragranze vecchie di quarant'anni senza coloranti o conservanti e con una minima percentuale di additivi aggiunti. Sorprende in tal senso l'intelligenza con cui l'elettronica è messa a completo servizio dei pezzi, con interventi parchi e mai invasivi che si adattano a meraviglia al fattivo songwriting di Gruff e dialogano amabilmente con i suoi sfiziosi arrangiamenti. Alterazione dei valori d'orecchiabilità, maliziose sporcature applicate a remoti afflati tex-mex ("Sensations In The Dark"), sottili pacchianerie sintetiche che accentuino il ricordo di un futuristico synth-pop anni Settanta à-la Rod Argent ("Christopher Columbus"). E poi quel senso di ironica e assai gustosa falsificazione che impregna il disco dalla prima nota di "Shark Ridden Waters", acque infestate da squali gonfiabili sotto quello stesso air-conditioned sun di cui vagheggiava Beck qualche tempo fa: il teatro ideale per riassimilare con stile lontane primizie soft-pop come una muffita cover di Bacharach rifatta da un terzetto di carneadi americani, i Cyrkle.
Molta meno caciara rispetto agli standard del suo gruppo. Il barbuto gallese organizza un tranquillo party nella sua camera, alternando senza preavviso la maschera del fantasma dei carnevali passati e quella del moderno indie-popper: garbo e fiati rubati ai Belle & Sebastian ("Take A Sentence"), spiccioli di dandysmo di seconda mano in combutta con Sarah Assbring aka El Perro del Mar ("Space Dust #2", praticamente Stevie Jackson che rifà Bowie con una compagna di classe), un novello Ray Davies in piena estasi wilsoniana ("Honey All Over", titolo eloquente), la melodia straziacuori di chiara deriva Zombies ("Vitamin K", orgasmica) e il Neil Hannon di "Promenade" riveduto e corretto ("At The Heart Of Love"). A mo' di contentino per i fan irriducibili viene inclusa di straforo anche quella che ha tutta l'aria di un'outtake Super Furry Animals - l'acidula e trascinante "Patterns Of Power" - sorta di crocevia tra il sole californiano di Van Dyke Parks e le lande psichedeliche dei conterranei Gorky's Zygotic Mynci. Ma si tratta di un'eccezione. In comune con le compagne ha solo il luogo del concepimento: un letto d'albergo, magari anche modesto. Preservato dalla devastazione idiota degli eterni scavezzacollo e destinato unicamente alla sceneggiatura dei propri sogni.
Siccome il vizietto è conclamato, dopo essersi tolto lo sfizio di comporre la musica per un videogioco ("Whale Trail") Gruff va nuovamente a bersaglio anche in combutta con Boom Bip, a un lustro esatto dalla prima sortita, con l'ennesimo concept dedicato stavolta alla controversa figura del mecenate comunista ed editore italiano Giangiacomo Feltrinelli. Lasciate da parte le escursioni nei territori hip-hop dell'album d'esordio, Praxis Makes Perfect sceglie una forma più sobria e sofisticata, usando come pretesto l'euro e italo-dance solo per imbucarsi nei party dei lussuosi bordo vasca a stelle e strisce a cavallo fra gli anni 70 e 80, fatti di cocktail, prelibatezze e - perché no - di Steely Dan.
Come si può intuire, l'intreccio fra lo stile scelto e il tema trattato è giocoforza stridente, segnando tuttavia un punto importante in termini di originalità. Così come Feltrinelli resta un personaggio discusso e pieno di paradossi, così i Neon Neon danno voce a queste contraddizioni con liriche e melodie volutamente contrastanti a partire dal singolo, la wave-dance sincopata "Mid-Century Modern Nightmare", in cui Giangiacomo è interpretato nientemeno che da Asia Argento che annuncia: "This is Radio GAP - Gruppi di Azione Partigiana" (il gruppo paramilitare capitanato e finanziato da Feltrinelli), di certo un inno un po' troppo festoso per una cellula terroristica.
E questo per non parlare della presa in giro del capitalismo cantata da Sabrina Salerno in "Shopping (I Like To)": probabilmente Giangiacomo non sarebbe stato così sarcastico, ma non c'è niente di meglio che un po' di autoironia, incorniciata in riferimenti che ammiccano al 1987, anno delle super-hit della stessa Sabrina e dei Pet Shop Boys in formato euro-disco di "Actually"; un album che, guarda caso, contiene un brano con lo stesso titolo.
