Nel periodo d’oro del cantautorato italiano (anni 70-80), all’ombra di star di prima grandezza, è cresciuta una generazione di songwriter rimasti – più o meno – sottotraccia. Alcuni hanno avuto anche il loro momento di gloria, scalando le classifiche o sfornando almeno una hit, di altri si ricorda ormai a malapena il nome. Tutti avrebbero meritato miglior sorte rispetto a quella riservata loro da un crudele destino: trovarsi a competere con la più straordinaria e ineguagliabile generazione di cantautori della musica italiana.
Questa playlist vuole essere un piccolo “risarcimento” nei loro confronti, oppure semplicemente un modo per riportare alla luce artisti che, in piccola o grande parte, hanno contribuito alla storia più nobile della canzone italiana. Alla selezione sono state aggiunte 5 bonus track: si tratta di pezzi che purtroppo non sono presenti su Spotify e si possono ascoltare solo nello streaming di YouTube.
Qui sotto la raccolta integrale, a seguire i singoli brani commentati.
Claudio Rocchi – La realtà non esiste
Ex-bassista degli Stormy Six – abbandonati per via di una svolta militante che non condivideva - cresciuto tra gli studi di filosofia e la frequentazione della Milano underground che ruotava attorno alla rivista Il Re Nudo e ai Festival del proletariato giovanile, Claudio Rocchi è uno spirito nobile, attratto da mondi mistici e lontani. Un pesce fuor d’acqua, dunque, nell’Italia degli anni di piombo. Ingaggiato dalla Ariston, che intravedeva in lui un nuovo Lucio Battisti, si rivelò un inguaribile anti-divo, inseguendo testardamente il suo percorso artistico, culminato in "Volo magico n. 1" (1971) in cui la sua malinconica vena poetica si sposa al sincero amore per le musiche orientali. "La realtà non esiste" è un’ammaliante innodia panteistica: un delicato brano acustico con il piano e la voce trasognata che vanno a sottolineare quanto la divinità risieda anche nel suo creato e quando la percezione delle cose sia spesso più forte della stessa realtà. Un inno alla sensibilità umana cadenzato come un mantra. Riuscirà per breve tempo a catturare anche il pubblico, trascinando l’Lp nella Top 5 della classifica italiana. Poi, scenderà l’oblio, con cicliche testimonianze di stima dai colleghi, tra i quali Franco Battiato, che confezionerà per Alice una splendida cover proprio di questo brano.
Alberto Camerini - Macondo
Alle chitarre in "Volo magico n. 1" c’era proprio lui, il futuro “Rock’n’roll robot”, l’Arlecchino della musica italiana, che, nonostante una stagione di popolarità grazie proprio a quella celebre hit degli 80’s - bissata da “Tanz bambolina” - finirà poi con lo sparire progressivamente dai riflettori. Eppure, Alberto Camerini vanta anche una notevole produzione solista, che lo ha rivelato personaggio eclettico, capace, attraverso il suo eterno Carnevale, di smascherare le contraddizioni e i simulacri della società italiana. Ascoltando le sua canzoni, le vediamo quasi scorrazzare, le tante marionette che popolano questa iper-realtà: "La gente, gli sconvolti, i danzatori, i maghi, i clown, gli scocciatori, i parlatori, i politici, i filosofi, i poeti, i giocatori", come canta in questa stravagante "Macondo", pubblicata nel 1978. Ovvero, come sperimentare e dissacrare attraverso la curiosità, l’ironia e la follia.
Donatella Bardi – No (Donatella)
Sempre nel succitato disco di Rocchi, compariva una voce femminile: era di quest’altra grande outsider della canzone italiana che purtroppo ci ha lasciato giovanissima, a 45 anni, nel 1999 per un'insufficienza coronarica. Figlia del pittore Mario Bardi e sorella del chitarrista Lucio Bardi, torinese di nascita e milanese di adozione, Donatella collaborerà con Rocchi in altri 4 album, prima delle esperienze con Alberto Camerini ed Eugenio Finardi ne Il Pacco e con Demetrio Stratos e Paolo Tofani degli Area. Nel 1974 incide per la Elektra questo album “A' Puddara è un vulcano”, con il fratello Lucio alla chitarra. Con la sua voce limpida e i suoi testi tanto impegnati quanto ingenui, creò una sorta di trait d’union tra cultura hippie dei 70’s e successive generazioni indie, rifugiandosi in una nuvola di leggerezza utopista in piena cappa da anni di piombo. Questa “No (Donatella)” offre un saggio del suo talento immergendo il tema del contrasto generazionale in uno straniante mood psichedelico. Curiosità: un’altra Donatella (Rettore, anche lei tra le prime cantautrici italiane) userà quel nome in una canzone, nel 1981, ottenendo ben altro successo.
