La ventiduesima edizione
La prima notizia è che non c’è stato il sold-out. Nonostante le 268.000 presenze dichiarate nel corso della conferenza stampa conclusiva, sabato sera al Parc del Forum di Barcellona si stava più larghi del solito: potevi arrivare comodamente sotto palco al concerto dei National oppure nelle primissime file di Charli XCX e goderti gli show come non avresti osato sperare. Per l’edizione 2024 del Primavera Sound l’unica serata andata esaurita è stata quella del venerdì: i fan di Lana Del Rey già alle 16 hanno iniziato ad assieparsi sotto uno dei due main stage, e molti di loro avrebbero poi abbandonato l’area del festival subito dopo lo show dell’icona pop americana. Erano qui soltanto per lei, quasi tutti disinteressati al resto, un comportamento senz’altro anomalo nella storia del PS.
Il risultato è stato un ritorno a un Primavera Sound più “vivibile”, più rilassante. A parte i superfan di Lana, è difficile trovare qualcuno che si trovi qui per la prima volta, molto più semplice incontrare habitué con quindici o venti edizioni in curriculum, quelli per i quali il Primavera è da anni una seconda casa, vissuta seguendo una rigorosa organizzazione: proprio quell’hotel, proprio quel bar dove fare colazione, il pranzo con gli amici alla Bombeta, proprio quell’orario in cui arrivare o andare via. Un rito che si ripete a cadenza annuale, ma che i frequentatori vivono per 365 giorni, incontrandosi virtualmente sui social, luogo dove si scambiano impressioni, materiali, previsioni. Considerato fra i venti Festival più importanti e significativi al mondo, il PS è quasi una religione, che conferma negli anni tutti i suoi ingredienti vincenti: organizzazione impeccabile, zero file, rispetto degli orari (tranne un caso, ne parleremo più avanti), inclusività, eterogeneità della proposta, particolare attenzione all’uguaglianza di genere (ancora oggi pochi Festival hanno una così consistente presenza femminile, date un’occhiata alle prime righe del cartellone del sabato…) e alle minoranze (in line-up quattro artisti che cantano in catalano), e location incredibile, un’area direttamente affacciata sul mare che i grandi festival inglesi possono soltanto sognarsi. Tutto questo consente in qualche modo di digerire la rinuncia anche in questa edizione all’area Bits, quella dedicata agli irriducibili dell’elettronica, con tanto di spiaggetta e Aperol spritz a go-go. Per ballare, le destinazioni principali sono diventate Boiler Room e Warehouse, anche se i grossi nomi del circuito electro (Justice, Disclosure, Roisin Murphy) ormai calcano con ottimi riscontri di pubblico i palchi principali.
L’aria di festa, di celebrazione, di grandeur, si inizia a respirare già prima di oltrepassare i tornelli posti all’ingresso, poi in un attimo si viene catapultati dentro una girandola di emozioni, un universo che unisce l’appassionato di hardcore-punk più intransigente al clubber più fighetto, l'hipster alla ricerca del nome più cool al presenzialista curioso e un po' distratto, ovvio risultato di una line-up ricchissima, che spazia in maniera del tutto naturale dai Legowelt ad Arca, da Charlemagne Palestine agli Atarashii Gakko! Un’alternanza continua fra intoccabili mostri sacri e giovani eroi delle nuove generazioni consente di togliersi la soddisfazione di ammirare il nome ultra-famoso ma al contempo di soddisfare la curiosità di scoprire nuovi artisti e nuovi suoni. Ognuno disegna il proprio percorso, zigzagando fra i tanti palchi, sguazzando in un’abbondanza che comporta rinunce, ma al contempo sviluppa adrenalina, supportata da standard di qualità incontestabili. Ogni anno si può notare una progressiva “coachellizzazione” del Primavera Sound, con tanto di giovani influencer alla ricerca dello scatto più "instagrammabile", ma alla fine, al di là delle solite sterili e infondate critiche sulla degenerazione della line-up (lo dicevano anche nel 2017 o nel 2018, andatevele a rileggere ora…) la vera caratterizzazione di questo Festival è l’effetto "random/mordi e fuggi" causato dalle tante sovrapposizioni previste nel programma. Ne consegue il continuo spostamento da un palco all’altro, figlio dei nostri tempi, figlio della cultura del web, figlio di una modalità di fruire il prodotto musica che tende a rendere obsoleto il concetto di concerto come atto da seguire in maniera integrale. La conseguenza è - in molti casi - l’innalzamento del livello qualitativo: ogni band deve dare costantemente il massimo, pena il rischio di vedere il pubblico defluire verso altri palchi.