Una copertina che ammicca a quelle che Peter Saville disegna per gli Omd, un sound che fa dello stile la sua cifra peculiare e una storia singolare e serissima tutta giocata sul filo dello humour. Il disco è brevissimo, ma incatena una serie di perle pop all'insegna della qualità più che della quantità, come sempre in questo binomio anglo-americano. Da segnalare certamente "Hoops With Fidel", un gioiellino tra Joe Jackson e Alan Parsons Project che, tra cambi di ritmo e atmosfere paradisiache, immagina Giangiacomo a Cuba che si rilassa giocando a basket con Fidel Castro.
"Doctor Zhivago", invece, un pezzo che sarebbe stato una hit degna dei Tears For Fears negli anni 80, racconta delle difficoltà politiche incontrate da Feltrinelli nel pubblicare il capolavoro di Pasternak, osteggiato in ogni modo dai funzionari dell'Unione Sovietica. I Neon Neon hanno fatto i compiti sulla monumentale biografia dedicata a Feltrinelli ("Senior Service", scritta dal figlio), facendo di Praxis Makes Perfect un pop album che fa anche un po' da bignamino storico. "The Leopard", "Listen To the Rainbow" e "Ciao Feltrinelli" chiudono su toni più nostalgici e delicati ("tipo una Gloria Estefan annacquata", come dice Rhys in un'intervista), ma altrettanto incantevoli.
Passato leggendario e apocalissi venture
Non trascorre che un anno. Fedele al proprio bernoccolo per le svolte impreviste e all'insofferenza patologica verso qualsivoglia principio di linearità, nel 2014 il Nostro moltiplica la posta in gioco con uno sforzo creativo che, considerata la grandeur progettuale dell'insieme, sarebbe riduttivo definire ambizioso.
Oggetto della sua proverbiale mania di sceneggiatore sono in questo caso le vicissitudini dell'esploratore e cartografo John Evans, presunto avo di Gruff, che nel Diciottesimo secolo cercò invano lungo il corso del fiume Missouri le tracce di una fantomatica tribù discendente del principe Madoc del Galles (che, stando alla leggenda, sarebbe giunto in terra americana con oltre tre secoli di anticipo su Cristoforo Colombo), dando vita a un'incredibile avventura a piedi nella natura selvaggia (una sorta di "Into The Wild" ante litteram) e offrendo un contributo assai prezioso - col senno di poi - alla fortunata spedizione verso il Pacifico di Lewis e Clark.
Due anni prima Rhys ha compiuto una sorta di pellegrinaggio a tema condito da una serie di concerti negli stessi luoghi, con tanto di presentazione PowerPoint e pupazzo dell'antenato (investigative concert tour), e dall'esperienza di questa "duplice odissea" ha poi tratto un documentario, un libro (definito psychedelic historical travelogue, di fatto il suo secondo diario di viaggio dopo l'escursione in Argentina di "Separado!"), una app (!) e naturalmente un album vero e proprio, American Interior: un disco solido anche a prescindere dalla vena pioneristica e da quel filo rosso che lega i vari brani, un'opera al solito audace e divertente, con a margine riflessioni tutt'altro che banali sul senso d'identità, individuale e nazionale, sulla mistificazione di chi dia forma a un mito per soli interessi politici, e sui confini labili che separano, non di rado, storia e leggenda.
Tantissima carne al fuoco, insomma, e consueto superlavoro per il recensore cui spetti l'onere di un'adeguata trattazione ad ampio raggio. Archiviati però gli ingombranti preamboli concettuali, resta da rendere conto della parte prettamente musicale, ambito che vedrà per forza di cose semplificate le prospettive dai limiti stessi di un personaggio così riconoscibile, nonostante (e per merito di) una creatività onnivora e fervida come raramente se ne incontrano. Che il punto di partenza sia lo stesso pop sofisticato e viscoso del fuoriclasse di Hotel Shampoo lo suggerisce la title track, tra malinconiche reminiscenze Electric Light Orchestra, straordinaria morbidezza nel tocco, rutilante chitarrismo e armoniose decorazioni d'archi, impressione poi ribadita a più riprese da un'interpretazione sempre tendente al velluto (si veda in "Liberty" l'apoteosi di tanto scintillante crooning dagli anni dorati, quelli delle ubriacature in soft-focus, dei lustrini brillanti e gli spectorismi a profusione). Ancora più limpido è quell'altro numero a elevato coefficiente di tipicità che risponde al titolo di "The Last Conquistador", la cui ambientazione riporta con prepotenza ai tardi Seventies mentre seduzioni pianistiche e moderati ciangottii di complemento arredano la scena, ma non meno deliziosa appare la scaltra e abbacinante "The Swamp", con la sua tastierina rubata ai Grandaddy e un'autentica perla di ritornello.