Flavio Giurato – Orbetello
Tra gli outsider “di culto” della canzone italiana, un posto d’onore spetta a questo cantautore romano figlio di un Console Generale in Uruguay (e fratello del giornalista tv Luca). Dopo il debutto su Lp con “Per futili motivi”, concept-album sulla storia di un ragazzo nel periodo del fascismo, è con il disco successivo, “Il tuffatore” (1982) che, anche grazie al supporto in tv del lungimirante “Mister Fantasy” di Carlo Massarini, riesce a ottenere un briciolo del successo che avrebbe meritato in tutta la sua carriera. Le canzoni di Flavio Giurato rifuggono la tradizionale ripartizione strofa-strofa-ponte-ritornello assecondando liberamente il racconto, mentre le atmosfere sonore mescolano episodi acustici, strumentali e melodie orecchiabili, come quella di questa delicata “Orbetello”, al centro del nuovo concept - una storia d'amore, nata durante un torneo di tennis ("Tu sei nel mio cuore dal torneo di Orbetello/quando è libecciato e non si è giocato"), con riflessioni sulla vita giovanile di quegli anni e spunti ironici. A impreziosire il brano, inserti di fiati prog e soprattutto il pianoforte del jazzista Toto Torquati, che detta un andamento ritmico pulsante e incessante. Una prodezza assoluta cui seguirà l’ancor più ambizioso album “Marco Polo” (1984).
Stefano Testa - Il dio sulla ferrovia
Recentemente “rispolverato” dalla meritoria etichetta Snowdonia, che con “Il silenzio del mondo” (2012) lo ha fatto conoscere al pubblico indie dopo tanti anni di oblio, Stefano Testa (classe 1949, romano ma vissuto a lungo a Porretta Terme, Bologna) può vantare soprattutto un disco di culto del 1977, "Una vita, una balena bianca e altre cose", non distante dalle originali orchestrazioni dal coevo “L'Eliogabalo” del cantautore/attore siciliano Emilio Locurcio. Ben strutturato musicalmente e imbevuto delle contraddizioni del movimento durante il biennio ‘76-’77, lacerato tra militanza e vissuto personale, il disco è anche denso di riferimenti letterari, da Cesare Pavese (“Una vita”) a Herman Melville (“La ballata di Achab”) fino all’intimismo di Jorge Luis Borges in questa splendida “Il Dio sulla ferrovia”, dalle sottili venature prog, con la voce profonda e intensa di Testa a pennellare una canzone non distante dalle vette liriche del Claudio Lolli di “Ho visto anche degli zingari felici”.
Gianni Nebbiosi – E qualcuno poi disse
Ex-sassofonista del Canzoniere del Lazio, il romano Gianni Nebbiosi ha preferito alla musica una stimata carriera di psicoanalista. Lo tolse dall’oblio Francesco De Gregori nel 2018, rispolverando in tour una sua canzone del 1973, “Che razza de città”, dedicata ai problemi (eterni) della Città Eterna. In quel periodo Nebbiosi era un giovane folksinger spronato dall’incontro con Giovanna Marini e da un’ideologia militante, applicata alla realtà terribile dei manicomi. Al tema dedica il mini-Lp “E ti chiamaron matta” del 1972, all’insegna di un folk spartano e scabro, come da tradizione dei Dischi del Sole: solo voce e chitarra, più sporadici inserti di piano, organo o clarinetto (suonati dallo stesso Nebbiosi). Giovanna Marini lo assiste alla seconda voce anche in questa struggente e indignata “E qualcuno poi disse”, che racconta di un disperato quanto vano tentativo di un paziente di tornare a una vita normale in famiglia. Nebbiosi andrà avanti tra Il canzoniere del Lazio e gli Alberomotore (con Ricky Gianco), prima di interrompere, di fatto, la sua carriera musicale per dedicarsi alla psicanalisi.
Gianfranco Manfredi – Quarto Oggiaro story
Nato a Senigallia nel 1948, ma milanese d’adozione, Gianfranco Manfredi entra presto in contatto con il mondo controculturale italiano, partecipando alle attività di Il Re Nudo, tra situazionismo anarchico e festival rock. Dopo il debutto su Lp con “La crisi” (1972) e un’esperienza in veste di autore per Donatello, si ritaglia un suo spazio con l’album “Ma non è una malattia” (1976), che con le sue ballate mette alla berlina il linguaggio e i luoghi comuni della "nuova sinistra". Brilla, in particolare, questa dissacrante - ed esilarante - “Quarto Oggiaro Story” in cui, rivolgendosi con toni da militante a un presunto amico disimpegnato, ironizza su espropri proletari (“Davanti al supermarket saccheggiato/ avevi in tasca una scatola di tonno dello Wyoming/ si vede che la tua coscienza politica era scarsa”), numi cinematografici (“il Bertolucci… la Cavani S. Francesco e i sette nani… Scapponsanfan' dei fratelli Taviani”) e must letterari (“io ci ho qua il Kerouac, ci ho qua il Garcia Marquez ci ho qua il teatro di Fo… E tu te legge Agata Criste co' Totonno poro criste”). Il contrasto è reso ancor più comico dal brusco passaggio musicale da atmosfere psych-funk a una tarantella da festa paesana. Un brano folle e spassosissimo.
