Playlist

La brezza ritrovata dello yacht rock

C'è un vuoto nella storia del rock, almeno per come è percepita al di qua dell'Oceano. Una zona d'ombra che ha la forma ingombrante degli Stati Uniti d'America e una specifica collocazione temporale: gli anni Settanta. Tolti pochi, anzi pochissimi grandi nomi, tendiamo a concepirli come una parentesi, una fase di passaggio che è poco più che un prolungamento dell'era di Woodstock e una prefigurazione delle epoche immediatamente successive. Con il punk - arrivato a fine decennio - a fare da bandierina segnaposto giusto per non lasciare la voragine in bella vista.
Poco convinti? Provate a fare questo semplice gioco. Pensate a dieci nomi rock statunitensi che abbiano esordito nei Seventies e non siano riconducibili a punk, proto-punk, new wave. Tempo scaduto. Chi vi è venuto in mente? Probabilmente molti che abbiano debuttato il decennio prima, e se va bene qualcuno di questi: Bruce Springsteen, Tom Waits, Parliament/Funkadelic, Jackson Browne, Billy Joel, Eagles, Steely Dan, Sparks, Residents, Boston, Kansas, Toto, Styx, Lynyrd Skynyrd, Van Halen (sì, sono quelli con pietre miliari su questo sito). Direte: mica pochi! E se avevo più tempo certamente... Ma provate rifare il gioco coi britannici: nella stessa manciata di secondi, non ne ricordate almeno il doppio?

Le ragioni di questa curiosa amnesia sono molteplici. Alcune hanno a che fare con la distanza culturale e con la ritrosia europea verso alcuni filoni tipicamente statunitensi (dal country al soul); altre sono legate alla damnatio memoriae che la vulgata giornalistica riguardo all'avvento del punk ha imposto alle correnti immediatamente precedenti - col progressive rock a fare da eterno capro espiatorio e una marea di altri stili condannati a una pena ben peggiore: l'assoluto oblio. Dall'altra parte dell'Atlantico, le percezioni storiche sono almeno in parte diverse, ma ciò non ha impedito a una parte importante della produzione rock di quel periodo e dei primi anni Ottanta di finire dritta nei cestoni delle offerte già pochi anni dopo la pubblicazione, e di restarci per quasi quattro decenni.

La rivalsa

A cambiare la situazione è arrivata, dal 2005, la webserie "Yacht Rock" promossa dal sito del festival losangelino Channel 101. Con episodi brevi e un taglio scherzoso, il mockumentary a puntate prodotto da JD Ryznar, Hunter D. Stair e David B. Lyons ha iniziato a riaccendere l'attenzione su uno specifico - ma vastissimo - raggruppamento di artisti accomunato da un suono molto curato legato al rock (spesso a cavallo fra soft- e hard-) ma contemporaneamente anche al jazz (fusion e smooth-) e al soul/r'n'b, con elementi ripresi dal folk e, più tardi, perfino dalla disco music. Gli eroi del nuovo vecchio Pantheon riportato alla luce dalla serie sono musicisti dal background versatile e dalla notevolissima personalità strumentale, spesso turnisti d'élite i cui nomi compaiono su decine o centinaia di dischi: il cantante Michael McDonald (Doobie Brothers), i chitarristi Lee Ritenour e Larry Carlton, divinità batteristiche come Steve Gadd e Vinnie Colaiuta, il percussionista brasiliano Paulinho Da Costa, e poi David Paich, Steve Lukather e i fratelli Porcaro (insomma, i Toto). Ma anche artisti all'epoca di primo piano, riconducibili a generi fino ad allora inquadrati come piuttosto distanti fra loro: Kenny Loggins, Boz Scaggs, Hall & Oates (e, volendo, addirittura il Michael Jackson di "Off The Wall" e "Thriller") in campo pop Christopher Cross e il canadese Gino Vannelli in ambito soft-rock, George Benson, Al Jarreau per lo smooth jazz. Numi tutelari, riconosciuti fin dalla prima puntata e implicitamente trait-d'union fra gran parte dei nomi citati, gli Steely Dan di Donald Fagen e Walter Backer, e soprattutto il loro album del 1977 "Aja", simbolo di eleganza ed efficacia nella capacità di coniugare rock, funk, jazz con una scrittura raffinata e un suono da molti visto - ai tempi e anche oggi - come prodigioso.



