C'è una linea, una strada segreta che attraversa i suoni degli anni Ottanta. Una via sfilacciata e nebulosa, forse tracciabile solo in senso retroattivo. Un fiume carsico, che raccoglie influssi del rock progressivo del decennio precedente, si abbevera dai gorghi e dai singhiozzi del post-punk, e si insabbia, percolando lentamente nei terreni dell'art- e del dream-pop, dell'ambient, dell'industrial, della new age music, del dub e del jazz più contaminato, e filtrando dentro di sé i corsi nascenti di house, techno, hip-hop.
Finché, a inizio anni Novanta, il corso riaffiora, i rivoli si riconnettono, e la risorgiva trova un nome: post-rock. A condensarne l'estetica per la prima volta è il giornalista Simon Reynolds nel 1993/94, con una serie di articoli su Melody Maker e The Wire incentrata su una molteplicità di artisti britannici. Tre in particolare i nomi chiave: Bark Psychosis, Disco Inferno e (meno noti, ma in realtà i primi a cui Reynolds applichi l'etichetta) Insides.
Oggi queste band non sono le più ricordate fra quelle associate all'espressione: nomi e stili come quelli di Slint e Mogwai, Tortoise e Sigur Rós, Godspeed You! Black Emperor, Talk Talk sono certamente più popolari. La distanza stilistica, temporale, geografica tra questi musicisti e quelli per i quali il concetto di "post-rock" è stato formulato la dice lunga su quanta acqua sia passata sotto i ponti dal 1993, e quanto i contorni della categoria siano mutati, trasfigurandosi rispetto a quelli iniziali.
Ma non è del dopo che questo articolo vuole trattare. Al contrario, lo scopo è soffermarsi sul prima. Provare, attraverso segnalazioni e ascolti, a rispondere ad alcune domande: da dove vengono le sonorità originariamente associate al post-rock? Quali ispiratori, e più in generale quali precursori, hanno anticipato l'emersione della tendenza? E quali sono le trasformazioni attraverso cui le estetiche di altri generi si sono reinventate, sviluppate, parzialmente eclissate fino a sfociare nello "using rock instrumentation for non-rock purposes" che ha convinto critica e appassionati dell'esistenza di un nuovo territorio musicale? La compilation che accompagna l'articolo, che procede sostanzialmente in ordine cronologico, cerca di tracciare i fili conduttori che portano al sound dei tre brani di Bark Psychosis, Disco Inferno e Insides posti all'inizio a mo' di riferimento. Affondando fino al progressive rock della metà degli anni Settanta, giunge al pieno degli anni Novanta seguendo lo sfaldarsi del beat rock, il farsi texture del suono chitarristico, la scoperta del dub, della "fourth world music", di una nuova elettronica, del post-minimalismo, e il silenzio che guadagna spazio.
Decostruzione del power trio
Forse il primo tratto a farsi avanti, nelle dilatazioni e nelle astrazioni atmosferiche del progressive rock più psichedelico, è una nuova forma di ricerca sul timbro dello strumento rock per eccellenza, la chitarra. Una cura che ne esplora la capacità non di fendere o catturare, ma di inventare stati d'animo, dare risalto a schegge emotive, sospenderle, osservarle mutare. Emblematiche, in questo senso, le realizzazioni di Mike Oldfield, dei Pink Floyd più maturi, dell'accoppiata Eno/Fripp, che mettono in luce fra l'altro le potenzialità dell'effettistica e del looping per dar vita a paesaggi sonori al tempo stesso materici ed eterei.
Procedendo lungo gli anni, questa via tessiturale assumerà forme variopinte, col sound scorticante di Keith Levene dei Public Image Ltd. - dichiaratamente debitore verso l'estro di Steve Howe degli Yes - e le rarefazioni pungenti del chitarrista avant-ambient-fusion norvegese Terje Rypdal, fino alle cattedrali totaliste dei compositori Glenn Branca e Rhys Chatham, che rivoltando l'approccio minimalista attraverso la no wave sprigioneranno un potenziale monumentale e "meteorologico" dello strumento che in campo soft/loud farà innumeri proseliti.