Daniele Pace – Piccerè
Ma nel campo dell’ironia caustica e dissacrante nessuno può competere con Daniele Pace, noto soprattutto come membro e fondatore degli Squallor. Pugliese di origine, ma nato a Milano, il “Serge Gainsbourg italiano” – come è stato ribattezzato per via della sua inconfondibile erre moscia al servizio di una voce cavernosa – è stato anche e soprattutto un formidabile autore, al servizio della musica leggera italiana, da “Nessuno mi può giudicare” per Caterina Caselli a “E la luna bussò” per Loredana Bertè. Nel 1979, in una pausa dagli Squallor, incise questo disco solista “Vitamina C”, passato quasi inosservato, se non per il 45 giri “Che t'aggia fa” (noto come sigla del programma tv “La sberla”). La canzone che abbiamo estratto è invece la struggente “Picceré”, scandita dal piano ritmato e dal sussurro sensuale di Pace, con il suo dialetto napoletano inconfondibile. A farla emergere dall’oblio è stato soprattutto il regista Pietro Marcello in una splendida sequenza del suo film “Martin Eden”, ambientata in una Napoli passata e senza tempo.
Tito Schipa jr. – Sono passati i giorni
Altro leggendario outsider della canzone italiana, il figlio del celebre tenore Tito Schipa nasce in Portogallo e cresce tra Stati Uniti e Parigi, trasferendosi poi a Roma, dove entra nel giro beat. Nel 1966 diventa il presentatore delle serate al Piper, dove debutta con un'opera beat, “Then an Alley”, basata su canzoni di Bob Dylan arrangiate in chiave di opera rock. Affascinato da questa formula, l'avrebbe ripetuta più volte, a partire da “Orfeo 9”, una delle prime opere rock italiane, da cui saranno ricavati un disco e un film. Il debutto come cantautore avviene nel 1971 con la pubblicazione di questo 45 giri “Sono passati i giorni”. Più che una canzone, una “meta-canzone” che riflette sulla genesi e l’oblio di un vecchio brano dimenticato, per una sorta di metafora del tempo che passa, tra musica in crescendo, suoni onomatopeici (dal motore dell’auto all’audiocassetta che entra nell’autoradio), versi immaginifici e l’interpretazione intensa ad opera di Schipa, che continuerà poi a dividersi tra l’attività di musicista, di regista e di docente di drammaturgia.
Mario Panseri – Sulla spiaggia d’inverno
Nato a Roma, nipote del trombettista jazz Nunzio Rotondo, Mario Panseri si trasferì presto in Liguria, prima a Vado Ligure e poi a Cairo Montenotte. Fu ingaggiato dalla Rca, ma dopo un primo Lp omonimo, con gli arrangiamenti di Gian Piero Reverberi, e il successivo “Adolescenza”, ispirato al romanzo “Agostino” di Alberto Moravia e prodotto da Vincenzo Micocci, passò alla Polydor per la quale incise questo terzo Lp “Sulla spiaggia d’inverno”, sorretto dalla produzione “sintetica” di Niko Papathanassiou e dagli arrangiamenti di Yorgo Pentzikis. La melanconica title track è una ballata pianistica sciogli-cuore, in una ideale spiaggia metafisica tra gabbiani e sciabordii del mare in lontananza, in cui risplende tutta l’intensità intimista dei suoi testi, al servizio di uno stile vocale vicino a quello del miglior Luigi Tenco. Non è la sola gemma di un disco sorprendente, che presenta anche brani più ritmati ed elettronici in un mood dissacrante non lontano dal primo Alberto Fortis. All’epoca, però, passò praticamente inosservato. Ormai lontano da tempo dalle scene, Panseri ci lascerà a soli 50 anni, nel 1995, per un infarto.
Gianni D’Errico – Antico teatro da camera
Una storia triste anche quella del brindisino Gianni D'Errico: morirà a soli 26 anni, investito da un'auto proprio poco dopo aver terminato le registrazioni di questo album, che uscirà postumo nel 1976. Nei pochi anni della sua breve carriera, però, ha lasciato più di una gemma, collaborando anche con Caterina Caselli, Patty Pravo e Maurizio Vandelli (Equipe 84), che produrrà questo suo album d’esordio dalla chiara impostazione prog, su cui aleggia un’aura battistiana, con testi metafisici e visionari, che toccano però anche temi scomodi per l’epoca, dall’omosessualità alla reincarnazione e al suicidio. Stampato in tiratura limitata, è considerato oggi uno tra i più rari vinili italiani d’autore. L’intensa title track, dalla folgorante e sinistra coda strumentale, ne è la sintesi più preziosa.
Stefano Rosso – Letto 26
Formatosi nei night e nelle osterie, il romano Stefano Rossi non si impegnò più di tanto nell’escogitare un nome d’arte, limitandosi a sostituire l’ultima lettera del cognome. In compenso, sfornò (verbo non casuale, visti i suoi trascorsi da garzone di un fornaio) una manciata di gradevolissime canzoni, inclusa la celebre “Una storia disonesta” in cui sdoganò beffardamente lo spinello nell’Italia super-proibizionista – ma pur sempre post-sessantottina – dell’epoca. Erre moscia, tono colloquiale, suoni in bilico tra folk-country americano e canzone popolare romanesca, metteva in mostra delicate melodie e raffinati arpeggi in fingerpicking. Come quando raccontò a modo suo la degenza in ospedale al “Letto 26” per una tonsillectomia. Un pretesto per uno squarcio poetico e malinconico sulla sua vita a Trastevere, nell’epica via della Scala, condito dalla sua proverbiale (auto)ironia.