Si tratta perlopiù di figure da sempre ben note agli appassionati di Aor (e specialmente del cosiddetto West Coast Sound a cui venivano ricondotti anche Eagles, Crosby, Stills & Nash, Carly Simon), ma quanto scaturito dalla webserie le ha portate all'attenzione di una platea decisamente maggiore. La riscoperta - o forse si dovrebbe dire l'invenzione - del filone deve molto all'efficacia dell'etichetta e all'estetica a cui questa rimanda, su cui la serie di minidocumentari calca abbondantemente la mano: una vita serena e rilassata, fatta di cocktail, camicie aperte davanti, sole californiano e gite in barca a vela, lontana dalle preoccupazioni economiche e sociali ma anche dalle paturnie contemporanee sull'immagine di sé e la fotogenicità a ogni costo. Panfili, palme, abbigliamenti estivi, panorami costieri assolati e semideserti abbondano effettivamente sulle copertine dei dischi yacht rock, ma sia ad alcuni fan d'epoca che a qualche musicista direttamente coinvolto la nuova caratterizzazione retrospettiva fa decisamente storcere il naso. Sul finale del documentario "Yacht Rock: A Dockumentary", diretto da Garret Price e da poco uscito per Hbo, si può sentire Donald Fagen degli Steely Dan rivolgere telefonicamente uno sdegnoso "go fuck yourself!" al regista: dopotutto, l'associazione fra la dolce vita californiana e una cricca di nerd dello studio di registrazione come quella legata agli Steely Dan è una forzatura piuttosto evidente. Ma d'altra parte nemmeno i Beach Boys - indiretti ispiratori di tutta la studio-mania alla base dello yacht rock - si erano mai davvero dedicati al surf. D’altronde, non spetta quasi mai ai musicisti scegliere come l’immaginario collettivo custodirà la loro musica, e forse vale la pena accogliere con interesse questa nuova chiave di lettura, un po’ nostalgica e un po’ ironica, visto che per suo merito un cospicuo tesoro di dischi e canzoni sta finalmente venendo dissotterrato.

La playlist

r22410971271786814_1Esplorare in maniera soddisfacente un territorio tanto ampio richiederebbe ben più di una playlist, e visto il numero di fan all'interno della redazione di OndaRock, la speranza è di riuscire a saziare l'appetito dei curiosi in maniera più articolata in futuro. Per intanto, ottanta tracce possono senz'altro bastare per un'introduzione alquanto sfaccettata.
Le prime sono un'apertura che subito cala gli assi, con quattro nomi inevitabili per delineare il sound di riferimento. Steely Dan, Doobie Brothers, Toto e Christopher Cross sono capisaldi stilistici che ben evidenziano sia i tratti unificanti che gli elementi di personalità che rendono unico ciascun artista del filone.
"Sailing" trascina immediatamente sia nel tema velistico che - soprattutto - in quel mood fra lo spensierato e il malinconico che è una peculiarità identificante del genere. Costruita su una pioggia di none e settime maggiori, favorite dall'accordatura aperta D-A-D-F♯-A-D, la canzone è un deliquio acustico-orchestrale di sospensione e quiete, il ricordo di un tramonto che prende forma da un arpeggio memorabile e si sviluppa su onde morbide e stratificate. "What A Fool Believes" è, forse più di ogni altro, il brano-simbolo della commistione fra pop bianco e r'n'b perseguita dal filone. Il suo "Dooby bounce" - quel passo groovy ma contenuto, caratterizzato un leggero shuffle e giusto un poco di swing - è un marchio che torna in decine di altri brani yacht rock (un esempio in questa compilation è "Steal Away" di Robbie Dupree, che anche armonicamente è quasi un calco) e dà loro una frizzantezza discreta ma irresistibile, alimentata da cromatismi e sincopi equilibrate. La voce di Michael McDonald, brillante ma perennemente velata, è un'altra presenza che diventa presto familiare esplorando il genere: in primo o in secondo piano, ha collaborato a più di duecento uscite discografiche (fra cui incisioni di insospettabili come Elton John, Donna Summer, Wang Chung, Nik Kershaw).