Se due nomi vanno individuati, tuttavia, come pionieri dell'approccio che sarà poi dei primi post-rocker (e pure dei secondi, a ben vedere), si tratta di Robin Guthrie dei Cocteau Twins e Vini Reilly dei Durutti Column. Muovendosi dall'ibrido prog/post-punk messo a punto dal pionieristico John McGeoch (Magazine, Siouxsie and the Banshees, Visage, Pil), i due costruiscono senza dar troppo nell'occhio una via progressiva alla chitarra dream-pop. Il loro stile viene talvolta scioccamente inquadrato come anti-virtuosistico, ma è semplicemente orientato a un virtuosismo diverso dal consueto: anziché mettere al centro elementi quintessenzialmente rock come il gesto ginnico, il riff, il graffio, le cascate di riverbero di Guthrie e Reilly condensano le traiettorie dei predecessori in un linguaggio compiuto e infinitamente imitato, fondato sull'abilità di dosare le note e comporre i pedali per ottenere la compenetrazione luce/ombra di intrecci cristallini ed echi acquatici. Le ricadute sono immediate, e stili disparati come quello dei britannici And Also The Trees, degli spagnoli Bélver Yin (ormai inquadrabili in un post-rock fatto e finito) o dell'eclettico e assai progressivo Maurice Deebank (Felt) confermano facilmente la pervasività dell'approccio.
L'ultima mutazione, intuibile nei My Bloody Valentine, e poi palese nei Disco Inferno, è il sostanziale superamento della riconoscibilità dello strumento. Con le catene di effetti essenziali per il suono shoegaze, il timbro chitarristico appare trasfigurato, privato del suo rumore d'attacco e di buona parte dei tratti armonici che lo rendono familiare (se oggi lo riconosciamo, oltre che per maturata abitudine, è essenzialmente solo per l'iconicità ritmica dello strumming). Coi Disco Inferno del chitarrista Ian Crause si ha il passaggio ulteriore: collegando lo strumento a un sampler, a ogni corda è associato un diverso campione. Il timbro della chitarra scompare del tutto, e lo strumento diventa un abilitatore di suoni ambientali, con soltanto la diversa tecnica esecutiva a distinguerlo da una tastiera elettronica o da un computer.
Almeno altrettanto significativi sono i destini degli altri due pilastri della triade rock: basso e batteria. Il primo, già portato in risalto dalla new wave e dal post-punk, acquista nuove possibilità incontrando le gommose profondità del dub reggae e la carica ritmica del funk. A creare un ponte verso il futuro post- sono soprattutto le rielaborazioni in campo rock da parte di Jah Wobble (Public Image Ltd.) e Bill Laswell (attivo in una miriade di progetti fra avant-jazz e avant-prog: Material, Massacre, Curlew, Golden Palominos, Praxis, Last Exit...), che si riversano anche negli stili anfibi degli A Certain Ratio e del duo Eno/Byrne della pietra miliare "My Life In The Bush Of Ghosts".
Le sorti della batteria sono invece intimamente connesse a quelle della nuova musica elettronica, coi martellanti beat anti-rock di alcune formazioni kraut a fare da tramite (complice anche Giorgio Moroder) fra l'underground europeo e le nascenti culture house e techno statunitensi. Sebbene uno status leggendario sia stato negli anni assegnato al battito motorik di Klaus Dinger dei Neu!, chiaro discepolo della lezione dei Velvet Underground, a esercitare la massima influenza sui futuri post-rocker è il tocco jazz svuotato portato nei Can da Jaki Liebezeit (e individuabile anche nei Phew e nella collaborazione con Czukay e Wobble, presenti in playlist). Regolare ma versatile, mai muscolare ma incredibilmente trascinante, e soprattutto capace di frantumare l'accentazione forte del rock in una miriade di elementi di attenzione distinti, lo stile di Liebezeit è un modello chiave per chi, a inizio anni Novanta, cercherà un approccio batteristico alternativo al rock'n'roll e alle sue mille derivazioni. Un altro riferimento chiave per la Gran Bretagna di quegli anni è la nascente jungle, anch'essa orientata al frastagliamento ritmico, talvolta attraverso il recupero di elementi percussionistici world: i suoi riflessi, ancorché notevolmente rielaborati, sono chiaramente percepibili in singolari esperimenti prog-dream-pop (ma ormai a un passo dal post-rock) come quelli Spoonfed Hybrid e Butterfly Child.