Tropical Fuck Storm, Phoenix e National: tanto per iniziare…
Si vive di contrasti, al Primavera Sound, di generi musicali che si incrociano, di generazioni che convivono con naturalezza, di momenti che resteranno indimenticabili, di amici che si (re)incontrano, con i quali condividere un drink o un concerto intero, di madornali rimorsi per quello che non si è potuto vedere. Come al solito l’avventura dura una settimana, tranne nel 2022 quando le settimane furono due. Consumati i prologhi per pochi intimi del lunedì e del martedì, il cartellone “Primavera a la ciutat” ospitato in alcuni locali disseminati per il centro di Barcellona, dal mercoledì si iniziano parzialmente a schiudere le porte del Parc del Forum. Un solo palco attivo al mercoledì, l’Amazon, sul quale quest’anno i nomi forti sono i Tropical Fuck Storm, ai quali è affidato il compito di accendere la miccia, e i Phoenix, che a fine serata regalano un paio di gradite sorprese: Ezra Koening dei Vampire Weekend è loro ospite sul palco per un paio di pezzi e a seguire il cantante Thomas Mars si lascia andare a un lungo crowdsurfing. Fra Tropical e Phoenix trovano spazio l’indie-pop dei Ratboys, prossimo ai momenti più briosi dei Big Thief, e il Christian-pop degli Stella Maris, formazione spagnola che propone un coloratissimo show denso di elementi mutuati della tradizione cattolica, che si chiude con tanto di processione e resurrezione.
Il cartellone della ciutat prosegue anche il mercoledì, e quest’anno vede come principali protagonisti i National al Razzmatazz per le fortunate duemila persone che sono riuscite ad assicurarsi l’ingresso. L’occasione dei National in un piccolo club è una soddisfazione sia per i fan che per la stessa band, non più abituata a esibirsi in una situazione tanto intima. Dal giovedì poi si fa sul serio, un centrifugato di energia che spazia dell’indie un pochino anemico dei Voxtrot ai muri di chitarre degli Armed, dal post-rock dei Duster alla contagiosa energia di Amyl And The Sniffers, fra vecchie glorie ancora in forma smagliante (Deftones, Arab Strap, Blonde Redhead) e formazioni che cercano di ritagliarsi maggiore visibilità (Mannequin Pussy, HTRK). Nella Warehouse si festeggiano i vent’anni di attività della Hyperdub con una parata di stelle comprendente Kode9, Ikonika, Aya e Tim Reaper, sui palchi più grandi si balla con L’Imperatrice, Sofia Kourtesis, Justice, fino al dj-set di Peggy Gou, seguito alle 4,20 del mattino dalla chiusura affidata ad A.G.Cook.
Beth Gibbons e Pulp protagonisti del giovedì
Dal giovedì è una vera girandola di emozioni: in qualsiasi momento può succedere qualcosa di inatteso. Sono ovviamente molti i riferimenti a Steve Albini: al cantante degli Shellac è intitolato un palco, in cui viene allestita una sessione di ascolto del nuovo album “To All Trains”, proprio in corrispondenza dello slot che avrebbe dovuto ospitarli; PJ Harvey e i Pulp hanno omaggiato Albini dedicandogli due esecuzioni da brividi. Ricorrente anche il riferimento alla Palestina: diversi artisti si presentano in scena con kefiah al collo e scritte sulle magliette.
I due nomi più attesi del giovedì non tradiscono le attese. Beth Gibbons torna a esibirsi come solista dopo oltre vent’anni, l’occasione è di quelle da non perdere. Esegue tutto il nuovo disco, “Lives Outgrown”, più un paio di tracce risalenti a “Out Of Season”, il lavoro che Beth condivise con Paul Webb, l’ex-bassista dei Talk Talk, nel 2002. L’atmosfera è magica, il pubblico segue con insolito (per i rumorosi standard del Primavera) silenzio lo sviluppo del set e, verso il finale, un tripudio accompagna “Roads”, l’unica concessione al repertorio dei Portishead.