L'elettronica falsifica con gentilezza una nuova rassegna di canzoncine frivole ma implacabili, a base di arzigogoli armonici, micidiali refrain in falsetto e consueta inclinazione alla pacchianata, squillante ma di classe - "The Whether (Or Not)", paradigmatica. Affettato e nondimeno intelligente, Rhys si conferma artista che ama spiazzare grazie ai più inattesi cortocircuiti, incroci contradditori di alto e basso, nobile e infimo (dettaglio comprovato dagli effetti dozzinali che orlano un po' tutti gli episodi), e da sempre si prodiga nel confezionare operine kitsch di grandiosa levatura: intriganti, ben congegnate, eccentriche e profondamente radicate in una vivacissima dimensione retrofuturista, per come sanno combinare l'instancabile revival con una sensibilità, un gusto per la sperimentazione e il meticciamento, che non si potrebbero immaginare più attuali: se sono emblematici i Fleetwood Mac che incontrano il modernariato synth-wave dei Neon Neon in "Lost Tribes", secondo la stessa logica non apparirà meno notevole "Iolo", sorta di spaghetti-western sinfonico che vede Gruff cannibalizzare l'ossessivo autismo del suo omologo yankee Wayne Coyne, migliorandolo, inglobandolo mirabilmente nel quadro di un'orchestrazione a tutto campo.
Curioso che si citi pur di sfuggita il frontman dei Flaming Lips a proposito di un album che registra un innegabile apporto di follia e robustezza dietro ai rullanti proprio per merito del (recentemente epurato) batterista della band dell'Oklahoma, Kliph Scurlock. Un contributo determinante il suo, ne sono una prova i ritmi arrembanti di "100 Unread Messages" in aperto contrasto con l'infettivo populismo di stampo rockabilly che il brano ostenta. Il risultato, in questo caso, è un irresistibile pastrocchio, incrocio bislacco di traditional e smaccato easy-listening, confezionato con spavalda veracità battendo a tratti la medesima pista di esplorazione Americana già percorsa ai tempi del gustoso "Love Kraft".
Ancora una volta è fortissimo l'effetto-diorama, pure chiaramente ricercato. Rhys costruisce il contesto con una precisione che ha del maniacale, ma è poi l'indole goliardica caratteristica dei Super Furry Animals a denunciare la natura finzionale di questi mirabolanti artifici e a regalare loro un alito di vita vera, antidoto smaliziato e antiaccademico ai rischi della maniera. Il culmine, in tal senso, arriva con "Allweddellau Allweddol", che spinge apertamente verso il tribalismo, la propulsione etno-pop, l'esotismo da battaglia à-la M.I.A., con in supplemento un pizzico appena di weirdness gallese stile Gorky's Zygotic Mynci (ma si potrebbe citare anche il vecchio "Mwng", per restare in tema).
Nelle battute conclusive, in numeri a velocità più blanda (che gli riescono sempre egregiamente), il cantante si muove come col pilota automatico. Anche così il suo leziosismo riesce tuttavia scevro da connotazioni che non rientrino nella sfera dell'aggettivo "entusiasmante" e offre anzi all'ascoltatore una prospettiva più rilassata sul suo navigato istrionismo, tra trucchi svelati al ralenti nel singalong e rinnovati languori tradizionalisti in un finale che sa di lenta dissolvenza country.
Come suonerebbe "American Interior" se Gruff non avesse finito per ritrovarcisi troppo coinvolto, procrastinando inevitabilmente il ritorno della sua band (assente dal 2009), non lo sapremo mai. Sappiamo però come suona anche senza gli altri animali superpelosi. Beh, in qualità di premio di consolazione, preme riconoscere che non è niente male.
