È una domenica pomeriggio dell'inverno 1971, quando un normale dialogo tra due fratelli seduti sul divano porta alla folgorazione sulla via di Damasco. Siamo a Solihull, a sei miglia dal centro di Birmingham. Adrian Nicholas Godfrey e il fratellino Kevin stanno guardando alla televisione Marc Bolan che si esibisce negli studi di Top Of The Pops assieme ai T-Rex: nonostante abbiano solo dodici e quindici anni, all'ascolto di "Jeepster" decidono che è arrivato il loro momento di entrare nel mondo del rock. Nel farlo, non perdono tempo. Già dopo due giorni, Adrian e il suo amico David Barrington comprano le loro prime chitarre e nel 1972 formano una band assieme al piccolo Kevin, che sceglie di suonare la batteria, salvo non avere ovviamente i soldi per comprarsene una. Poco importa, si intende, dato che corre in suo aiuto la fantasia tipica della giovane età: ripiega, infatti, su qualsiasi oggetto percussivo riesca a trovare dinanzi agli occhi, che siano scatole di biscotti, tubi di plastica o semplici caffettiere. È in questa maniera che nascono gli Xerox, i quali però cambiano subito il loro nome impauriti - e talmente ingenui - da pensare che un colosso delle macchine fotocopiatrici possa perseguitarli per questioni di copyright.
Come molte delle idee adolescenziali, la band rimane - appunto - soltanto l'abbozzo di un sogno più grande di loro. Più che pensare a studiare gli accordi, i due fratelli Godfrey e Barrington bazzicano in giro per concerti e negozi di dischi, tessendo così la loro rete di conoscenze. Quando si approcciano alle prime registrazioni, gli esiti si rivelano prevedibilmente disastrosi. Non avendo alcuna base musicale e non essendo in grado di suonare neanche una cover, provano goffamente a comporre un proprio repertorio di canzoni: peccato che il giovane Nikki Sudden inizialmente pensasse persino che la sua chitarra elettrica dovesse essere attaccata a una presa domestica e non a un amplificatore!
Il risultato di questi primi esperimenti è un rumore assordante, che costringe i genitori a comprarsi un paio di cuffie per evitare un'emicrania persistente. Ci vorranno parecchi anni prima che gli Swell Maps giungano a definitivo compimento, ma l'etica della band, il suo modo di suonare libera da vincoli e schemi scolastici, rimarrà una costante nella musica del gruppo.
Nel frattempo, la conoscenza di altri tre amici che frequentano la stessa scuola - Richard Earl, John Cockrill e Stephen Bird - fa sì che la band prenda la forma di un sestetto. Alla fine David e John rimarranno negli Swell Maps come membri part-time, non suonando mai nei concerti, ma partecipando a una serie di progetti collaterali che scandiscono di fatto la nascita di una vera e propria scena a Solihull: dai Civile Service, ai Cirkus, passando per gli Incredible Hulk, i Teenhearts e i Sacred Mushrooms.
Gli Swell Maps emergono così, in quella terra di nessuno, spalancatasi tra l’esaurirsi del ciclone punk e le prime scosse new wave, ma hanno poco a che spartire con ambedue i movimenti. Se è innegabile che i tratti salienti della loro proposta - totale imperizia strumentale, registrazione in bassa fedeltà, indipendenza da qualsiasi circuito convenzionale - siano punti fermi di tanti altri germogli spontanei dell’epoca, lo spirito che li anima è quanto di più lontano possa esserci dal nichilismo dei loro contemporanei; viceversa, sembrando invece riallacciarsi al dada sgangherato dei grandi cappellai matti britannici (Twink, Hapshash & The Coloured Coat) o dei più sciroccati freak statunitensi (dai Red Crayola ai Godz). Un ruolo-chiave lo giocano i loro molteplici interessi: dagli spettacoli televisivi dell'infanzia, alla storia europea, passando per i T-Rex, il kraut-rock e la poesia dada di Kurt Schwitters. La contingenza storica si rivela tuttavia determinante per la loro affermazione: non è un caso se, pur essendo attivi dal 1972, il loro singolo d’esordio veda la luce solo nel ’77, quando l’etica DIY ha ormai legittimato artisticamente e sociologicamente la loro naïveté. Anche qui, però, è evidente la discontinuità con ciò che li circonda: se per Fall, Alternative TV, Desperate Bicycles e altri agitatori underground, suonare male e registrare peggio vuol dire innanzitutto rifiutare in blocco qualsiasi logica di mercato, per loro si tratta invece di un riflesso istintivo, per nulla intenzionato a destabilizzare. Inutile anche ravvisare un qualsivoglia intento terapeutico nella loro bolgia sconclusionata: spensierate e a loro agio nel caos che altri preferirebbero arginare, le loro (non)canzoni appaiono difficilmente accostabili persino alle filastrocche spettrali degli outsider Jandek e Daniel Johnston.
Durante la registrazione dei primi singoli, Adrian Nicholas Godfrey (chitarra, voce) decide di avere bisogno di un nome che possa richiamare i grandi artisti del rock'n'roll anni Cinquanta, e sceglie di diventare Nikki Sudden. Lo stesso fanno gli altri membri della band: primo fra tutti il fratellino Kevin (batteria, percussioni, tastiere), che diviene Epic Soundtracks, fondendo in un unico epiteto la sua passione per la Epic Records e per i Can di "Soundtracks". David Barrington porta invece in prima linea l'amore per lo sport (Phones Sportsman), mentre John Cockrill (cori, basso) viene soprannominato "Golden" nel ricordo di un aneddoto adolescenziale. Nello stesso modo Richard Earl (chitarre) diviene Biggles Books/Dikki Mint e Steve Bird riceve il suo battesimo come Jowe Head (basso, sax, chitarra).
Il legame di sangue tra Nikki Sudden e Epic Soundtracks non può non riversarsi nella musica che partoriscono: un chiassoso gioco in cameretta tra due fratellini un po’ folli, qualcosa di simile ai quadretti pasticciati in quegli stessi anni all’altra sponda dell’Atlantico dagli Half Japanese (guarda caso, anche loro fratelli) e che, almeno idealmente, si può far risalire all'ingenua art brut delle Shaggs, prime inconsapevoli propugnatrici dell’amatorialità domestica a paradigma estetico. L’influenza di questo atteggiamento sugli slackers dei due decenni successivi sarà capitale tanto quanto il totale disinteresse nei loro confronti di Nikki e Epic, pigri appassionati di classic rock ben poco slanciati a riscrivere la Storia: gli attestati di stima che negli anni si sono moltiplicati devono al massimo aver scaturito in loro una lieve ilarità. Quella degli Swell Maps rimarrà una delle tante rivoluzioni silenziose che, svincolate da qualsiasi scena o contesto, hanno contribuito a ridefinire i contorni della musica alternativa.