In campo ritmico, pochi batteristi rock possono vantare lo status di culto di Jeff Porcaro dei Toto. Se il celeberrimo halftime shuffle di "Rosanna" è il suo traguardo più venerato, "Georgy Porgy" non è da meno in quanto a iconicità. Con un feel vellutato ispirato ai veterani Paul Humphrey e Earl Palmer, il suo passo behind the beat è un esempio della straordinaria capacità di creare fraseggi rilassati e quasi oziosi (laid-back), eppure incredibilmente trascinanti.
A chiudere il quartetto di presentazione, "Hey Nineteen", singolo estratto dall'ultimo album d'epoca degli Steely Dan, il levigatissimo "Gaucho" (1980). Con il suo luccicante pianoforte elettrico Rhodes, un conteggio (stando alle trascrizioni) di ben 25 diversi accordi e nessun vero cambio di tonalità nel suo sviluppo, il pezzo dà un'idea del livello di sofisticatezza armonica che fa da gold standard per il settore. E fa comprendere come mai nella lista degli "elementi chiave" dello yacht rock individuati dagli ideatori dell'etichetta figuri l'indicazione "no campfire music": notazioni come "E+5/B" o "C♯7+5+9" sono tipicamente assai oltre la comfort zone dell'ordinario chitarrista da spiaggia.

Proseguendo, la tracklist prende una piega non scontata. Nel tentativo di offrire una prospettiva storica assente nella gran parte delle moltissime altre compilation yacht rock reperibili, abbandona momentaneamente i capisaldi per esplorare le radici del filone. Percorre dunque alcune uscite dei primi anni Settanta in cerca di quei tratti distintivi che, combinati fra loro, avrebbero poi dato vita allo yacht sound propriamente detto. Ecco dunque Hall & Oates nella loro fase folkeggiante e nomi come Seals & Croft, sorta di ponte fra sunshine pop e soul bianco, fra i primi a combinare armonie estese, sonorità acustiche e armonie vocali. Oppure Robert Lamm, membro dei Chicago e fra i principali songwriter della band, capace di dare al loro brass rock uno slancio pop limpido, raffinato e beatlesiano, in netto contrasto con la vena più hendrixiana dettata dalla chitarra di Terry Kath.
L'inserimento dei Bee Gees di "Main Course" potrà sembrare improvvido (si invita ad ascoltare però il brano, prima di giudicare!), ma quello della Joni Mitchell di "Court And Spark" è invece indiscutibile: è stato Christopher Cross in persona a certificare l'enorme influenza esercitata sul filone dalla "svolta jazz" della cantautrice, nonché la grande ispirazione data dalla sua frequentissima adozione di accordature aperte.

Il centro

r2404619016591923137565_2Con figure come Boz Scaggs, Bill LaBounty, Kenny Loggins, Stephen Bishop si giunge ad alcuni dei nomi di maggior culto dell'epoca d'oro dello yacht sound. Il piglio elegante, setosissimo, della fase centrale del genere nasce da una convergenza inedita. Da una parte, le doti di scrittura degli autori, affinate alla scuola Brill Building di Burt Bacharach, Carole King, Barry Mann e Cynthia Weil. Da un'altra, la fluidità e le qualità espressive di una nuova generazione di sessionmen capace di attingere a piacimento dal rock e da un'impostazione jazzistica. A fare da congiunzione, la perizia e il talento di un ristretto bacino di produttori dotati di un apparente tocco di Re Mida, capaci di far proprie le intuizioni di grandi studio wiz del decennio precedente come Phil Spector e George Martin: Michael Omartian, David Foster, Jay Graydon, Gary Katz (manco a dirlo, quasi tutti coinvolti a vario titolo nell'impresa Steely Dan). Addentrarsi nello yacht rock è soprattutto giocare a perdersi nella fittissima ragnatela formata dalle carriere di questi protagonisti, siano essi di primo piano, di secondo piano o addetti alle retrovie. Scoprire gli intrecci tra Foster e Graydon nel suono Aor/power-pop degli Airplay (con buona parte dei Toto a supporto) o mettere a fuoco i diversi contributi allo stile flessuosissimo dei Pages (da cui poi sarebbero nati i Mister Mister). E ancora, spulciare la sterminata lista di credits di Steve Lukather e trovarci l'esordio del futuro Chicago Bill Champlin, la colonna sonora del film "Arthur" (in buona compagnia di sua maestà Burt Bacharach e di una parte significativa del cast di questa playlist) e l'unico album di Dane Donohue prima del sorprendente ritorno nel 2024. Oppure, per caso, imbattersi in due copertine di Lp dall'estetica eloquente, ritratte in una vignetta del manga "20th Century Boys" di Naoki Urasawa, e fiondarsi alla caccia di "Cool Night" di Paul Davis e "What You Won't Do For Love" di Bobby Caldwell - fortunatamente ormai molto semplice nell'era dello streaming.