A mezzanotte in punto la Gibbons termina il proprio set al Cupra, il palco più bello del Festival, un anfiteatro con vista mare. Alla stessa ora i Pulp di Jarvis Cocker entrano in scena al Santander (uno dei due main stage, l’altro porta il nome Estrella, sono i due sponsor principali). Band in gran forma che in un’ora e mezza snocciola il greatest hits della propria carriera. Senza perdersi troppo in convenevoli, “Disco 2000” arriva subito come secondo pezzo in scaletta, tanto per rendere l’atmosfera eccitante. “Something Changed” è dedicata alla memoria di Steve Albini e Steve Mackey, poi in sequenza (quasi) tutti i loro pezzi più famosi, fino alla super-hit “Common People” e al bis “Razzmatazz” (con quel titolo non potevano non farla a Barcellona).
Ethel Cain, Lana Del Rey e National illuminano il venerdì
L’effetto Lana Del Rey si abbatte sul Festival come un uragano. Dalle 16 tantissimi fan (con sei ore d’anticipo…) cercano di assicurarsi un posto il più possibile vicino alla transenna. Sono qui soltanto per lei, ma gli artisti che si esibiranno su quel palco non potranno che beneficiarne. E così la giovanissima cantautrice americana Ethel Cain si ritrova alle 18,20, con il sole ancora alto, ad avere un pubblico molto più numeroso del previsto. Nonostante la penalizzazione dell’orario, la sua è una delle migliori esibizioni di questa edizione. Alternando brani più sofferti (“A House In Nebraska”) a veri gioiellini pop (“Crush”, “American Teenager”), la Cain si conferma fra le migliori songwriter della sua generazione. In scaletta anche un paio di inediti, segno che il successore dell’eccellente “Preacher’s Daughter” potrebbe essere in arrivo.
A seguire, Omar Apollo e Troye Sivan avrebbero senz’altro avuto un seguito importante a prescindere, ma anche loro beneficiano dell’effetto Lana, che si presenta sul palco verso le 22,15, con un ritardo di circa venticinque minuti: a memoria non ricordiamo nulla del genere nel meccanismo svizzero del Primavera Sound. Per i fan poco male, a loro sarebbe sufficiente ammirarla anche per soli dieci minuti, per tutti gli altri sgorga il malumore per aver sacrificato altri concerti concomitanti.
Lo show è esattamente quello che i fan si attendono, ed allo stesso tempo è il tipo di spettacolo che si presta a essere pesantemente criticato dai detrattori. Ma Lana è questo, una superdiva che per far perdonare apparente svogliatezza e voce non imperdibile a fine spettacolo si intrattiene a lungo con i fan delle prime file, scatta selfie, firma autografi, scambia qualche parola con diversi spettatori. Un bel momento extra-musicale, un messaggio di disponibilità che non tutti gli artisti concedono a chi consente loro di assurgere al ruolo di superstar. Per il resto è possibile notare la ritrovata perfetta forma fisica di Lana Del Rey e un pugno di composizioni che hanno contribuito ad arricchire il grande canzoniere americano degli ultimi anni, questa sera su tutte “Born To Die” e “Video Games”.
Dopo Lana scatta il fuggi fuggi dei fan: il Parc del Forum torna così a essere territorio esclusivo degli abituali frequentatori, che come per magia si ritrovano comodamente sottopalco per un’esibizione dei National, di nuovo loro, ben più rock del solito. Le chitarre di Bryce e Aaron Dessner la fanno da padrone per lunghi tratti del set e Matt Berninger dà spesso la sensazione di aver bevuto un po’ troppo: gli ingredienti giusti per assicurare un gran bel concerto della band di Cincinnati.