Il certificato di nascita è già indicativo del loro situarsi palesemente fuori dal tempo e dallo spazio: cosa potrebbe esserci di più anomalo in una città come Birmingham, la Detroit inglese che in epoche diverse ha generato, tanto per citare tre nomi a caso, Moody Blues, Black Sabbath e Duran Duran? Un posto in cui tengono banco sapori forti e colori accesi, laddove i Nostri sono quanto di più opaco e indefinito si possa fabbricare con una strumentazione rock?
Gli Swell Maps nascono ufficialmente il 28 aprile 1977 (caso vuole sia sempre una domenica). Le circostanze che portano alla registrazione del primo singolo sono da collegare innanzitutto all'influenza dei Desperate Bicycles, che insegnano allora a migliaia di adolescenti l'importanza del Do-it-yourself. I Maps ci credono cosí tanto che il primo singolo "Read About Seymour" (1977) porta persino la firma dell'etichetta della band, la Rather Records, il cui logo viene disegnato dallo stesso Epic.
Anche il nome del gruppo (trad. mappe del moto ondoso) proviene da un'idea del giovane Godfrey, che cita un dialogo di uno spettacolo televisivo di burattini chiamato "Stingray", ideato dal britannico Gerry Andersons. L'esclamazione originale è udibile all'inizio del primo album A Trip To Marineville, che riprende anche il titolo di un mini-Lp pubblicato dalla Century 21 riguardante proprio quel celebre Tv show.
Appena finimmo di registare 'Read About Seymour' ci guardammo l'un l'altro a bocca aperta e colmi di gioia, sorpresi dalla ferocia e dalla follia del suo effetto.
(Jowe Head)
Il riferimento di "Read About Seymour" è al mod Seymour Stein, di cui Marc Bolan aveva scritto una serie di articoli per il Record Mirror. Nel 7" di “Read About Seymour” si possono ascoltare tre brevi brani ancora acerbi, ma già premonitori del loro lessico bislacco: se “Ripped & Torn” potrebbe suonare come i 13th Floor Elevators dieci anni dopo e “Black Velvet” ammicca ai T-Rex più quadrati, è soprattutto la title track a suggerire quali saranno le prossime mosse, un sortilegio a metà tra un punk rallentato e un reggae accelerato, che sul più bello deraglia in un sabba rumorista, stratagemma che diverrà un autentico marchio di fabbrica. Ma è con “Dresden Style”, uscito l’anno dopo, che la formula si definisce ulteriormente: due canzoni “vere” (i New York Dolls strafatti del brano omonimo e “Ammunition Train”, forse la traccia più genuinamente punk del loro repertorio) affiancate a due pezzi poco inquadrabili (un intermezzo parlato-ambientale senza titolo e, soprattutto, “Full Moon”, lisergico a cappella forse ispirato dai Grateful Dead di “What’s Become Of The Baby”). Sarà proprio questa alternanza tra canzoncine storte e parentesi di pura follia a costituire il loro modus operandi prediletto. Il disco segna l’ingresso nel roster nella neonata Rough Trade, che di lì a poco esploderà come il polmone più tonico del rock alternativo britannico.
Ancora più ambiziosi i due singoli del 1979: “Real Shocks/English Verse/Monologues” ampia lo spettro arrangiativo inserendo nuovi strumenti (chitarra acustica, pianoforte, armonica), mentre “Let’s Build A Car” offre una versione più sporca del loro già ruvido sound, tra il fuzz asfissiante à-la Chrome del brano-guida e il cacofonico incubo industriale di “Big Maz In The Country”, che chiarisce una volta per tutte quanto possa essere vasto il pur farraginoso vocabolario di questi rocker fuori tempo massimo. La mediazione della Rough Trade porta a un modesto interesse intorno alla band, culminata nell'invito alla Radio 1 di John Peel. Questo permette agli Swell Maps di poter vendere tutti i loro singoli e a potersi auto-finanziare il primo album A Trip To Marineville (1979), dove l'approccio al songwriting prende in prestito molti elementi dalle jam teutoniche dei primi Can, ma anche dall'etica puramente punk dei vari Flipper, Wire e Buzzcocks.
La copertina del disco è già un indizio di cosa l'ascoltatore deve aspettarsi sin dall'inizio: la sensazione di panico di chi cerca di scappare da un edificio in fiamme si collega, in un certo senso, ai suoni disperati che pervadono l'intero l'album. Il risultato è un caotico inno a una libertà totale ben poco assimilabile tanto alle utopie pre-Woodstock quanto all’iconoclastia zappiana, insolitamente lungo per un gruppo “punk” (18 canzoni per quasi un’ora di musica), capace di miscelare senza soluzione di continuità scalmanate scorribande garage e ottenebramenti kraut-noise. La cosa pazzesca è che, in mezzo a tanto baccano, si celi un’opera con una sua precisa struttura, idealmente suddivisa in due porzioni: una prima parte propensa a scendere a compromessi con la forma-canzone, in cui l'etica della canzoncina punk risulta dominante, e una seconda dove le sperimentazioni prendono il sopravvento e tutto si trasforma nel caos, con in mezzo piroette ubriache che tentano di armonizzare i due approcci (come la martellante “Harmony In Your Bathroom”, pazza storia di Jowe Head che narra di "shampoo e omicidi").
L'ossessione per i ritmi kraut-rock di Epic Soundtracks è lampante in canzoni come "Gunboats" e "Full Moon In My Pocket", capaci già di fare intravedere le trame ancor più anarchiche che gli Swell Maps avrebbe esplorato nel loro secondo album. Altrove, sono le tastiere a fare la differenza, come è il caso di "HS Art", tradizionale brano rock'n'roll dove l'enorme quantità di distorsioni e l'alienante intermezzo pianistico servono a sottolineare la frase ripetuta fino all'annichilimento dalla voce irriverente di Nikki Sudden ("Do you believe in art?"). Lo stesso espediente della decostruzione di una formula, pop o rock che sia, viene usato sapientemente in "Another Song", che già dal titolo dichiara sardonicamente di volere distruggere i canoni della forma-canzone, con un risultato non dissimile da quello dei Buzzcocks o dei Damned.