Il fascino suadente dello yacht sound coinvolge anche musicisti dal percorso poliedrico, che hanno avvicinato il loro stile alla smoothness westcoastiana solo in qualche episodio discografico. È il caso dei power-progger Ambrosia dal 1978 in poi, di Billy Joel nel suo "52nd Street" (1978), di Art Garfunkel dalle parti di "Watermark" (1978) e "Fate For Breakfast" (1979), dell'ex-Raspberries Eric Carmen con "Change Of Heart" (1978) e "Tonight You're Mine" (1980). Le date di questi flirt testimoniano, se ce ne fosse bisogno, che il picco di esposizione di queste sonorità risale alla fine del decennio Settanta - proprio il periodo in cui, stando al credo alternativo, "spazzato via tutto" il punk avrebbe ormai convertito l'intera industria pop/rock a un nuovo verbo privo di virtuosismi e levigatezze jazzistiche.

La periferia?

La sequela di nomi proposta finora dovrebbe averlo chiarito: per come lo si è canonizzato a cose fatte, lo yacht rock è stato un campo eminentemente maschile, bianco, statunitense. Sebbene sia innegabile che il nucleo del genere abbia a che fare con un drappello di strumentisti con queste caratteristiche (innamorati però di jazz, funk, soul, r'n'b), la narrazione è stata in larga misura ridimensionata dai fan, desiderosi di ampliare gli orizzonti della propria curiosità musicale. Intanto, anche lo yacht rock ha visto cantautrici e interpreti femminili: è il caso di Nicolette Larson, Valerie Carter, Evie Sands. In secondo luogo, la combinazione di influenze che ha dato vita allo yacht sound ha prodotto frutti anche in altre parti del mondo, alle volte sotto l'influenza diretta del modello statunitense, ma spesso comunque con risultati originali.
La nutrita ala britannica del filone è rappresentata qui dalla cantautrice Judie Tzuke, dal John Miles di "Zaragon" (1978) e dai Vapour Trails, prodotti da Michael Omartian. Oltre che dalla più nota e significativa fra le band albioniche di ispirazione westcoastiana, gli America, il cui sound acquisisce una nitida sfumatura yacht negli ultimi album del sodalizio con George Martin e nei primissimi anni Ottanta.
Facendo un salto in Australia si incontra Peter Allen, il cui "Bi-Coastal" è prodotto a Hollywood da David Foster con l'ausilio dei soliti Toto (e da una serie di altri turnisti d'altissimo bordo). Il tastierista Jakob Frímann Magnússon, invece, è islandese ma sul finire degli anni Settanta studia musica in California e conosce la cricca yacht rock, incidendo il suo "Jack Magnet" nel 1981 con Jeff Porcaro e Vinnie Colaiuta, oltre che con jazzisti leggendari come il bassista Stanley Clarke e il trombettista Freddie Hubbard.

r770768015716449908727La stessa Italia non è del tutto aliena alla tendenza. L'esempio più fulgido è probabilmente dato da Alan Sorrenti, la cui svolta italo-disco di "Figli delle stelle" (1977) e "L.A. & N.Y." (1979) è prodotta da Jay Graydon con il supporto strumentale di David Foster, Mike Porcaro, Michael Omartian. Meno documentabili, ma rappresentativi dal punto di vista stilistico, sono gli accostamenti del Fossati di "Le città di frontiera", del super-turnista Alberto Radius e dei Goblin senza Claudio Simonetti, che mostrano come a cavallo fra Settanta e Ottanta un suono "americano" corposo ma fluido, con un impianto soft-rock ed elementi di funk, r'n'b e disco fosse un'opzione à la page nella nostra scena pop e cantautorale. Tant'è che oggi anche gli appassionati stranieri dello yacht sound vanno a ripescarsi dischi di Pino Daniele e dell'assai meno noto Mario Acquaviva (che nel suo mini-Lp del 1983 ospita una delle prime apparizioni al basso di Nicola Fasani, poi meglio noto come Faso).
La playlist alterna scelte provenienti dal nostro paese con altre proposte esterne all'anglosfera. I rimandi yacht conducono così nel Nordamerica francofono della quebecchese Diane Tell, e in Sudamerica con pesi massimi come i Serú Girán di Charly García e Pedro Aznar (poi nel Pat Metheny Group) o Marcos Valle, protagonista della Música Popular Brasileira che nell'album "Vontade De Rever Você" ospita come bassista e collaboratore Peter Cetera dei Chicago. Poi in Scandinavia con gli svedesi Edin Ådahl, i norvegesi Lava e i finlandesi Broadcast (questi ultimi con testi in inglese e un piglio piuttosto Spandau Ballet), e perfino di là dalla Cortina di Ferro con gli ungheresi Fonograf Ensemble. Ancor più agilmente permetterebbero, a dire il vero, anche una lunga tappa in Giappone: la frangia più jazzistica e westcoastiana del fenomeno city pop in fin dei conti altro non è che una trasposizione dello yacht sound in terra nipponica, se possibile ancor più scintillante e lussuosa. Si rimanda al ricco articolo di OndaRock per un dovuto approfondimento di una scena che, in tempi recenti, ha suscitato un rinnovato interesse soprattutto grazie ai frequentissimi campionamenti in ambito vaporwave.