Goran Kuzminac – Stasera l’aria è fresca
A proposito di fingerpicking, sempre forbito ed elegante anche quello di Goran Kuzminac, cantautore di origini serbe, cresciuto in Trentino dove si trasferì con la famiglia fin dall’età di 6 anni. Notato da Francesco De Gregori, fu da questi segnalato a Vincenzo Micocci, già direttore artistico della Rca, quindi lavorò al seguito dei tour di Angelo Branduardi, Lucio Dalla e Antonello Venditti, aprendone i rispettivi concerti. Il meritato successo arrivò nel 1978, con questo singolo “Stasera l'aria è fresca”, brillante numero folk-country che mise in mostra tutta la sua abilità compositiva e la sua tecnica chitarristica: vinse anche il Festival di Castrocaro e funse da trampolino per il suo primo Lp “Ehi ci stai”, da cui fu tratto il singolo (con testo di Gianfranco Baldazzi) con lo stesso nome, che si piazzò secondo al Festivalbar. Curiosità: la destinataria del messaggio era l’amica cantautrice Grazia Di Michele, di cui il buon Goran era innamorato (non corrisposto). Seguì per lui un breve periodo di popolarità, con tanto di tour assieme a Ron e Ivan Graziani e relativo “Q concert”, contenente tre loro canzoni. Ci ha lasciato nel 2018, in punta di piedi, come sempre.
Grazia Di Michele – Le ragazze di Gauguin
Ed eccola, quindi, la cantautrice oggetto del desiderio di Kuzminac, l’eterea Grazia Di Michele. Una delle primissime, in Italia, a potersi fregiare di questo titolo, a partire dal suo Lp d’esordio "Cliché" (1978). Per trovare riferimento femminili nella canzone d'autore bisognava guardare fuori dai nostri confini - Emmylou Harris, Joan Baez, Carole King, Joni Mitchell. E proprio quest'ultima è un punto di riferimento di Grazia, originale autrice con la chitarra che riesce a emergere dopo la sbornia (anche italiana) dei sintetizzatori con testi evocativi e interpretazioni di classe. Come quella con cui stregò tutti nell’anno 1986 con lo stile elegante e intimista de "Le ragazze di Gauguin", title track del suo Lp più fortunato. Poi, riapparirà a sprazzi e con alterne fortune, sopraffatta da nuovi stili – anche femminili - decisamente più aggressivi.
Rossana Casale – La via dei misteri
Proprio con Grazia Di Michele, condividerà un passaggio sanremese, con tanto di terzo posto per il duetto di "Gli amori diversi" (1993), quest’altra raffinata chanteuse nostrana, anche se newyorkese di nascita, per molto tempo relegata nell’ombra come “corista di Alberto Fortis” (a lungo suo compagno anche nella vita e autore del suo primo singolo “Didin”). Eppure, uscita dal bozzolo, la bionda Rossana Casale dimostrò tutto il suo valore di raffinata autrice e interprete, plasmata alla scuola del jazz americano, in particolare con questo album del 1986, “La via dei misteri”, delicato scrigno di riflessioni intimiste impreziosite dalle sue eleganti interpretazioni e dagli arrangiamenti raffinati di Maurizio Fabrizio. Come in questa vellutata title track, un po’ bossa nova, un po’ jazz-pop da night-club. In pochissime, in Italia, seguiranno la sua strada, tra queste l’altrettanto talentuosa Chiara Civello.
Gino D’Eliso – Il mare
Ribattezzato il "sovrano del rock mitteleuropeo" (per via di un suo brano del 1980, “Mitteleurock”), il cantautore triestino, in realtà, è sempre rimasto un geniale outsider. Affascinato dal lavoro multiforme di David Bowie, dopo i trascorsi da dj a Radio Capodistria, debuttò nel 1976 con l’album “Il mare”, che gli valse anche un premio come miglior paroliere esordiente. Prodotto dalla Numero Uno di Battisti, il disco si colloca in quell’interstizio tra prog e canzone d’autore che caratterizzava il periodo e vede impegnati alcuni dei migliori musicisti del giro, come Claudio Pascoli e Paolo Donnarumma. I sei minuti della title track tradiscono ancora l’impronta progressive, con sintetizzatori d’antan, venature psych e un flauto pastorale che ricorda un po’ quello di Ian Anderson dei Jethro Tull. In seguito D’Eliso virerà verso lidi elettropop e wave, dimostrando una versatilità degna del suo maestro Bowie.