Tanto per cambiare, il biennio che segue è piuttosto intenso e vede il gallese muoversi a trecentosessanta gradi. Tra il 2015 e il 2016 Gruff toglie la polvere al vecchio Candylion, rivisitato con qualche aggiunta per uno spettacolo interattivo, "The Insatiable, Inflatable Candylion", a metà strada tra concerto e teatro, coprodotto dal National Theatre Wales. In pochi mesi vengono inoltre pubblicati la colonna sonora (tra folk e jazz) del film biografico "Set Fire To The Stars", interpretato tra gli altri da Elijah Wood e incentrato sulla figura del poeta (ed eroe nazionale) Dylan Thomas, oltre all'estemporaneo singolo "I Love EU", a sostegno della campagna per il Remain nel referendum consultivo del 23 giugno 2016 sulla permanenza del Regno Unito nell'Unione Europea.
A tal proposito sembra quantomeno improbabile che per un artista generosamente impegnato in prima linea come Rhys, l'ombra della Brexit non abbia avuto alcun peso nell'orientare un album marchiato a fuoco dalla sfiducia quale è il successivo Babelsberg, concept su un Galles post-apocalittico, che trasuda disincanto, afflizione e amarezza nei confronti dell'avvenire ma li dissimula attraverso i consueti occultamenti pop, se possibile spingendone l'adulterazione alle estreme conseguenze.
Tornato sotto l'egida della Rough Trade dopo una decina di anni, il Nostro ha voluto fare le cose in grande, arricchendo le nuove ballate con grandiose orchestrazioni e servendosi di un'intestazione particolarmente evocativa, appuntata in occasione del tour nordamericano del 2014 e rivelatasi assai preziosa nella fase di sconforto in cui il disco è nato, allorquando era in cerca di un titolo che evocasse la vertigine di una moderna Torre di Babele - tra isteria collettiva e allegorie da flagello biblico - poi contrappuntata a dovere da rari squarci di ironica grazia e da una sottile vena di speranza.
Registrata in tre giorni da Gruff e dal fido batterista Kliph Scurlock all'inizio del 2016, in compagnia del produttore Ali Chant e dei polistrumentisti Osian Gwynedd e Stephen Black, la raccolta ha dovuto attendere circa diciotto mesi per essere completata dai contributi che l'autore aveva in mente per stemperare le tentazioni più ciniche, quelli del compositore Stephen McNeff e dei settantadue musicisti della Bbc National Orchestra of Wales. Musicalmente rigoglioso ed eclettico, il risultato presenta più di un omaggio, tra i solchi, a Scott Walker, Lee Hazelwood, Harry Nilsson e Jimmy Webb. E questo sin dall'apertura, dove le prospettive ariose disegnate dagli archi e dai cori suggeriscono la prominenza scenografica di un lavoro che gioca magistralmente con le volumetrie, senza per questo risultare eccessivo, ridondante o teatrale. L'impronta sofisticata dona non poco a un interprete brillante come il gallese, abile a far fruttare l'eleganza e il lindore della parte strumentale ma senza silenziare del tutto una innata vocazione alla weirdness e alla psichedelia.
Il crooning baritonale di Gruff tende a farsi ancora più ombroso, ma gli accompagnamenti sinfonici ne compensano gli sprofondi contribuendo a innescare cortocircuiti formidabili all'ascolto. Il saliscendi cui l'artista sottopone il fruitore rende la vivacità anche emotiva di un'opera che è tutta animata da questi intensi contrasti chiaroscurali, tra aspirazioni luminose al riscatto e l'accomodante lusinga dello sconforto. Da "Oh Dear!" a una frenetica "The Club", che non rinuncia alla sua convincente inflessione malinconica ma neppure indulge in pose affettate o rinunciatarie, le cadenze restano movimentate e frizzantino il mood, mai troppo distante da quello caloroso e confortevole dei Belle & Sebastian cui lo avvicinano una propensione quasi cinematografica, la giovialità bandistica e le tinte pastello assicurate dai fiati.