La graduale discesa dal post-punk alla sperimentazione totale ha il suo apice nel rumorismo bellico di "Adventures Into Basketry", 8 minuti degni dei Pere Ubu di "Sentimental Journey", ma l’inafferrabilità di Sudden & co. è testimoniata soprattutto dai tanti schizzi incompleti disseminati qua e là: il pianismo scalcagnato di “Don’t Throw Ashtrays At Me!”, l’acquerello barrettiano di “My Lil’ Shoppes ‘Round The Corner”, gli spigoli no wave di “Doctor At A Cake” e il baccanale inconsulto di “Bridge Head Pt. 9”. Tra lo space-rock con i neuroni bruciati di “Loin Of The Surf” e una “Midget Submarine” che anticipa persino il sound dei Mission Of Burma, a tratti diventa davvero arduo capire se i Nostri siano troppo indietro o troppo avanti. L’effetto complessivo è quello di un filmino sgranato proiettato a velocità sfasata, in cui può accadere potenzialmente di tutto e, di fatto, così è. Un plausibile riferimento artistico potrebbe essere l'action paiting di Jackson Pollock, ma la verità è che ai Maps i paragoni stanno stretti. Se ne accorge anche il New Musical Express, che piazza l’album al 36° posto nella sua classifica annuale.
Al momento della sua uscita, A Trip To Marineville vende circa 30mila copie, annidiandosi alla posizione numero 1 delle chart indipendenti. Nonostante il discreto successo, la vita della band scorre tra lavori part-time in città diverse e la consapevolezza che non sarebbe durata a lungo. A rompere gli equilibri precari ci pensa soprattutto una rissa in cui vengono coinvolti Richard Barrington, Nikki Sudden e Jowe Head. È proprio quest'ultimo a subire le conseguenze più serie dell'aggressione da parte di un gruppo di skinhead, che gli costa un polmone perforato e una lunga degenza in ospedale. Lo spirito con cui gli Swell Maps affrontano il secondo album è perciò quello di una band che sa di essere prossima alla fine. Già il titolo del disco - Jane From Occupied Europe - allude a un pezzo inedito di Epic Soundtracks riguardante una ragazza che passa gli anni della Seconda guerra mondiale nascosta in una credenza, con i testi che riflettono anch'essi l'amore di Nikki ed Epic per la storia del Novecento, soprattutto per gli eventi bellici.
Più cupo del suo predecessore, Jane From Occupied Europe (1980) cattura brillantemente la paranoica solitudine che ossessiona l'uomo moderno, sempre più alienato dal suo stile di vita. Il repertorio è composto da canzoni che vagano continuamente alla ricerca della melodia, senza mai trovarne una definitiva. Come per il primo album, l'elenco della strumentazione - oltre a Epic alla batteria e al pianoforte e il fratello maggiore alla chitarra e alla voce - vede il resto dei componenti interscambiarsi gli strumenti e allestire un granitico wall of sound, tra chitarre, bassi, giocattoli, aspirapolveri e persino palloncini.
Nel complesso, nel secondo album troviamo un maggior numero di tracce strumentali, una gamma più ampia di strumenti e uno stile decisamente più strutturato, dove la loro riluttanza ad aderire a un genere musicale di base e le incomprensioni tra la band danno vita a un inedito approccio al punk.
Meno canzoni, quindi, e più sperimentazioni: la maggior parte degli episodi somigliano ad abbozzi appena scarabocchiati, piuttosto che a brani con un inizio, uno sviluppo e una fine, spesso sconfinando persino nella pura cacofonia (la sghemba musique concrète di “Mining Village”). I toni si raffreddano notevolmente con “Cake Shop” e “Big Empty Field”, con le sue ottenebranti pulsazioni dark. I pochi momenti riconoscibili si possono descrivere solo per approssimazione: i Magazine reinterpretati dai Contortions di “Let’s Buy A Bridge”, la cavalcata kraut di “Secret Island” che non avrebbe sfigurato nel repertorio degli MX-80 Sound, il post-rock ante litteram di “Collision With A Frogman” in cui pare di ascoltare i futuri Blind Idiot God; altrove sembra di trovarsi di fronte a dei This Heat meno disumani, o a dei Fall più rilassati. In mezzo a tanta follia, non mancano tuttavia inattesi squarci di dolcezza, come nello struggente outro pianistico di “Raining In My Room”, sigla di chiusura sull’avventura del gruppo ma anche preludio alle languide ballate del Soundtracks solista.
Se A Trip To Marineville porta alle estreme conseguenze l’istintività punk liberandola dalle pastoie del rock classico, Jane From Occupied Europe è la reinterpretazione dell’avanguardia novecentesca da parte di un manipolo di teppisti; più conciso ma anche più frammentario del precedente, è l’istantanea di una band al culmine della propria isterica creatività. Verrebbe da chiedersi cosa avrebbe potuto far seguito a un’opera così radicale, ma l’alchimia degli Swell Maps è evidentemente troppo instabile per poter durare a lungo.
Jane From Occupied Europe esce lo stesso giorno di "Closer" dei Joy Division. Se Ian Curtis si toglie la vita nello stesso anno, la medesima sorte tocca agli Swell Maps, che decidono spontaneamente di porre fine alla loro creatura. A proposito della rottura, Epic Soundtracks scriverà semplicemente: "Siamo cresciuti insieme ma poi ci siamo allontanati".
Negli anni successivi allo scioglimento arriveranno diverse antologie a tentare di mettere ordine nel catalogo del gruppo, spesso sortendo l’unico effetto di amplificare la confusione. Ne segnaliamo alcune: Whatever Happens Next… (1981), prezioso mosaico di inediti e versioni alternative; Collision Time (1982), che raccoglie i primi singoli insieme a estratti dei due album e alcune outtake; International Rescue (1999), forse la migliore, compilata da Nikki Sudden in persona; Wastrels And Whippersnappers (2006), collezione di demo, ultima pubblicazione con Sudden ancora in vita.