Fin dai suoi primi passi, inoltre, la categoria di yacht rock è stata impiegata anche per etichettare pezzi e dischi in ambito soul, r'n'b, smooth jazz realizzati da artisti afroamericani. Già la webserie "Yacht Rock" sottolineava il ruolo cruciale per il filone di James Ingram, voce pop/soul e collaboratore ricorrente del produttore Quincy Jones, riferimento assoluto per la black music del periodo. Proprio le strette connessioni tra Quincy Jones, i turnisti legati agli Steely Dan e artisti smooth jazz e funky avevano d'altronde spinto da tempo gli appassionati dello stile West Coast a interessarsi anche a jazzisti come George Benson e Al Jarreau, che proprio in quegli anni avvicinavano al pop-soul la propria formula musicale. Questa intersezione tra West Coast sound e r’n’b era insomma riconosciuta dai fan anche prima della riscoperta legata allo yacht rock, e fra i capisaldi del filone erano citati "I Am" degli Earth, Wind & Fire (prodotto da David Foster con il contributo della consueta cricca) e i Seawind, il cui ensemble di ottoni figura nei crediti di moltissimi dischi yacht.
Più recentemente, appassionati e cultori hanno coniato il termine “yacht soul” per descrivere questa fusione di influenze: come sintetizzato dal gruppo Facebook dedicato, si tratta di una musica “smooth, ben costruita, iper-prodotta e arricchita da un’esecuzione impeccabile, dove l’r’n’b della fine degli anni 70 si è intrecciato con l’Aor per creare un blend perfetto”. Lo yacht soul privilegia sintetizzatori e sezioni fiati rispetto alle chitarre rock, con testi più romantici e sensuali, e un impianto musicale ancor più radicato nel soul, nel jazz e nel funk.

Prosecuzione e riscoperta

L'album più venduto di tutti i tempi è proprio un frutto di questa commistione. "Thriller" di Michael Jackson è prodotto da Quincy Jones nel 1982 e vede la collaborazione di un cast straordinario che include James Ingram, David Foster, Jerry Hey dei Seawind, Paulinho Da Costa e i Toto al completo ("Human Nature", presente nella compilation, porta la firma di Steve Porcaro). Qualche anno più tardi, "The Rhythm Of the Night" dei DeBarge propone un'ulteriore declinazione di questa sintesi, grazie al sound laccatissimo curato - fra gli altri - da Foster, Graydon, Omartian, Steve Porcaro, Paulinho Da Costa e Bill Champlin dei Chicago. È il 1985 e il sound si è senz'altro trasformato: l'equilibrio fra grinta e levigatezza, fra modernità sonora e approccio jazz, ha preso a cedere alle volte verso ballad ultra-zuccherine, altre invece in direzioni decisamente più hard, o ancora di un synth-funk che accentua grandemente lo slancio r'n'b. Anche l'onda lunga della new wave e delle tecnologie dei primi anni Ottanta ha lasciato il segno, seducendo autori, sessionmen e produttori con le possibilità futuribili aperte da supersintetizzatori polifonici come Roland Jupiter-8 e Yamaha DX7 e dai campionatori E-mu Emulator ed Ensoniq Mirage.
Nei brani finali della playlist si coglie soprattutto quest'ultimo lato, con gli episodi di David Pack degli Ambrosia e degli Imperials (band di Contemporary Christian Music di lungo corso) che spingono con forza verso i luccichii ultra-elettronici del nascente hi-tech Aor. Altri, come il pezzo dei Tubes, testimoniano anche un flirt in senso inverso, con artisti inizialmente associati alla new wave che si appoggiano all'ormai consueto pool di musicisti e produttori per abbracciare l'opulenza e la grandiosità dell'Aor.