Languido come un Ray Davies in piena sofisticheria Tin Pan Alley ("Take That Call", che ricicla gli animali superpelosi di "Ohio Heat"), persino ampolloso quando un cantato che si finge inespressivo viene galvanizzato da fiabesche architetture ("Drones In The City"), impressionista finché i pirotecnici refrain killer non dicono il contrario ("Architecture Of Amnesia"), il cantastorie dal "cuore in edizione limitata" ritrova a tratti la squisita fattura e le preziose connotazioni artigiane del suo indie-pop cameristico: confidenziale, affabile e delicato, pur senza scadere nella svenevolezza, romantico fino al midollo ma preservato da quell'umorismo squinternato che smussa l'asprezza delle parole. Nelle battute conclusive questo esercizio di occultamento tende al sublime, specie quando una ballata deliziosa ("Negative Vibes") infioretta un altro abisso tascabile e Rhys si concede uno dei suoi proverbiali volteggi alla saccarina, con grazia inarrivabile. Lo scherno visionario di "Selfies In The Sunset", con il vezzo di un'ultima posa sorridente davanti all'abbagliante splendore dell'olocausto nucleare, rappresenta la degna conclusione di questa ideale colonna sonora per la fine del mondo.
Con il successivo album Pang! Gruff Rhys si diletta a mescolare le carte con un progetto dalla struttura chamber-folk e insolitamente etnica. N'Famady Kouyaté, Muzi , Gavin Fitzjohn , Kliph Scurlock e Gruff Rhys sostituiscono la grandeur dell'orchestra del precedente album Babelsberg con un insolito ensemble cameristico. Pang! è senza dubbio l'album più atipico della discografia del musicista, un mix di folk-pop, musica africana e bossa nova reso ancor più eccentrico dalla voluta frammentarietà delle composizioni.
Trenta minuti di sano eclettismo che forse non lascia il segno come altre opere del gallese, e che risente della collaborazione di Gruff Rhys al progetto di Damon Albarn's Africa Express "Egoli" (2019).
Con Seeking New Gods il burbero Rhys ritorna in scena con l'ennesimo album concept: una biografia del Vulcano Mount Paektu? Lo spirito beffardo e la deliziosa svenevolezza melodica sono al servizio di un raffinato piglio artigianale, che ad ogni ascolto lascia intatta l'avvenenza delle nove tracce, svelando dopo più ascolti un'effervescenza artistica più tipica di un esordiente.
Il fascino solitario di montagne e vulcani è descritto con melodie avvolgenti come la nebbia ("Can't Carry On"), vivaci surf-pop intrisi di synth e malinconia ("Loan Your Loneliness"), citazioni post-punk (gli Xtc in "The Seek"), aspri garage-pop dai tratti psichedelici e glam ("Hiking In Lightning"), e caleidoscopiche mini pop-opera degne dei migliori Kinks ("Mausoleum of My Former Self").
Pur non rinunciando a un lieve disincanto le prestazioni vocali di Gruff Rhys, sono ancor più ricche di sfumature e rifiniture, soprattutto quando a tenere il banco è l'incedere sicuro e talentuoso del pianista Osian Gwynedd.
A beneficiarne sono sia le incalzanti creazioni più pop, che ovviamente le ballate più melodiche, in primis la title track, e in particolar modo la pregevole "Distant Snowy Peaks", una delle melodie più intense e memorabili mai scritte da Gruff Rhys, un brano che sembra uscito dalla penna di Randy Newman, e che altresì non disdegna una lieve citazione classica (forse Grieg), una perfetta chiosa per uno degli album più ispirati del geniale gallese.
A dare nuovo impulso alla sua vena creativa è la composizione della colonna sonora di "The Almond And The Sea", film indipendente di taglio drammatico, seconda soundtrack dopo quella misconosciuta di "Set Fire To The Stars" di sette anni fa per il musicista gallese, a dimostrazione di un estro imprevedibile e visionario.
L'incipit con violoncello ripreso da Bach farebbe presagire un'opera prettamente strumentale, ma lungo The Almond And The Seahorse (2023) abbondano le canzoni (raggiungendo quasi la metà delle ventitré tracce) che si assestano su un art-pop in cui prevalgono gli strumenti a tastiera, con piano e synth a intrecciarsi in volute minimali ("The Brain And The Body", in cui dialoghi del film vengono usati in funzione spoken word), sull'onda del Brian Eno autore pop con le suggestioni oblique e vagamente orientaleggianti di "People Are Pissed" ad altezza "Taking Tiger Mountain (By Strategy)".