Dopo lo scioglimento, Sudden e Soundtracks avviano le loro rispettive carriere soliste (il secondo sarà anche affaccendato con Crime & The City Solution e These Immortal Souls). Jowe Head inciderà insieme a Soundtracks il singolo “Rain, Rain, Rain” per poi unirsi ai Television Personalities che, curiosamente, nell’anthem del 1978 “Part Time Punks” (spassosa presa per i fondelli di certi alternativi della domenica) avevano citato proprio gli Swell Maps. Oltre a questo, incide anche alcuni album solisti e collabora inoltre con diverse band, fra cui Palookas, Househunters e Long Decline.
Dopo aver pubblicato The Egg Store Ilk (1981), Richard Earl decide invece di ritirarsi per sempre dal mondo della musica e oggi si guadagna da vivere riparando automobili d'epoca. David Barrington lo seguirà poco dopo, iniziando una curiosissima carriera come micropaleontologo marino.
Ascoltando Beat Happening, Guided By Voices, Pavement, Sebadoh e tutti gli altri eroi del lo-fi anni 90, non sussistono dubbi: all’origine di quell’attitudine pigramente stonata non possono esserci che loro, gli Swell Maps.
Epic Soundtracks
Le prove soliste dei fratelli Godfrey svelano che il teatrino surreale del gruppo celava due autori di razza, con imprevedibili radici nella più incontaminata classicità rock. Se Nikki è un rocker puro di cuore che filtra la sfrontatezza dei Rolling Stones attraverso il ghigno sarcastico di Johnny Thunders, Epic è un cantautore delicato e malinconico, con pose da dandy esistenzialista. Ma sarebbe ingeneroso appiattirlo a questa etichetta indelebile: Kevin Godfrey si dimostra anche un polistrumentista di talento e un sessionman instancabile, con una storia di collaborazioni e comparsate così intricata che si fatica a stargli dietro, oltre che un ragazzo eccentrico capace di registrare commercialmente il proprio nome d’arte (costringendo la Epic Records a ribattezzare la propria suddivisione dedicata alle colonne sonore “Soundtrax”, per non incorrere in controversie legali!). È lui il primo a esordire solista con il 7’’ “Popular Classical” (1981), in cui suona gran parte degli strumenti. Contiene solo tre brani e, nel solco dell’esperienza precedente, accosta melodia e rumore. Si tratta di un lavoro che passerebbe presumibilmente inosservato se non vi partecipasse nulla meno che Robert Wyatt (il quale, per la prima e ultima volta, sceglie di firmarsi con il suo nome di battesimo: Ellidge), che presta la sua inconfondibile voce all’unica vera canzone, “Jelly, Babies”, in cui compaiono pure Vicky Aspinall (Raincoats) e Georgie Born (Henry Cow), rispettivamente al violino e al violoncello.
La scelta di non cantare è legata alla cronica insicurezza di Epic riguardo alle sue doti vocali, uno dei motivi che per tanto tempo lo scoraggeranno a cimentarsi con le proprie composizioni. “A 3-Acre Floor” è una reinterpretazione sotto mentite spoglie della “Raining In My Room” già proposta in Jane From Occupied Europe, mentre “Pop In Packets” è null’altro che una registrazione ambientale catturata a casa di Wyatt (sullo sfondo si sente abbaiare Flossie, il cane di Robert e Alfie). Negli stessi mesi partecipa, insieme a Gina Birch delle Raincoats e Lara Logic degli X-Ray Spex, all’album “Kangaroo?” degli appena riformati Red Crayola. L’anno seguente è la volta di “Rain, Rain, Rain”, registrato insieme all’ex-bassista degli Swell Maps Jowe Head, uno stranissimo singolo improntato su sonorità dub-industrial. La title track è debitrice delle atmosfere di A Certain Ratio e 23 Skidoo, mentre “Ghost Train” ricorda le pulsazioni spettrali dei Factrix. Difficilmente inquadrabile tanto nel perimetro della band quanto nei lavori successivi, testimonia l’onnivoro eclettismo dei due autori.
L’avventura solista di Epic si interrompe a metà anni 80, quando viene convocato come ospite dal fratello nel suo nuovo progetto, i Jacobites, che riflettono la mai celata passione per il rock degli anni 60 e 70. Negli stessi anni entra alla corte dei Crime & The City Solution, suonando la batteria su “Just South Of Heaven” (1985) e “Room Of Lights” (1986) per poi seguire i fratelli Howard nei These Immortal Souls. Il caratteristico stile di Epic dietro i tamburi conferisce un’impronta decisiva al sound di queste band. Insieme a Sudden, Howard e Jeffrey Lee Pierce partecipa come ospite anche all’esordio di Jeremy Gluck dei Barracudas, I Knew Buffalo Bill (1987). La carriera da turnista non è però la dimensione adatta per un animo sensibile come il suo, bisognoso non solo di suonare ma anche di esprimersi: a inizio anni 90, finalmente libero dagli impegni, decide così di riavviare il proprio discorso solista dopo quasi un decennio di iato, trovando una volta per tutte il coraggio per cantare da solo le proprie canzoni.
Registrato tra Londra e New York con la produzione di Victor Van Vugt, per lo più in solitudine ma con un altisonante cast di ospiti a fare educatamente la fila per comparire a fianco di questa piccola leggenda (J Mascis, Lee Ranaldo, Kim Gordon, Anthony Thistlethwaite, Martyn P. Casey, oltre all’amico Roland S. Howard), Rise Above (1992) testimonia la sbalorditiva qualità di un songwriting senza tempo, gelosamente custodito per tanti anni e ora abbastanza maturo per schiudersi al mondo. Chi si aspettava una prosecuzione delle stravaganze degli esordi non può che rimanere spiazzato di fronte a queste eleganti ballate da ore piccole, all’insegna di un pop-rock pianistico d’alta classe sospeso tra Burt Bacharach, Randy Newman e - soprattutto - Todd Rundgren, condotto con piglio deliziosamente old fashioned (a partire dalla grafica di copertina, che rimanda senza troppi giri di parole al suo veneratissimo “Pet Sounds”).
Il clima è dolce e trasognato, seppur occasionalmente violato da momenti più energici (il crescendo travolgente dell’iniziale “Fallen Down”, le atmosfere noir di “Big Apple Graveyard”, la progressione omicida di “Wild Situation”). I temi sono quelli classici delle torch song: amori perduti, nostalgie di epoche felici e figure femminili angelicate (in “Farmer’s Daughter” compare per la prima volta la misteriosa Emily May che tornerà a ossessionarlo anche nei dischi successivi), narrati con un tono così schietto e sincero da spezzare il cuore ad ogni ascolto. Che si tratti dei numeri da night-club di “Everybody Else Is Wrong”, delle sontuose orchestrazioni di “She Sleeps Alone” o della laconicità morriconiana di “Meet Me On The Beach”, il tocco di Epic è di una delicatezza quasi irreale. Come un autore di questo calibro sia potuto rimanere nell’ombra per così tanto tempo rimane un mistero spiegabile solo tenendo presente la sua personalità elusiva e problematica. Poche opere sono così vistosamente fuori contesto nei frenetici anni 90, una constatazione che non può non impreziosire ancora di più questa luminosissima perla. Il disco sarà ristampato nel 2015 in una expanded edition su doppio album.