Garbo – A Berlino… va bene
A proposito di Bowie, il buon Renato Abate in arte Garbo impiegherà molto tempo a scrollarsi di dosso l’etichetta del “Bowie italiano”, per via del suo chiaro legame con l’approccio del Duca Bianco, soprattutto quello berlinese, progenitore di tanta new wave a venire. Ma sarebbe ingiusto ignorare la personalità caratteristica del suo stile. Come in questa “A Berlino... va bene” con cui, nell’anno 1981, riesce a creare un nuovo stile che – come ricorda Marco Bercella su OR - compie il piccolo miracolo di far coesistere il turbato esistenzialismo e la fruibilità radiofonica, il juke-box e le nebbie padane, diventando davvero quel filo teso che verrà poi raccolto dai Matia Bazar di "Tango" e , diversi anni dopo, dalla nuova onda elettrica che, con Subsonica e Bluvertigo, si è riappropriata delle classifiche nella seconda metà degli anni 90, ma pure, più recentemente, da Francesco Bianconi e dai suoi Baustelle.
Faust’O – Godi
E tra gli adepti del verbo bowiano di marca wave va iscritto anche il friulano Fausto Rossi, in arte Faust’O, personaggio eternamente borderline, dissacrante e indignato. A farlo emergere per un attimo dall’underground sarà soprattutto l’Lp d’esordio del 1978, intitolato provocatoriamente "Suicidio". Sin dalla copertina è palese il rimando alla mimica del Bowie della trilogia berlinese. Ma Rossi decide di attuare il paradosso di cantare in lingua italiana. E lo fa in un concept-album, il mezzo espressivo per antonomasia del prog, con lo zampino dell’onnipresente Alberto Radius. La sua musica è un grido contro il conformismo dilagante, con arrangiamenti in bilico tra art-rock, imprevedibile e violento, e sezioni più riflessive e cameristiche, su cui si innestano le tastiere in stile progressive. A guidare il disco, però, è l’incredibile voce di Fausto: capace di passare con agilità dal falsetto a toni più cupi, dal declamare parole soavi a lanciare accuse e ingiurie nel giro di pochi secondi. Come in questa beffarda “Godi”, in cui la demolizione di falsi miti prosegue facendosi beffe del perbenismo cattolico in materia sessuale, su un piano burlesco.
Mario Castelnuovo – Sette fili di canapa
Cantautore e chitarrista romano, scoperto da Amedeo Minghi, che gli procurò un contratto con la It, l'etichetta di Vincenzo Micocci, Mario Castelnuovo debuttò con la magnetica “Oceania” (1981), seguita l’anno dopo da questo pezzo-cult che darà anche il titolo al suo primo album, prodotto dallo stesso Minghi. Presentata a Sanremo nel 1982, “Sette fili di canapa” creerà scompiglio con versi come "C'erano sette Cristi a Follonica ed un ateo sul Sinai bivaccava e aspettava", ma soprattutto col riferimento alla canapa. “La Rai minacciò perfino di bloccarmi la canzone, credevano che parlasse di droga, si presentarono i carabinieri in albergo e dovetti spiegare riga per riga il significato del testo", racconterà Castelnuovo. Per fortuna poi agli italiani è stato consentito di ascoltare questa prodezza: una canzone ossessiva, dall’ombrosità wave, con la voce che reitera ipnotica il testo come un mantra, fino ad aprirsi in una sorta di “falso ritornello”. Con versi dal simbolismo surreale, evocativi e misteriosi. Seguirà breve momento di gloria culminato in un altro bel singolo sanremese, “Nina” (1984) e l’inesorabile oblio.
Mimmo Locasciulli – Sognadoro
Storico collaboratore di Francesco De Gregori, l’abruzzese Domenico “Mimmo” Locasciulli, laureato in medicina a Roma - metà dottore, metà cantautore - entra nei primi anni 70 nella scuderia del Folkstudio. Dovrà aspettare però il 1982 per farsi conoscere con l’Lp “Intorno a trentanni”, grazie soprattutto all’inno generazionale dell’accattivante title track. Nello stesso periodo suona il pianoforte e l'organo Hammond nell'album “Titanic” dell’amico De Gregori (sua, ad esempio, la memorabile coda di piano di “La leva calcistica della classe '68”). E proprio con il cantautore di “Rimmel” lavora a questo album del 1983, intitolato come questa splendida ballata, con una radiosa apertura melodica, un toccante falsetto stile Equipe 84 e un bel testo scritto da De Gregori. È vero che “Sognadoro” parla “di alberghi e ambientazioni puttanesche”, come ironizzerà Locasciulli, ma lo fa con stile poetico e classe impareggiabile: potrebbe essere tranquillamente un’outtake di “Titanic”.
Enzo Carella – Malamore
Cappellaio matto in un modo di ragionieri grigio fumo, Enzo Carella resta ancor oggi, a 46 anni dal sorprendente esordio a titolo “Vocazione”, tra i gioielli meglio custoditi di un’Italia musicale che non (ri)conosce i propri tesori. La formula carelliana, un pop-rock con velature funk e dettagli prog, rilascia motivi di gioioso dadaismo, irresistibile non-sense e, negli episodi migliori, una malinconia mai adagiata sui luoghi comuni abusati dal cantautorato istituzionale. Il sodalizio con il genio poetico di Pasquale Panella, poi coniugatosi nei leggendari album bianchi di Lucio Battisti, ha coniato 5 album animati da una debordante creatività. Dal suo Lp d’esordio, si staglia prepotentemente "Malamore", un prodigio pop che mescola la sinistra freschezza delle melodie di Carella con il testo a dir poco cervellotico ideato da Panella. Qualcosa a metà tra Renato Zero e Steely Dan, Gino Vannelli e Lucio Battisti. "Malamore" vivrà una seconda giovinezza grazie alla cover realizzata da Colapesce per il suo "Un meraviglioso declino" del 2012 e all'eccellente rivisitazione che Riccardo Sinigallia concepì nel 2019 per la colonna sonora del film "Lo spietato".