Rhys utilizza registri ludici nel synth-pop dal sound "giocattoloso" di "Layer Upon Layer" e vivaci nell'uptempo folk jazzato di "Sunshine And Laughter Ever After", procurando, pur senza riferimenti diretti, nostalgia dei SFA, alternandoli a squarci lirici à-la Peter Gabriel (i cori malinconici di "Orea"), successivamente gigioneggia come un dandy sardonico nell'elegante chamber-pop di "I Want My Old Life Back", ma raggiunge lo zenit con il pezzo scelto come singolo apripista, "Amen": partenza in sordina con piano e voce a emozioni trattenute, per poi esplodere in un refrain degno dei capolavori melodici del primo Elton John, subito disciolto in morbidezze Brian Wilson, una delle canzoni da ricordare dell'anno in corso in ambito pop, vertice di romanticismo sapientemente smentito dall'ironica canzone di non amore "Liberate Me From The Love Songs", degna della penna sapiente di Stephin Merritt.
Se l'ispirazione di Rhys, da tempo assurto all'aristocrazia del pop britannico, brilla nel formato canzone, nelle composizioni strumentali va a corrente alternata, tra discreti intermezzi classicheggianti più brevi e altri fin troppo allungati: a tratti commuove la luce diafana che filtra tra le filigrane acustiche di "Library To Kiss", mentre si rischia di rimane fin troppo abbacinati dai bagliori finali e affogare nel liquido amniotico ambientale dalle tracce conclusive (precedenti a un'altra versione di "Amen") eccessivamente estese, peccato non veniale che inficia un'opera resa in parte eccessiva e magniloquente, che con maggiore misura avrebbe ambito ai vertici della produzione solista del gallese.
Una piccola stanza, una luce prodotta da un televisore con l'effetto neve sullo schermo e un uomo di spalle, assorto, quasi catturato dal quel bagliore azzurrognolo.
Già la copertina di "Sadness Sets Me Free" del 2024 parla chiaro: l'uomo ritratto, Gruff Ryhs è di umore meditabondo.
Questa immagine è una sorta di premessa che accompagna il ritorno come solista dell'eclettico ex leader dei Super Furry Animals e dei Neon Neon giunto ormai alla sua venticinquesima pubblicazione dall'inizio di una carriera che dura da 35 anni.
Nel suo recente passato il bardo gallese ha dimostrato di saper trasformare qualunque storia in un potenziale concept per i suoi album, dal Vulcano Mount Paektu al confine tra Cina e Corea di Seeking New Gods, alle tumultuose vite di John DeLorean in "Stainless Style" e Gianluigi Feltrinelli in "Praxis Makes Perfect".
In "Sadness Sets Me Free", in mancanza di un soggetto così tangibile, il fulcro della narrazione diviene il suo stato d'animo di scoramento in parte dovuto alle fatiche dell'ultimo tour e in parte alla sfiducia nella classe politica, agli effetti di brexit e all'evanescenza dei valori imperanti.
Registrato in soli tre giorni nei La Frette Studios, situati in una villa del XIX secolo nelle vicinanze di Parigi, "Sadness Sets Me Free" è chiaramente inondato di malinconia e pessimismo, ma sarebbe sbagliato pensare a uno straziante soliloquio di un artista depresso, qui abbiamo a che fare con un giocoliere compositivo armato di ironia, talento e anche una certa esperienza.
Quindi anche se i suoni si fanno più rarefatti del solito, l'impalcatura rimane solida e sempre diretta verso un pop sofisticato, lussureggiante e molto classico, sorretto da stratificati arrangiamenti orchestrali ricchi e ben dosati.
Spicca infatti il chamber pop di "Celestial Candyfloss" che lo stesso Gruff definisce "un tentativo di sinfonia tascabile sulle lunghezze cosmiche che le persone percorreranno alla ricerca dell'amore e dell'accettazione".
Dal falsetto alla Brian Wilson di "Celestial Candyfloss" la voce di Gruff Rhys passa dalle profondità crooner in "Bad Friend", inno all'amicizia tollerante che deve reggere anche quando piove, la birra è calda e le patatine sono bagnate ai confidenziali momenti Bacharach nell'elegantissima "Silver Lining (Lead Balloons)".