Per la prima volta dai tempi degli Swell Maps, Epic aveva il controllo della musica che faceva. E finalmente era abbastanza sicuro delle sue doti vocali da lasciare che la sua voce fosse ascoltata da un pubblico.
(Nikki Sudden)
Incoraggiato dalla calorosa accoglienza riscossa tra la critica, Epic fa volentieri il bis due anni dopo con Sleeping Star (1994), in cui la mancanza dell’effetto-sorpresa viene compensata allargando lo gamma stilistica, che abbraccia il country alternativo di Gram Parsons (“Something New Under The Sun”), la fumosità del primo Tom Waits (“Tired Eyes”), tardi echi doo-wop (“Tonight’s The Night”, “I Believe”) e suggestioni più eteree e dilatate (la magnifica “Baby I Love You”, il deliquio orchestrale “Hear The Whistle Blow”). A dominare è un senso di stupore e indolenza, esemplificato dal capriccioso infantilismo di “Don’t Go To School”. Il piano rimane lo strumento-guida, ma Epic non disdegna di imbracciare un’umile chitarra acustica (in “There’s A Rumour” sembra il più spartano dei cantautori), mentre la maggiore consapevolezza vocale affiora nelle escursioni caveiane di “Waiting For The Train”.
Ma è soprattutto il disco di “Emily May (You Make Me Feel So Fine)”, la sua canzone più nota e celebrata: un brano perfetto, da scuola di composizione, di quelli che da soli valgono una intera carriera. Non c’è la benché minima pretesa di originalità in queste melodie dimesse e anacronistiche, ed è proprio questa incontaminata “rassegnazione" a decretare la loro potenza.
Ormai salutato come uno dei migliori songwriter della sua generazione, dopo la raccolta di demo Debris, la partecipazione all'esordio-monstre di Mike Watt "Ball-Hog Or Tugboat" e la collaborazione con l’amico Evan Dando per una delle sue composizioni più toccanti (“C’Mon Daddy”, inclusa dai Lemonheads su “Car Button Cloth”), Epic dà alle stampe quello che rimarrà il suo canto del cigno, per ironia della sorte intitolato Change My Life (1996).
L’apertura di “You Can Be My Baby”, uno scanzonato pub-rock in stile Graham Parker, inaugura il suo disco più tipicamente rock, che contiene pure l’esplicita dichiarazione d’amore per Phil Spector di “Stealaway”, le armonie à-la Laura Nyro di “Sweet Sixteen”, il rhythm’n’blues da bassifondi di “Landslide” e il cinematografico strumentale per piano e archi “Ring The Bells”.
Se il disco precedente era rilassato in maniera quasi sfacciata, questo è attraversato da una tensione strisciante che, in brani come “Wild Child” e “Sleepy City”, sembra tramutarsi in una macabra premonizione. In chiusura, dopo l’ennesima melodia da ko (“The Wishing Well”), arriva un medley dal vivo per omaggiare un altro suo mito, Alex Chilton, di cui accorpa con sentimento “Nightime” e “Thirteen”. In controtendenza con qualsiasi moda, “Change My Life” è l’ennesima (e purtroppo ultima) prova maiuscola di un fuoriclasse.
Epic Soundtracks era una persona meravigliosa. Il suo problema era che tutto sembrava toccarlo in maniera troppo pesante.
(Geoff Travis, Rough Trade)
La Bar/None decide infatti di non finanziare un nuovo album e, in un periodo particolarmente stressante della propria vita, Kevin Paul Godfrey viene trovato morto nel suo appartamento londinese il 6 novembre 1997, all’età di 38 anni. Le cause del decesso non sono mai state chiarite, ma con ogni probabilità sono da collegare a una vita di eccessi, fedele anche in questo ai dettami del rock’n’roll. A chi propugna l'ipotesi del suicidio Nikki Sudden risponde semplicemente che il fratello non se ne sarebbe mai andato a poche settimane dall'uscita del box-set di "Pet Sounds", le cui note scandiscono le tante lacrime scese al suo funerale. Con lui se ne va un autore nato classico, un interprete incredibilmente riconoscibile e una personalità tra le più sensibili e affascinanti del rock contemporaneo, angelo caduto troppo presto su un pianeta indegno della sua dolcezza.
Escono postumi Everything Is Temporary (1999, raccolta di inediti curata dal fratello), Good Things (2005, demo da quello che sarebbe dovuto essere il suo quarto disco), Wild Smile (2015) e Film Soundtracks (2017).
Nikki Sudden e i Jacobites
Dopo lo scioglimento della band, Nikki Sudden si trova in forte crisi di identità. Lavora ancora part-time nel negozio della Rough Trade e scrive recensioni per qualche giornale, quando decide di prendersi una pausa e attraversare l'Oceano per trascorrere diversi giorni in compagnia del suo nuovo idolo, Johnny Thunders. Così, dopo quell'incontro, a ventitré anni Nikki Sudden capisce che è arrivato il momento di esordire come solista. Waiting On Egypt (1982) lo coglie in questo periodo di transizione tra il passato con gli Swell Maps e l'elegante rock à-la Marc Bolan che lo aveva da sempre sedotto. Nel novero troviamo canzoni sbilanciate tra queste due tendenze: se da un lato alcuni pezzi guardano con fermezza alla vecchia band - come "Back To The Coast", pezzo pensato proprio come quinto singolo dei Maps, e "Channel Steamer", piccolo omaggio ai Desperate Bicycles - uno sguardo sul futuro del cantautorato di Sudden è dato invece da brani come la cover rollingstoniana di "I'd Much Rather Be With The Boys" e la viscerale ballata di "Still Full Of Shocks".