Pino D’Angiò – Ma quale idea
Delle genia preziosa – e mai sufficientemente protetta – dei Carella, fa parte anche questo ineffabile artista nato a Pompei, all’anagrafe Giuseppe Chierchia. Il suo nome resta legato alla sua unica - ma colossale - hit, il singolo del 1980 “Ma quale idea”, che sbancò le hit parade (anche in Spagna, dove rimase al vertice della classifica per 14 settimane nel 1981). Oltre al testo geniale – una sorta di Fred Buscaglione trapiantato in discoteca – “Ma quale idea” rivela uno stile modernissimo per l’Italia dell’epoca, un prototipo di cantautorato rap tra cantato e parlato, con sonorità a metà tra italodisco e funk, propulse da un riff di basso che ha fatto scuola, composto da Pino D’Angiò insieme a Stefano Cerri, figlio del grande jazzista Franco Cerri. Personaggio scomodo, ingestibile dalla miope discografia italiana, si toglierà soddisfazioni soprattutto all’estero (è l’unico italiano presente nel Dvd “World Tribute To Funk”, l'enciclopedia completa del funk selezionata da Sony Music e spopolò con la hit dance “The Age of Love”, definita come “la prima espressione della musica trance a livello globale”). Quando si ricorderanno finalmente di lui, riportandolo sul palco di Sanremo 2024 assieme ai Bnkr44, sarà troppo tardi: malato da tempo, con le corde vocali ormai distrutte, Pino D’Angiò si spegnerà quattro mesi dopo.
Luciano Rossi – Se mi lasci non vale
Altro cantautore delicato e ironico, è questo romano dalle origini marchigiane scomparso nel 2023 nell’indifferenza generale. Eppure ebbe una fase di notorietà, oltre a firmare canzoni per svariati artisti, da Little Tony a Ornella Vanoni, da Bobby Solo a Lando Fiorini. Ray-Ban e baffoni anni 70, Luciano Rossi propone uno stile scanzonato e melodico, che si sublima nella sua unica hit a suo nome, “Ammazzate oh!” (sigla del varietà radiofonico Quarto programma di Maurizio Costanzo). Vogliamo ricordarlo però con una insospettabile collaborazione con Julio Iglesias, che valse al reuccio latino un successo internazionale da otto milioni di copie. Sì, proprio quella “Se mi lasci non vale” dalle sinuosità disco-funky a cui hanno sfacciatamente occhieggiato Colapesce e Dimartino in “Musica leggerissima”. E se la sdoganano loro, figuriamoci noi…
Marco Ferradini – Weekend
Lo “Schiavo senza catene” della canzone italiana ebbe ben più di un quarto d’ora di celebrità grazie alla celebre “Teorema”, tra le hit italiane più amate (e fraintese) degli anni 80. Per il lombardo Marco Ferradini – con trascorsi da bassista per Yu Kung e nell'Enorme Maria dell'amico Simon Luca - arrivarono tour con Ron e come spalla per Lucio Dalla, Mina, Ivan Graziani, Patty Pravo, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci e tanti altri, più un Q-Disc inciso insieme a Mario Castelnuovo e Goran Kuzminac, sotto la regia di Amedeo Minghi. Ma tutto, sostanzialmente, si esaurì in quel biennio: l’attività successiva (che prosegue tuttora) rimarrà infatti praticamente inosservata. Tuttavia il Q-disc - intitolato proprio “Schiavo senza catene” – che conteneva il suo evergreen, frutto della collaborazione con Herbert Pagani, non era niente male anche per via di brani come la disperata title track e questa struggente "Weekend" (in montagna... senza le donne, senza la tv), con un’aggraziata vena melodica e un testo delicato e romantico alla Fabio Concato, in cui ricorre il nome Teresa del suo primo singolo (“Quando Teresa verrà”, presentato a Sanremo nel 1978). Pop italiano di qualità, di quello che oggi si fatica a trovare in classifica.
Nino Buonocore - Rosanna
Tra gli esponenti della canzone italiana più delicata e malinconica, un posto di diritto spetta anche al cantautore napoletano che proprio con questa soffusa ballata, nel 1987, suggellò la sua svolta verso sonorità più morbide e meno rock rispetto agli esordi. Presentata a Sanremo, “Rosanna” resterà una delle sue poche hit, grazie al suo sound raffinato e al suo testo riflessivo che dipinge sentimenti in tonalità pastello. Un tessuto sonoro che si pone a metà strada tra il cantautorato tradizionale mediterraneo e quel jazz verso cui Buonocore tenderà sempre più nella successiva parte della sua carriera, ormai molto più lontana dai riflettori. Non mancheranno, però, attestati di stima e omaggi, Laura Pausini, ad esempio, inserirà la sua “Scrivimi” nell’album “Io canto” del 2006. Magra consolazione – direte voi - ma sempre meglio di niente.