La forza della band che si è ormai consolidata con l'ex Flaming Lips Kliph Scurlock alla batteria, Osian Gwynedd al piano e la corista Kate Stables permette escursioni tropicali in "They Sold My Home To Build A Skyscraper", o di addentarci tra chiaroscuri di "On the Far Side of the Dollar" per poi sollevarsi tra gli intrecci di violini e fiati nel crescendo di "Peace Signs".
Reinvent the government/Let's do it on Monday
Anche se i toni rimangono sempre abbastanza soffusi in "Sadness Sets Me Free" Gruff, noto anche per la sua verve europeista, non rinuncia a toccare nervi scoperti con l'utopica tentazione di sostituirsi a tutta la leadership nella morbidissima ma combattiva "Cover Up The Cover Up".
Mai ripetitivo l'ex frontman degli animali superpelosi mette in campo tutto la sua duttilità con il country in punta di pedal steel dell'opening track "Sadness Sets Me Free" il cui verso, titolo dell'album; ritorna nel finale della ninna nanna psichedelica che chiude il cerchio di un album fatto in fretta ma di forte impatto.
Anche se manca una super-hit alla "Demons" e questa forma classica sacrifichi la sperimentazione e l'osare fuori dai canoni, Rhys dimostra di non aver perso il tocco magico e l'appeal melodico, anzi con il tempo sembra aver affinato il tiro, con un album di alto livello e senza cali di tensione.
Riesce così a sposare la sua naturale stravaganza e la sua ironia istrionica con la maturità di chi sa liberare la tristezza dalle faticose catene della pesantezza.
Si ringraziano Marco Bercella e Veronica Rosi per la recensione di "Praxis Makes Perfect", contributi di Gianfranco Marmoro ("Pang", "Seeking New Gods"), Giuseppe Rapisarda ("The Almond And The Seahorse")
GRUFF RHYS | ||
Yr Atal Genhedlaeth(Placid Casual, 2005) | 7 | |
Candylion(Rough Trade, 2007) | 7 | |
Hotel Shampoo(Turnstile, 2011) | 7,5 | |
American Interior(Turnstile, 2014) | 7 | |
Set Fire To The Stars ost(Twisted Nerve, 2016) | 6 | |
Babelsberg(Rough Trade, 2018) | 7 | |
Pang! (Rough Trade, 2019) | ||
Seeking New Gods (Rough Trade, 2021) | ||
The Almond And The Seahorse (Rough Trade, 2023) | 7 | |
Sadness Sets Me Free(Rough Trade, 2024) | 7.5 | |
NEON NEON | ||
Stainless Style(Lex, 2008) | 7 | |
Praxis Makes Perfect(Lex, 2013) | 6,5 | |
GRUFF RHYS VS TONY DA GATORRA | ||
The Terror Of Cosmic Loneliness(Turnstile, 2010) | 4,5 | |
SUPER FURRY ANIMALS | ||
Fuzzy Logic(Creation, 1996) | 7 | |
Radiator(Creation, 1997) | 8 | |
Out Spaced(Creation, 1998) | 7 | |
Guerrilla(Creation, 1999) | 8 | |
Mwng(Placid Casual, 2000) | 7 | |
Rings Around The World(Epic, 2001) | 8 | |
Phantom Power (Epic, 2003) | 6 | |
Songbook: The Singles Vol. 1 (antologia, Epic, 2004) | 6,5 | |
Love Kraft (Epic, 2005) | 6,5 | |
Hey Venus! (Rough Trade, 2007) | 6,5 | |
Dark Days/Light Years (Rough Trade, 2009) | 6,5 |
Epynt | |
Gwn Mi Wn | |
Rhagluniaeth Ysgafn | |
Candylion | |
Gyrru Gyrru Gyrru | |
I Lust U | |
I Told Her On Aldeeran | |
Separado! | |
In A House With No Mirrors | |
Whale Trail | |
Honey All Over | |
Sensations In The Dark | |
Shark Ridden Waters | |
If We Were Words (We Would Rhyme) | |
Hammer & Sickle | |
The Swamp | |
American Interior | |
Lost Tribes | |
Liberty (Is Where We'll Be) | |
The Last Conquistador | |
Iolo | |
Allweddellau Allweddol | |
Tiger's Tale | |
Year Of The Dog | |
100 Unread Messages | |
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Atom Bomb | |
Set Fire To The Stars | |
Frontier Man | |
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