Nonostante le buone recensioni, Nikki Sudden con il suo primo album vende a malapena 400 copie al momento della sua uscita: numeri scoraggianti, specialmente se messi in paragone alla discreta fama nel circuito alternativo che avevano raggiunto gli Swell Maps. Anziché demoralizzarsi, il chitarrista si presenta a casa dell'amico Dave Kusworth, con l'intenzione di formare una nuova band e ottenere in questo modo un suono meno "amatoriale". Anche se Dave si era appena impegnato con i Rag Dolls, gli promette comunque di dargli una mano con il suo secondo album, Bible Belt (1983).
Rispetto al modo "casuale" in cui venne registrato Waiting On Egypt, la nuova prova solista di Sudden si avvale dell'ausilio di una serie di abili musicisti dei Waterboys, fra cui Anthony Thistlethwaite (basso), Kevin Wilkinson (batteria) e Mike Scott (piano). Alle sessioni partecipano anche i vecchi compagni David Barrington e John Cockrill, mentre Dave Kusworth si presenta assieme a Mark Lemon per aiutarlo in tre brani, che risultano tra i più riusciti del conio ("English Girls", "The Road Of Broken Dreams" e "The Angels Are Calling").
Con Bible Belt Nikki Sudden si muove sempre di più all'insegna di un cantautorato in bilico tra Marc Bolan, i Rolling Stones (di "Exile On Main St.") e Johnny Thunders, rigettando definitivamente ogni forma di rumorismo che aveva permeato l'avanguardia degli Swell Maps: ne sono un buon esempio "Road Of Broken Dreams" e "Chelsea Embankment", due power-ballad che descrivono perfettamente il fascino plumbeo della vita inglese, capaci di far emergere tutta la malinconia della voce decadente di Sudden, perfettamente a suo agio sopra alla chitarra stoogesiana di Kusworth. Nikki ci crede così tanto alla sua nuova creatura da decidere per la prima - e ultima - volta di proporla a qualche major, ricevendo però soltanto una serie di porte sbattute in faccia.
È proprio durante le sessioni di Bible Belt che nascono di fatto i Jacobites, i quali esordiscono con l'album omonimo accreditato a Nikki Sudden & Dave Kusworth. Pensato inizialmente come terza prova solista di Sudden, Jacobites (1984) contiene anche una jam session con Epic Soundtracks, David Barrington e John Cockrill, ovvero la prima versione di "Big Store". La prima canzone ufficialmente registrata dai Jacobites coincide, quindi, anche con l'ultima collaborazione degli Swell Maps. Epic collaborererà quell'anno anche nell'Ep "Shame For The Angels" (1984), ma la storia degli Swell Maps era ormai giunta al suo capolinea definitivo.
I giornalisti all'epoca parlano della coppia Kusworth/Sudden in relazione a quella formata da Ronnie Wood e Keith Richards ed, effettivamente, il loro stile di vita all'insegna di sex, drugs & rock'n'n roll non si discosta molto da quello dei due Stones, se non fosse che i soldi per il duo all'epoca sono davvero un problema.
Sull'onda di questo paragone, il secondo album Robespierre's Velvet Basement (1985) ottiene un discreto successo di critica e di vendite, tanto che persino Tom Waits lo cita nel novero dei suoi dischi preferiti di sempre. Tra i brani in cui il sodalizio artistico risulta meglio riuscito c'e la desolante "When The Rivers Ends", composta durante un trip in una sala parrocchiale di Brixton, che possiede tutta la magia perduta del castello che fa da sfondo alla copertina. L'amore per l'austera eleganza dei tempi antichi, per un'Europa ormai ridotta in rovina permea gran parte delle canzoni presenti in Robespierre's Velvet Basement, tra cui vale la pena menzionare tre perle come "Hearts Are Like Flowers", "It'll End Up In Tears" e "All The Dark Rags".
Un esempio lampante di questa formula nostalgica è rappresentata da "Son Of A French Nobleman" e, soprattutto, da "Ambulance Station", che fa riferimento nel titolo a un club londinese degli anni 80 che portava lo stesso nome. È interessare notare come, ancora una volta, troviamo in apertura la sopracitata "Big Store", anche se non bisogna farsi ingannare dal titolo: la versione qui presente in realtà è una cover di un pezzo di Stephen Duffy scritto per i Subterranean Hawks, la band che lasciò per approdare nei Duran Duran. Viceversa, la prima registrazione di "Big Store" presente in Jacobites era il tentativo di Sudden di ricrearne gli accordi, con il risultato di una canzone completamente nuova, anche dal punto di vista testuale.
Originariamente concepite come un doppio Lp, le outtake delle sessioni di Robespierre's Velvet Basement sono state poi pubblicate nell'album Lost In A Sea Of Scarves (1985) e nell'Ep "Pin Your Heart To Me" (1985). Soltanto nel 1993 verrà ristampato in cd per la prima volta nella sua forma originale, contenente tutte le 24 tracce.
Dalla metà del decennio, Nikki Sudden si divide tra l'Inghilterra e la Germania, dove trova una certa popolarità soprattutto per il suo curioso modo di vestire, che lo fa apparire su molte riviste specializzate. Proprio in un cinema di Amburgo, Nikki Sudden scrive quella che diverrà la sua ballad più famosa, "Death Is Hanging Over Me", presente in Texas (1986). L'album segna l'abbandono di Dave Kusworth e la sua sostituzione con l'amico di Epic, Rowland S. Howard (ex-Birthday Party e Crime & The City Solution) che rende le atmosfere decisamente più compatte ma, nello stesso tempo, più nichilistiche e disperate. Tra gli ospiti del disco c'è anche Epic Soundtracks, al fianco del fratello nel piccolo capolavoro di "Jangle Town", dove il batterista fa la sua personale imitazione di Keith Moon.
Quello che doveva essere il titolo originale di Texas, ovvero Kiss You Kidnapped Charabanc, finisce per diventare invece il nome del disco accreditato dal duo Nikki Sudden/Rowland S. Howard pubblicato nel 1987. Il curioso titolo è il risultato di un cut-up da tre fonti distinte: "Kiss You" da un biglietto che scrisse a Nikki Sudden una delle sue amanti tedesche; "Kidnapped" dal romanzo di Robert Louis Stevenson; "Charabanc" da un libro d'infanzia di Nicholas Thomas. Si dice che Nick Cave all'ascolto dell'album avesse confidato a Rowland, suo ex-compagno nei Birthday Party, di non amarlo particolarmente per il suo suono marcatamente ispirato ai Rolling Stones. Più che agli Stones, però, stavolta Sudden si lega all'iconografia di musicisti maudit come Robert Johnson ("Silver Street") e agli album del Keith Richards solista ("Debutante Blues", "Wedding Hotel"). "Crossroads" porta invece a galla la passione di Nikki Sudden per la storia religiosa, evocando sentimenti di colpa riguardo le azioni della Chiesa Cattolica.