Francesco La Notte – Due vele
Chitarra acustica nello storico album “Dalla” del 1980 del cantautore bolognese, quindi cantautore solista per lo spazio di un solo album (“Due vele”, 1983), Francesco La Notte è ad oggi praticamente sconosciuto, al punto che cercando il suo nome su Google a malapena apprenderete della sua esistenza. Eppure quella title track malinconica, nella stagione dei Concato, dei Ferradini, dei Buonocore & C. trovava piena cittadinanza. Un pop pianistico e cantautorale a tinte tenui. Un souvenir un po' sbiadito di un'epoca più serena, che a riascoltarlo oggi fa un po’ tenerezza.
Enzo Maolucci - Immaginata
Tra i nomi ormai dimenticati della canzone italiana, c’è anche questo arguto prof torinese, laureatosi con la prima tesi in Italia su un tema legato alla musica rock (“Beat e Beatles”) e destinato a un futuro più accademico che musicale. Riuscì però ad appagare la sua passione per le sette note con una manciata di album. Più che i due rockeggianti Lp degli anni 70 (“L'industria dell'obbligo” e “Barbari e bar”), è da ricordare è il terzo album “Immaginata”, con gli arrangiamenti di Aldo Russo e questa toccante e ironica ballata che dà il titolo al disco, di cui scrive: “Immaginata non è un essere femminile, ma tutta una situazione sentimentale che va dalla città all’idea romantica, all’idealizzazione; non della donna ma di tutto questo movimento strano, interiore, che negli anni Ottanta deve cogliere una persona normale, sensibile, intelligente”.
Francesco Messina – Marcia di Kioto
Siciliano d'origine, milanese d'adozione, ma ormai residente da anni in Friuli, insieme alla sua compagna Alice (di cui è produttore e coautore), Francesco Messina, oltre che musicista, è fotografo, grafico e designer di copertine. A lungo nell’entourage di Franco Battiato, debutta nel 1983 con “Medio Occidente”, griffato da una Madonna truccata in copertina e realizzato con l’aiuto di amici come lo stesso Battiato, Giusto Pio, Stefano Cerri, Roberto Cacciapaglia e Alberto Radius. Un condensato levigatissimo di musica minimalista, pop, elettronica, world e ambient, quasi vaporwave ante-litteram, sublimato in questa atmosferica e rarefatta “Marcia di Kyoto”, che strizza un po’ l’occhio ai coevi Japan. Ma l’intero album è uno dei tesori nascosti della musica italiana.
Juri Camisasca – Nomadi
A proposito di storici sodali di Franco Battiato, ricordiamo anche questo carismatico compagno di viaggio, conosciuto durante il servizio militare e rimasto per anni nel giro del maestro di Jonia. Juri Camisasca è partito con una chitarra dalla periferia di Milano per approdare da eremita alle pendici dell'Etna, e la sua musica ha percorso negli anni altrettanti chilometri. Dopo un esordio all'insegna di un progressive acido (“La finestra dentro”, 1974), la scelta di Camisasca di farsi monaco si è convertita in una serie di album dai toni mistici, sotto le spoglie di un elettro-pop dal fascino terreno e catartico. Ovviamente passati tutti sottotraccia. Non tutti sanno, però, che porta la sua firma anche questa celebre canzone scritta per Alice ("Park Hotel", 1986), che sarà poi inclusa anche nell'album di Franco Battiato "Fisiognomica" (1988) e in "Voce prigioniera" di Giuni Russo (1998). Un brano dal testo mistico ed evocativo, avvolto in una melodia ariosa, dal sapore mediorientale. Un capolavoro. Ma non sarà l'unico regalo ad Alice, per la quale scriverà alcune delle sue più belle canzoni, in gran parte comprese all'interno del suo "Il sole nella pioggia" (1989).
Gianmaria Testa – Le traiettorie delle mongolfiere
Primo disco del piemontese Gianmaria Testa, pubblicato in Francia nel 1985 e ristampato di recente, “Montgolfières” mise in luce tutta la luminosa leggerezza di questo capostazione delle Ferrovie che aveva lasciato il posto fisso in nome della passione per la musica. Un cantastorie dalla voce calda, profonda e intensa, che si muove tra jazz, folk e canzone popolare con la sua chitarra arpeggiata in stile West Coast e il suo spirito da chansonnier sulle orme nobili di Paolo Conte, Ivano Fossati e Fabrizio De André. Questa splendida “Le traiettorie delle mongolfiere” è una ballata folk cantautorale con arrangiamenti di chitarre che aggiungono un tocco delicatamente gitano. Continuerà a realizzare ottimi dischi, ma se ne accorgeranno più in Francia che in Italia, dove morirà a soli 57 anni, per un tumore, nel 2016.