Lo sposalizio fra pop, rock, smooth jazz, funk, disco, soul segue un nuovo corso lungo gli anni Ottanta, in buona parte al di là dell'oceano: sono in molti, oggi, a riconoscere le vicinanze fra il sound di Steely Dan e accoliti e il sophisti-pop di Sade, Style Council, Simply Red, Blue Nile. D'altra parte, i China Chrisis confezionano "Flaunt The Imperfection" insieme allo Steely Dan Walter Becker e i sophisti-popper britannici Eye To Eye chiamano in cabina di regia Gary Katz, storico produttore della band statunitense. A ben vedere, poi, anche fra Duran Duran, Spandau Ballet e yacht rock c'è palesemente di più delle barche a vela di "Rio" e "Highly Strung". Il look dandy e telegenico è uno dei punti di forza di questa nuova ondata di artisti, molto più a proprio agio nell'era di Mtv rispetto agli yacht rocker che, al netto di qualche copertina peraltro non sempre riuscita, non hanno mai fatto del proprio aspetto un cavallo di battaglia.
Anche negli States, comunque, l'eredità dello yacht sound attraversa gli anni Ottanta, come un fiume carsico che riemerge quando nel 1994 il singolo hip-hop "Regulate" di Warren G e Nate Dogg balza in cima alle classifiche con un sample di "I Keep Forgetting" di Michael McDonald in primissimo piano (nel 1989, con meno enfasi, l'album "3 Feet High And Rising" aveva conquistato un ventiquattresimo posto nella Billboard 200 con campionamenti di Steely Dan, Hall & Oates, Billy Joel).

197195717_770509756961675_5359755487537622429_nLa playlist non esplora ulteriormente queste connessioni, né d'altra parte approfondisce l'ormai consolidato panorama revival fiorito da quando lo yacht rock è tornato in auge. Sempre che di ritorno si possa parlare. In fin dei conti, lo yacht rock come entità non è mai esistito prima del Duemila, e la pioggia di compilation, webradio, eventi, comunità online a tema registratasi negli ultimi anni non trova alcun corrispettivo nel periodo d'oro a cavallo fra Settanta e Ottanta. In qualche modo, lo yacht rock è insomma più un fenomeno di oggi che dell'epoca dei suoi capolavori: un esempio di culto retromaniaco che ha per tempio tanto i rivenditori di Lp d'antan quanto i social network e le piattaforme di podcasting. Il gruppo Facebook "Yacht Rock", fondato nel 2017, conta oggi quasi 150mila utenti e naviga su una media di quattromila nuovi post al mese. I creatori della serie "Yacht Rock" hanno lanciato nel 2016 un proprio podcast, "Beyond Yacht Rock", cui ha fatto seguito nel 2023 "Yacht Or Nyacht", in cui i conduttori si divertono a classificare canzoni che salirebbero "on the boat" (ovvero sufficientemente yacht) o, all'estremo opposto, come non-yacht, "nyacht". Il tutto in base alla "accuratissima" - e assai goliardica - Yachtsky Scale di loro medesima invenzione.
Nel frattempo, il subreddit r/Yachtrock pullula di meme che ironizzano bonariamente su protagonisti e appassionati del filone. Complice l'intelligenza artificiale, da qualche mese a questa parte si possono perfino ascoltare (improbabili) versioni yacht di Nine Inch Nails, Metallica, Black Sabbath, Taylor Swift, Rush e molti altri.
Insomma, per quanto lo YouTuber Rick Beato si possa inalberare per la presunta natura denigratoria e il carattere di falso storico della categoria di yacht rock, sembra davvero che l'etichetta - nata per gioco ma trasformatasi in fenomeno culturale intergenerazionale - ora più che mai veleggi con il vento in poppa.
 

09/03/2025

Discografia

Pietra miliare
Consigliato da OR

yacht rock su OndaRock

Vai alla scheda artista