Sempre nel 1987, Sudden e Rowland ritrovano Epic Soundtracks nel progetto di Jeremy Gluck I Knew Buffalo Bill. La formazione a supporto dell'ex-Barracudas viene definita dalla stampa "il primo super-gruppo indipendente". Che questa affermazione rappresenti o meno il vero, ciò che invece rimane certo è da questa stimolante collaborazione Nikki Sudden riesca a mettere a punto "Gallery Wharf", una delle sue più viscerali canzoni, un emozionante poema acustico che sublima in musica il Nikki Sudden trentenne, che in quel periodo della sua vita si sente particolarmente sconfortato ("I've been alive for twenty-seven years"). Da autentico bohemian romantico, degno di un libro di Oscar Wilde, Nikki Sudden vive perennemente fuori tempo e fuori luogo: la sua passione per il blues, per il folk, per tutta quella musica che negli anni 80 è ormai acqua passata, lo rende di fatto sempre più alieno al suo mondo. Eppure, capita anche che lui stesso si riveli il sabotatore della propria carriera, come quando l'opportunità che gli si apre per registrare con Alex Chilton va in fumo nel momento in cui incrocia una bellissima spacciatrice dai capelli dorati sulla strada per lo studio.
Il Nikki Sudden del periodo, diviso tra donne, droghe e una serie infinita di concerti, è un uomo soddisfatto a metà. Per questo, l'album successivo, Dead Men Tells No Lies (1987), di fatto l'ultimo del decennio con la sigla Jacobites, segna il suo tentativo di realizzare - a suo dire - "l'album più triste mai creato". Con esso Sudden si affianca alla tradizione del folk acustico di Neil Young, narrando storie desolate come quella di "When I Cross The Line", canzone d'amore dedicata a una donna defunta. "Cupful Of Change" è invece l'unico pezzo country del repertorio con Rowland alla slide guitar, il quale con il suo organo avvolge anche la spettrale "Wooden Leg".
Groove (1989) segna un momentaneo ritorno al rock elettrico con la formazione effimera dei French Revolution, trovando l'inaspettata ispirazione nella chitarra di Jimmy Page in "Achilles Last Stand". Anche qui, ovviamente, i riferimenti stilistici di Sudden si collocano a oltre un decennio indietro rispetto i suoi contemporanei. Persino la grafica della copertina richiama volutamente un'antologia dei suoi adorati T-Rex. Nonostante questi anacronismi, e una sezione ritmica non al meglio della sua forma, Groove si afferma in poco tempo come l'album di Nikki Sudden più venduto. L'opener "See My Rider" esemplifica alla perfezione il cambiamento rispetto al recente passato, con uno spesso muro di chitarre che diverrà il leit-motiv dell'intero disco.
Raggiunto lo status di musicista di culto nei circuiti alternativi, l'ex-Swell Maps in The Jewel Thief (1991) può circondarsi di musicisti di punta come Mike Mills e Peter Buck dei Rem, che durante una tournée americana lo invitano nei camerini per parlare con loro. Le registrazioni del disco hanno luogo negli studi di John Keane in Georgia, con la produzione congiunta di Peter Buck e Nikki Sudden, sempre attento a non tralasciare neanche un aspetto delle sue creazioni discografiche. Le canzoni, prevalentemente acustiche, accarezzano per questo soltanto poche volte il sound dei Rem: è il caso, per esempio, di "I Belong To You" che non sarebbe stonata accanto a "Half A World Away" di "Out Of Time", uscito nello stesso anno. Sudden ha però altre passioni rispetto a Stipe e la sua vena da rocker rollingstoniano è udibile nell'emozionante "Liquor, Guns & Ammo" e in "Spend Little Gold With Me", che sposta decisa l'asticella verso il blues.
Nikki Sudden è l'unica persona che mi abbia mai restituito i soldi che gli avevo prestato.
(Peter Buck, Rem)
Nel 1993 i tempi sembrano maturi per rispolverare la sigla dei Jacobites. Dopo sette anni, Howling Good Times dimostra una rinnovata alchimia tra Rowland e Sudden, già in evidenza nella traccia di apertura "Don't You Ever Leave Me". Il resto della formazione a supporto cambia completamente, comprendendo Glenn Tranter (chitarra), Carl Eugene Picôt (basso) e Mark Williams (batteria). Nonostante le buone premesse, il ritorno dei Jacobites è all'insegna di un pop-rock piacevole ma non abbastanza mordace, ricordabile in questo album per quei - pochi - episodi non rovinati dall'intrusione dei cori femminili.
Va decisamente meglio con Old Scarlett (il cui titolo trae ispirazione dal nome di un becchino!), capace di far rivivere le atmosfere glam-rock degli anni 80 con il boogie ubriaco di "Over & Over" e la toccante cavalcata di "When Angels Die".
A questo punto, subito dopo la pubblicazione del settimo album solista Seven Lives Later (1997), avviene la tragedia destinata a segnare la vita di Nikki Sudden: Epic Soundtracks viene ritrovato morto in circostanze misteriose. Una perdita, quella del suo unico fratello, che peserà per sempre sulla sua musica e sulla sua vita. L'omaggio più sentito è quello che gli tributa assieme ai Jacobites in God Save Us Poor Sinners (1998), disco dedicato proprio a Epic, come si legge nelle note di copertina. Ma se le parole non bastano, ci pensano le cover di "She Sleeps Alone" e "The Wishing Well" cantate con il nodo in gola.
Devastato dalla morte del fratello, Nikki Sudden abbandona il progetto dei Jacobites e passa tre mesi a Chicago, dove mette a punto il nuovo album Red Brocade (1999) con una formazione composta da Ellis Clarke (basso), Kevin Junior (chitarra) e Anthony Illarde (batteria). Tra i numerosi musicisti ospiti figura anche Jeff Tweedy dei Wilco, presente con un bell'assolo di armonica in "Silver Blanket" e a doppia voce con Sudden nella splendida "Farewell, My Darling". Sfruttando la versatilità della band in suo sopporto, Sudden si dirige con destrezza anche verso territori country ("Miss You So") e soul ("Countess"). Il lavoro in fase di missaggio conferisce alla strumentazione una nitidezza che non offusca il selvaggio rock & roll di Sudden, rendendo Red Brocade uno dei suoi album più puliti sul piano dell'ascolto.