Altrove le alternative non mancano. In Auditori si susseguono Charlemagne Palestine, Joanna Sternberg, Chelsea Wolfe e Jessica Pratt, in pratica un festival nel festival. Sui vari palchi del Forum solita girandola che miscela il brillante pop delle Last Dinner Party all’intransigenza hardcore di Scowl e Gel, il cantautorato illuminato di Faye Webster e Tirzah al metal gentile dei Brutus, la atmosfere jazzy dei Badbadnotgood ai mostri sacri Yo La Tengo, con le derive electro affidate ai vari Disclosure, Barry Can’t Swim, Arca e Sega Bodega, più le sfidanti programmazioni di Boiler Room e Warehouse, dove oggi fra gli altri ci sono Mica Levi e Snow Strippers.
Polly Jean, la Regina del sabato
La palma di miglior set di questa edizione spetta senza troppe indecisioni a PJ Harvey. Nel bel mezzo del sabato sera “clasha” perfettamente con Liberato e nelle ore precedenti molti italiani sembrano intenzionati a seguire metà di ciascuno show. Ma quando, poco prima delle 21,00, Polly Jean entra in scena, accompagnata da una pioggia intensa che non mollerà la presa per un paio d’ore, il pubblico resta letteralmente immobilizzato al cospetto di una bellezza indescrivibile. La Harvey ferma il tempo, e la pioggia completa uno scenario incredibilmente poetico. La cantante inglese esegue soltanto cinque tracce dal recente “I Inside The Old Year Dying” per lasciare spazio a eleganti revisioni da un repertorio invidiabile, senza rinunciare all’energia assicurata da brani come “50ft Queenie”. Due i momenti da ricordare. Anzitutto la magnifica “Black Hearted Love”, ripresa da “Dance Hall At Louse Point”, l’album condiviso con John Parish, oggi con lei sul palco, canzone che non veniva eseguita dal 2009. Poi “The Desperate Kingdom Of Love” (dedicata a Steve Albini, che nel 1993 produsse il suo secondo lavoro, “Rid Of Me”), eseguita da Polly Jean in perfetta solitudine, voce e chitarra. Lacrime e applausi.
Giornata intensa, quella del sabato, aperta per quasi tutti alle 17,30 dal vivace pop beatlesiano dei Lemon Twigs e proseguita saltando fra il pop dissonante dei Water From Your Eyes, quello più introspettivamente indie degli Slow Pulp e quello dalla costruzione più mainstream dei Royel Otis (facile per loro prevedere un grande successo). Ci sono le chitarre di Militarie Gun e Model/Actriz, la lounge da aperitivo dei Crumb, le fuoriclasse americane 070 Shake, Mitski e SZA, le finestre nostalgiche sul passato assicurate da American Footlball e Bikini Kill, dopo la mezzanotte per ballare c'è ancora tanto pop grandi firme, con Romy, Roisin Murphy e Charli XCX.
In Auditori altra sfilata di nomi importanti, con Nala Sinephro, Lankum, Wolf Eyes e Shabaka, verso le 2 del mattino il ritorno degli unexpected show, con un set annunciato all’ultimo minuto dei Militarie Gun (bis nell'arco della stessa giornata per loro) per meno di duecento persone. Un terremoto sonoro che si abbatte all’interno del Red Sound Studio, un piccolo spazio circolare indoor inaugurato quest’anno, nel quale gli artisti si esibiscono senza un palco, come se si trovassero in sala prove, circondati dal pubblico.
La domenica al Parc del Forum si chiude con il “Brunch On The Beach”, nobilitato dalla presenza di dj-set di spessore (Chloé Caillet e The Blessed Madonna i più gettonati). La sera gli ultimi appuntamenti del “Primavera a la ciutat” destinati a coloro che hanno optato per la ripartenza al lunedì. Poi via alla consueta trafila fatta di early bird e supposizioni sul prossimo cartellone, che saranno seguiti nei mesi dai primi annunci ufficiali, dalla line-up completa, dagli orari e, finalmente, fra un anno esatto, da un’altra settimana di musica, che sarà leggermente spostata in avanti, con le giornate principali che ricadranno da giovedì 5 a sabato 7 giugno 2025, tagliando così fuori il “ponte” italiano del 2 giugno.
Da quest'anno l'organizzazione del Festival ha reso possibile assistere a una selezione di concerti in diretta streaming: ma vuoi mettere l'emozione di essere là? Iniziate a preparare i popcorn: il conto alla rovescia è già partito…