Questioni di etichette
I semi del futuro post-rock sono sparsi fra generi e anni distanti, ma a congiungerli fra loro e con il potenziale pubblico ci sono, in qualche caso, alcune etichette di culto. Label orientate talvolta a specifiche declinazioni di un determinato stile, e altre invece decisamente più poliedriche, ma sempre capaci di incarnare una propria estetica, un trait d'union in grado di incuriosire gli appassionati verso molteplici artisti al loro interno, e favorire così la compenetrazione di stimoli e sonorità.
Dietro a A Certain Ratio, Durutti Column (oltre che a Joy Division, New Order, The Wake) c'è la mancuniana Factory Records, un pilastro del post-punk a cui è legata anche la belga Les disques du crépuscle, con un interesse specifico per il post-minimalismo (Wim Mertens, Gavin Bryars, Michael Nyman). La devozione a Mertens e a Vini Reilly, ma anche e soprattutto agli inclassificabili Tuxedomoon, avvicina a questo gruppo di etichette l'italiana Materiali Sonori, significativa per molti dei filoni intrecciati in questa compilation. Nel catalogo della label di San Giovanni Valdarno (Arezzo) si scoprono, oltre ai nomi già citati, artisti di confine come Alexander Robotnick e Legendary Pink Dots, The Shamen e Arturo Stalteri (ex-Pierrot Lunaire), e soprattutto un vasto novero di nomi legati alla darkwave più ibridata e al composito ambito della "fourth world music", teorizzata dal trombettista Jon Hassell in combutta col solito Brian Eno: "Un suono unificato primitivo/futurista che combina tratti degli stili world/etno con tecniche elettroniche avanzate". Partendo da precorritori non ancora elettronici come Third Ear Band, i tedeschi Embryo o i nostrani Zeit, e giungendo fino all'avvolgente progetto ambient/world "Marco Polo" (con Roger Eno e Harold Budd, David Sylvian, David Torn, Arturo Stalteri, oltre che i mastermind Nicola Alesini e Piero Andreoni), si incontrano band quali gli israeliani Minimal Compact e i nostrani Minox, dalle tinte decisamente più cupe e wave. Il contributo di Materiali Sonori al cammino verso il post-rock si manifesta anche in esperienze singolari come quella dei fiorentini Cudù (wave acquatica sfociante nel mutant jazz) o dei perugini Militia, forse l'ensemble più prossimo al post-rock propriamente detto, con una sorta di musica totale fortemente atmosferica, perfettamente in equilibrio fra attenzione melodica, umori post-punk, vocazione sperimentale e dinamismo progressivo.
4AD è l'altro nome cruciale di questo percorso sotterraneo. Per l'etichetta/tempio di dream-pop, goth, alternative rock escono i dischi dei Cocteau Twins, ma anche vertici dell'astrattismo post-punk come gli album solisti di Colin Newman dei Wire (autodichiarato ponte fra le estetiche progressive e post-rock). E la band britannica che forse più di ogni altra anticipò le forme compiute del primo post-rock: i Dif Juz. Autori di un dream-pop dinamico e dalla forte componente strumentale, conciliarono gli arpeggi cristallini figli di Reilly e Guthrie con spunti jazz-rock e un estro marcatamente progressivo, rappresentando così un'anticipazione non solo del sound dei Bark Psychosis, ma anche di band successive come Tangents, The Drift, Arms and Sleepers, Tristeza. Legata a 4AD è anche la sub-label Guernica, per la quale escono gli album di due nomi già citati, Insides e Spoonfed Hybrid.