Con l'ingresso nel nuovo millennio, tra una comparsata e l'altra in un film, Nikki Sudden ritiene che i tempi siano maturi per mettere a punto il suo "best of", che intitola Last Bandit (2000) come il nome di un bootleg di Keith Richards. È in questo periodo che inizia anche la maturazione di quello che diventerà Treasure Island (2002), in cui oltre al ritrovato Dave Kusworth può avvalersi della collaborazione dei suoi eroi musicali Ian McLagan (Small Faces) e Mick Taylor (Rolling Stones). La formula sonora - quella di un rock d'annata - non cambia, ma sa regalare comunque inaspettate venature soul come nel caso di "When The Lord".
Sudden omaggia gli Small Faces con la sua "Fall Any Further" e gli Stones con "Looking For A Friend", mentre in "Highway Girl" il tributo sincero è quello verso Chuck Berry e tutti i padri del rock'n'roll. Se in quasi tutti gli album solisti di Nikki Sudden possiamo trovare una canzone country nel repertorio, stavolta questa tendenza è racchiusa nel brillante jolly di "Break Up".
Il titolo del disco - come era già successo in passato - è un omaggio allo scrittore Robert Louis Stevenson: inizialmente "Stay Bruised" (letteralmente "rimani livido") sarebbe dovuta essere la title track, ma Nikki decide di cambiare il nome dell'album appena si rende conto che avrebbe dovuto passare troppo tempo a spiegarne il significato ai non anglofoni, ovvero quello dell'importanza di rimanere puri mantenendo comunque un "livido nel proprio cuore".
Nel suo complesso, Treasure Island ci regala una serie di canzoni di autentico rock - alcune davvero sublimi, come "House Of Cards" e "Sanctified" - che rappresentano il canto del cigno di un musicista nato nell'epoca sbagliata, il quale tuttavia non si è mai piegato ai compromessi del mercato e all'estetica del momento, rimanendo sempre fedele alla sua definizione del rock'n'roll come way of life. La sua voce roca e suadente, puntata al petto come una pistola, è stata una costante di una carriera fondata su un romanticismo d'altri tempi, che non ha mai conosciuto dubbi né cedimenti.
Nel 2006, poco dopo aver completato la sua autobiografia "L'ultimo bandito" e aver partecipato all'album degli italiani Circo Fantasma ("I Knew Jeffrey Lee"), a neanche cinquant'anni Nikki Sudden viene ritrovato morto durante un tour statunitense. Inarrestabile giramondo, nell'ultimo periodo della sua vita stava lavorando a una biografia del chitarrista Ronnie Wood e a un album intitolato The Truth Does Not Matter. Come per il fratello Epic, fatale è stato un attacco cardiaco. Se il cuore li aveva uniti nella loro sincera passione per una musica totalmente indipendente e libera, è stato lo stesso cuore che alla fine dei loro giorni ha saputo ricongiungerli tramite una morte incredibilmente simile. A noi piace immaginarli ancora così, come tutto è iniziato: due fratelli davanti alla televisione, folgorati sul divano dalla chitarra di Marc Bolan.
DISCOGRAFIA SELEZIONATA | |
SWELL MAPS | |
A Trip To Marineville(Rather Records/Rough Trade, 1979) | |
Jane From Occupied Europe(Rather Records/Rough Trade, 1980) | |
Whatever Happens Next...(compilation, Rather Records/Rough Trade, 1981) | |
Collision Time (compilation, Rough Trade, 1982) | |
International Rescue(compilation, Alive, 1999) | |
Wastrels And Whippersnappers(compilation, Overground, 2006) | |
NIKKI SUDDEN | |
Waiting On Egypt(Abstract, 1982) | |
The Bible Belt (Flicknife, 1983) | |
Jacobites(Glass, 1984) - con Dave Kusworth | |
Kiss You Kidnapped Charabanc (Creation, 1987) - con Rowland S. Howard | |
I Knew Buffalo Bill(Flicknife, 1987) - con Jeremy Gluck, Rowland S. Howard, Epic Soundtracks e Jeffrey Lee Pierce | |
Groove (Creation, 1989) - con i French Revolution | |
The Jewel Thief (Ufo, 1991) | |
Seven Lives Later (Glitterhouse, 1997) | |
Red Brocade(Glitterhouse, 1999) | |
The Last Bandit(compilation, Glitterhouse, 2000) | |
Treasure Island (Secretly Canadian, 2004) - con i Last Bandit | |
The Truth Doesn't Matter(Secretly Canadian, 2006) | |
JACOBITES | |
Robespierre's Velvet Basement(Glass, 1985) | |
Lost In A Sea Of Scarves (Glass, 1985) | |
Texas (Creation, 1986) | |
Dead Men Tell No Lies(Creation, 1987) | |
Fortune Of Fame(compilation, Glass, 1988) | |
Howling Good Times (Regency Sound, 1993) | |
Heart Of Hearts (The Spanish Album)(Por Caridad, 1995) | |
Old Scarlett(Glitterhouse, 1995) | |
Kiss Of Life(live, Swamp Room, 1995) | |
God Save Us Poor Sinners (Glitterhouse, 1998) | |
EPIC SOUNDTRACKS | |
Rise Above (Rough Trade, 1992) | |
Sleeping Star (Bar/None, 1994) | |
Debris(compilation, Return To Sender, 1995) | |
Change My Life (Bar/None, 1996) | |
Everything Is Temporary (compilation, Innerstate, 1999) | |
Good Things (compilation, Dbk Works, 2005) | |
Wild Smile (compilation, Troubadour, 2012) | |
Film Soundtracks (compilation, Troubadour, 2017) | |
RICHARD EARL | |
The Egg Store Ilk (Pilot, 1981) | |
JOWE HEAD | |
Pincer Movement(Hedonics, 1981) | |
Strawberry Deutschmark(Constrictor, 1986) | |
Personal Organizer (Constrictor, 1989) | |
Unhinged(compilation, Overground 1994) |
Epic Soundtracks - Jelly, Babies - con Robert Wyatt (1981) | |
Epic Soundtracks - Fallen Down (1992) | |
Epic Soundtracks - Emily May (You Make Me Feel So Fine (1994) |
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