Bonus tracks
Franco Fanigliulo – Davanti a me
Apriamo la sezione delle bonus track – non incluse nella playlist perché purtroppo assenti su Sportify - con uno dei “cani sciolti” più eccentrici della canzone italiana. Marinaio mancato, costretto ad abbandonare le navi per via di una malattia reumatica, lo spezzino Fanigliulo fu scoperto da Franco Ceccarelli dell'Equipe 84 e introdotto nella discografia dalla tentacolare Caterina Caselli. Trovò anche il modo di finire nel film d'esordio di Roberto Benigni, diretto da Giuseppe Bertolucci, “Berlinguer ti voglio bene”, impersonando il cantante di un improbabile gruppo musicale (Romeo e Los Gringos). Tra i brani eseguiti in quelle surreali sequenze, anche questa struggente e teatralissima “Davanti a me”, con versi suggestivi come “Che sarà, la vita mia senza di te? Come quel fiume lì, come quel fiume lì, davanti a me. Correvo giù dai monti verso di te e tu eri lì, e gli occhi tuoi davanti a me”. A svelare agli italiani le sue doti istrioniche provvederà soprattutto il Festival di Sanremo del 1979, dove si presenterà con la provocatoria “A me mi piace vivere alla grande”, sorta di “Vita spericolata” ante-litteram e più sgangherata. Proprio con Vasco Rossi ebbe modo di collaborare, così come con Zucchero, ma proprio quando il suo talento finalmente stava raccogliendo i meritati frutti, fu stroncato da un’emorragia cerebrale, nel 1989, a soli 44 anni.
Roberta D’Angelo – Cinecittà
Originaria di Marsala, ma romana d’adozione, D’Angelo è un’altra cantautrice ante-litteram nel paese che ancora non le conosceva e infatti le chiamava “Le cantautori” (titolo di un progetto del 1975 cui Roberta partecipò insieme a Silvia Draghi, Nicoletta Bauce e il duo Simo e Susi). Dopo un primo Lp omonimo semiclandestino e la gavetta come spalla nei tour di Baglioni, Venditti e De Gregori, nel 1978 pubblica “...Abitare a Cinecittà”, che contiene anche un brano scritto con Serena Dandini (“Racconto”), ma soprattutto questa spassosa e deliziosa “Cinecittà” dove, con tono beffardo e sottilmente feroce, rivendica l’ordinario mix di caos e noia di un quartiere periferico della Capitale, con versi come “Cinecittà, non c’è niente di divertente da fare se non stare ad aspettare… Abitare a piazza Navona è una questione di atmosfera…/ Abitare a Cinecittà invece è una questione di… fedeltà”.
Alberto Gaviglio – Qualcosa resterà
La Locanda delle Fate è uno degli ultimi baluardi del cosiddetto “spaghetti prog”. Originario della zona di Asti, il gruppo si sciolse nel 1980 dopo aver inciso un unico album, il romantico “Forse le lucciole non si amano più”, considerato proprio una sorta di canto del cigno del progressive italiano. Flauto, chitarra e voce, nonché autore di molti testi della band, Alberto Gaviglio tenterà con scarse fortune la carriera solista pubblicando nel 1981 questo delicato singolo, in cui i malinconici arpeggi di chitarra sembrano evocare quasi il gentle weeping di harrisoniana memoria. Gaviglio era architetto e per anni ha insegnato all’istituto d’arte Benedetto Alfieri. È scomparso nel 2021 dopo una lunga malattia.
Il Caso Bambati – Viva
Altra gloriosa (e misteriosa) meteora del decennio 80, Marco Bambati, per gli amici Il Caso Bambati, riuscì a godere del supporto del benemerito Carlo Massarini aka Mister Fantasy (che lo presenta anche in questo video) e di qualche emittente radiofonica, ritagliandosi una nicchia di adepti che forse ancora oggi lo ricordano. Il merito è di questa splendida “Viva”, sospesa tra synth-pop e italodisco, con un bel basso pulsante e un contagioso refrain in falsetto stile “Strange World” di Ké ante-litteram. Decisivo il contributo di Ignazio Polizzy Carbonelli, pianista e cantante de I Romans, nonché zio dell’attore Riccardo, che cura gli arrangiamenti e firma il brano insieme a Massimiliano Orfei e Ugo Ferrero. Uscì per un’etichetta importante come Rca, ma non ebbe mai il supporto che avrebbe meritato.
Andrea Tich - Masturbati
Chiudiamo questa nostra carrellata, con un altro glorioso artigiano e spirito libero della nostra canzone. Un talento rimasto confinato nell’underground perché costantemente fuori dai tempi, da ogni possibile hype; un "cane sciolto" dal cuore in fiamme, un attento osservatore della realtà e del quotidiano, delle piccole cose da far risaltare attraverso una scrittura singolare, coinvolgente. Il suo primo disco, “Masturbati” (1978), fu prodotto da Claudio Rocchi e pubblicato dalla storica Cramps. Formidabile la title track, in cui il cantautore di Augusta - di stanza a Milano – ammicca apertamente a temi sessuali all’epoca tabù, pur senza cadere mai nella volgarità, con un tono da menestrello di filastrocche psych-folk, in una terra sospesa tra Syd Barrett e Frank Zappa. Sarà la solita Snowdonia a riportare Andrea Tich alla ribalta oltre trent’anni dopo, pubblicando il suo “Siamo nati vegetali” (2010).
Bonus tracks