Altro pilastro del rock indipendente e alternativo, anche Rough Trade svolge un suo ruolo: pur essendo più disorganico nella proposta, il suo catalogo tocca una parte cospicua degli artisti presenti nella playlist (e molti altri che avrebbero potuto esserlo!). Nel 1988, in particolare, pubblica un disco che è una pietra miliare al crocevia fra dream-pop, dance music e post-punk liquefatto: "69" degli A.R. Kane. Ascoltandolo oggi, è difficile non cogliere al suo interno una delle prime chiare convergenze fra i molteplici fili tracciati finora attraverso i dieci anni precedenti. All'inizio degli anni Novanta, gli A.R. Kane fondano una propria label, H.ark!, attraverso cui escono i primi lavori dei Butterfly Child e i due Ep "Flying To Vegas" e "May" dei Papa Sprain, che spinsero Simon Reynolds a includere la band nelle sue prime introduzioni al post-rock.
Il silenzio e il fragore
Occupandosi di ancora un'altra etichetta - in campo jazz, questa volta - si sfocia in un tema meritevole di approfondimento ulteriore. Se c'è una singola label che possa dirsi artefice di un nuovo approccio al silenzio, questa è certamente la tedesca Ecm Records. Fondata nel 1969, è da allora rinomata per il suo gusto raffinato ed eclettico, capace di sposare fusion, minimalismo, ambient, world music, modern classical in un third stream jazz tanto variegato quanto riconoscibile. A unire i molti e assai significativi nomi del suo catalogo Settanta/Ottanta è soprattutto l'interesse verso le sonorità rade e attutite, fino ad apparire svuotate: Pat Metheny, Keith Jarrett, Jan Garbarek, Terje Rypdal, Enrico Rava, John Abercrombie, Steve Tibbetts, Stephan Micus, Eberhard Weber, Jon Hassell, Ralph Towner degli Oregon, gli Azimuth di Kenny Wheeler, John Taylor e Norma Winstone...
È probabile che l'interesse verso lo stile Ecm abbia contribuito alla crescente attenzione alla quiete nel rock alternativo sulla strada del post-. Ma nell'arco degli anni Ottanta sono diversi gli artisti pop e rock che, prima che il tutto converga in un'estetica riconoscibile, esplorano la direzione della rarefazione in un modo simile a quello che sarà poi di Bark Psychosis e compagnia. Per alcuni di questi è facilmente ipotizzabile un'influenza diretta sui futuri post-rocker: il chitarrista folk John Martyn, l'ex-Soft MachineRobert Wyatt e l'ex-Japan David Sylvian erano figure note e rispettate dalla critica e dal pubblico alternativi britannici. Meno plausibile una conoscenza dei traguardi degli statunitensi Dark, prosecutori della via crimsoniana con un gamelan-rock fatto tanto di vuoti quanto di pieni, o del giapponese Makoto Matsushita, autore di un City pop ammaliante e quantomai diradato.
Ma il primo post-rock non si fa notare soltanto per la tensione verso la quiete. Almeno altrettanto importante, anche se meno plateale, è la ricchezza degli stimoli sonori, intesa come caleidoscopicità dei timbri e, in qualche caso, anche come incursione negli alti volumi. Dominare il fragore, insomma, è essenziale per il primo post-rock tanto quanto l'abbracciare il silenzio.
Gli anni Ottanta, da questo punto di vista, sono forieri di una grande trasformazione: l'avvento del campionatore. Strumenti come Synclavier e Fairlight CMI portano nuove possibilità sperimentali al pop d'alto budget, che sfociano oltre che in megasuccessi del rock melodico anche in hit improbabili, come quelle di Laurie Anderson e dei manipolatori sonori Art Of Noise. Alla schiera degli alchimisti del suono - ma anche del silenzio - va senz'altro iscritto anche il violoncellista statunitense Arthur Russell, che con "World Of Echo" combina looping, delay, distorsioni e timbri acustici, aprendo uno scorcio verso un uso futuribile dell'effettistica rock in un contesto che non lo è più (se mai lo è stato).
Dal campo industrial si sarebbero potuti trarre infiniti esempi di imbrigliamento (o emancipazione) del rumore. Se la scelta è caduta sui Dome del chitarrista dei Wire Bruce Gilbert è soprattutto per la chiara vicinanza del loro rock sound liquefatto ai lidi lambiti dagli A.R. Kane e dai loro discepoli. Gli Young Gods, alfieri svizzeri dell'industrial rock, sono invece il modello dichiarato dell'approccio sample-based dei Disco Inferno, che, pur abbandonandone i tratti granitici, si ispireranno proprio alla loro formula per costruire il proprio inedito suono. Sarebbe facile, infine, citare esperienze estreme come Swans o Neurosis, ma forse i più precoci anticipatori delle dinamiche soft/loud sono i californiani Savage Republic con il loro trance-rock.
Sulla soglia
Qual è stato il primo disco post-rock? La speranza è che questa playlist abbia contribuito a sfaldare le certezze relative alla risposta. Ma forse è anche la domanda a essere mal concepita. Forse non c'è mai stato un inizio netto del post-rock, o se c'è stato, è avvenuto dopo la definizione del termine. Più che riconoscere un'estetica, gli articoli di Simon Reynolds l'avrebbero creata, dando vita a una classica profezia che si autoavvera - e nel farlo, inevitabilmente si allontana da ciò a cui originariamente intendeva riferirsi.
Svela Reynolds, intervistato da Jack Chuter in "Storm Static Sleep - A Pathway Through Post-rock" (Function Books, 2015): "Non ho mai visto gli Slint come una band post-rock. Spaccano decisamente il culo! Sono più simili a un gruppo prog-punk che ai Disco Inferno o ai Seefeel". E lo stesso discorso è applicato dal giornalista ai Mono, ai Mogwai, ai Sigur Rós, perfino ai Talk Talk ("molto più prog che post-rock, anche se si tratta di musica piuttosto placida").
Se lo "spaccare il culo" (to kick ass) o meno rientra fra gli elementi che distinguono l'approccio post- da quello più canonicamente rock, allora una serie di altri artisti merita una menzione d'onore come precorritori. Alcuni sono coevi al discorso di Reynolds: gli Amp, gli Earwig dai quali nasceranno gli Insides, gli 'O'rang dei due ex-Talk Talk Lee Harris e Paul Webb (fondatori fra l'altro di HitIt! Recordings, su cui appariranno album dei Butterfly Child). Altri sono tuttavia decisamente precedenti. L'australiano Peter Jeffries, che in combutta con Jono Lonie incide fra il 1986 e il 1987 "At Swim 2 Birds", tra rock minimalista e landscape music. Gli oregonesi Pell Mell, il cui "The Bumper Crop" esce nel 1987 per SST ed è già svuotatissimo math, e i Momes di Tim Hodgkinson (Henry Cow, The Work), che nel 1989 ci sono a un passo. Barry Clifford Craig aka A Produce, autore dal 1988 di un ambient-rock che convoglia post-punk, dub e spunti elettronici in un suono ormai ampiamente "disgregato". I cornici Chorchazade (il cui primo Ep, "Crackle and Corkette", è addirittura del 1985) e i newyorkesi Hugo Largo (l'Ep "Drum" esce nel 1987), entrambi citati da Jeanette Leech in "Fearless. The Making Of Post-rock" (Jawbone, 2017) ma assenti dalle principali piattaforme di streaming.
Se la soglia è sempre più sfumata, decine di altri possibili nomi potrebbero esservi accostati. Perché non i Cure, i This Heat, Bill Nelson, i Residents, gli Heldon, Vangelis, Franco Battiato? In realtà, molte playlist alternative sarebbero del tutto plausibili. Si è scelta una via in particolare, ma la strada per il post-rock - non dovrebbe sorprendere - è elusiva e molteplice come il territorio a cui conduce.