Come rockstar è sempre stato quanto di più improbabile, Gary Olson. Look impiegatizio, fisico gracilino, un taglio di capelli a scodella poi riconvertito in provvidenziale riporto quando hanno iniziato a battere in ritirata. E’ entrato nel mondo della musica dalla porta di servizio sul finire degli anni Ottanta, sgobbone in una radio di Brooklyn in qualità di tecnico del suono e addetto alle registrazioni dal vivo di una miriade di gruppi underground più o meno affermati, non ultimi i Sonic Youth nell’anno di “Daydream Nation”. Non suonava all’epoca, tranne forse nel chiuso della sua cameretta: una chitarra strimpellata da amatore nemmeno poi chissà quanto portato e poi il primo amore, la tromba dei tempi della scuola. Di certo non cantava, non se lo sognava proprio, troppo piatto e monocorde quel baritono – negli anni a venire generosamente accostato a quelli di Ian McCulloch e Lou Reed – e per converso sprovvisto del volume e della cupezza spettacolosi che in ambito chamber-pop avrebbero presto fatto la fortuna di un certo Stephin Merritt e dei suoi Magnetic Fields. Eppure era scritto che avrebbe trovato la sua strada anche lui, prima come produttore (cominciando dagli Psychic TV), quindi come musicista (per Azalia Snail) e infine come autore di grande finezza alla guida di un gruppo tutto suo.
Coccinelle RockE’ il 1993 quando i Ladybug Transistor vengono fondati in una vecchia casa vittoriana di Ditmas Park a Brooklyn, dotata di studio di registrazione nel seminterrato. Il sempre più scafato Gary ha impiegato un paio di anni ad allestire questa piccola oasi di verde e tecnologia ribattezzata Marlborough Farms, e non sarebbe riuscito nell’intento senza l’essenziale contributo tecnico di un amico e collega di Falkirk, William Wells, stabilitosi a New York da qualche tempo. Nella sua primissima incarnazione la band è composta, oltreché da Olson, dal bassista Javier Villegas (Born Against) e dal tuttofare Edward Powers.
Con l’intestazione originaria Sunhead, nel 1994 i tre fanno uscire via Popfactory l’Ep Seasonal, un sette pollici d’impronta shoegaze sommariamente derivativo e che non desta particolare clamore. La ragione sociale viene quindi modificata: il nuovo nome, destinato ad avere ben altra fortuna, deriva da una radiolina giocattolo anni Settanta, a forma di coccinella, che Gary aveva ricevuto in regalo da bambino e che nei primi tempi non mancherà di portare con sé sul palco, in cima all’amplificatore della chitarra.
Registrato assieme al socio scozzese nell’omonimo studio di proprietà, ospiti Joe McGinty degli Psychedelic Furs e la cantante dei Lorelei, Jina Yi, Marlborough Farms vede Gary impegnato con ogni sorta di strumento, pianoforte e organo inclusi, anche se i virtuosismi della chitarra portano la firma di Powers. Il disco esce per Park’N Ride nell’ottobre del 1995.Orbitano con una certa spudoratezza in zona Pavement i primi Ladybug, ma rilasciano anche suggestioni dai Sonic Youth di “Goo” e “Dirty” (“Sneedle”), dagli Spiritualized, i My Bloody Valentine e il Dean Wareham del nuovo progetto, Luna. Ancorché tutto giocato di mimesi, soprattutto nelle tentazioni shoegaze, nell’istrionismo imitativo verso Malkmus e Spiral Stairs (“95 Miles Per Hour”) e, più in generale, nel rumorismo assortito, il disco rivela comunque una band già interessante in quanto a propensione melodica o commistione tra le trame elettriche e una più ammaliante, placida vena psych (in bella mostra in episodi meno agevolmente incasellabili come “Theme To Lout”). L’indirizzo si colloca insomma a mezza costa tra un indie-rock un tantino didascalico ma vivace (“Land”) e un indie-pop riverberato e sfarfallante, incline al frammento e alle astrazioni eteree. Olson mostra di divertirsi nel trasporre su nastro trucchi e ipotesi musicali ampiamente metabolizzati nella sua precedente esperienza professionale.
L’intero esordio è speso appunto per esplorare formule e stili che in quel particolare momento vanno ancora per la maggiore nel rock alternativo, ma dai quali il gruppo si discosterà comunque assai presto limitandosi a conservare e sviluppare solo il buzzo lieve e favolistico dei passaggi più propriamente baroque-pop come “Seadrift” (oltre all’onnipresente tromba del frontman). La miscela di svenevolezze e fuzz, rubata a compagini come Vaselines e Teenage Fanclub, riesce piacevolmente spiazzante anche se i refrain davvero memorabili latitano.
Se nelle battute conclusive trova spazio anche un abbozzo riarso di space-rock minimalista (“Twice A Lifetime”), corroso con gentilezza dalla sporcizia e chiuso in un giubileo bandistico tascabile, è il congedo di “Song For Vocoder & Trumpet” a rappresentare la summa dello sperimentalismo gentile dei newyorkesi, tra sonicismi latin e aspirazioni celesti.
Marlborough Farms si ricorda insomma come un curioso esercizio di stile destinato a restare estemporanea lettera morta, nonché la fedele fotografia di certe istanze indipendenti del periodo evidentemente prossime all’archiviazione.Già in vista del sophomore, Beverley Atonale, le carte subiscono insomma una bella rimescolata. Innanzitutto Gary strappa un contratto a una label prestigiosa come la Merge, quindi dà il benvenuto alla sua fidanzata, Jennifer Baron (bassista dei Saturnine chiamata a rimpiazzare Villegas), e soprattutto al fratello di quest’ultima, Jeff, talentuoso chitarrista del New Jersey già attivo in Vermont con i Guppyboy e in procinto di lanciarsi nei nuovi progetti Essex Green e Sixth Great Lake.
Per il resto viene confermato il sodalizio in regia con Bill Wells oltre, naturalmente, alla scelta di registrare tra le mura amiche del Marlborough Farms.Gli ampollosi barocchismi dell’introduttiva “Here Is Your Space” sembrano l’ironica risposta a una delle più abusate etichette affibbiate loro con il precedente lavoro. E’ con “Rushes Of Pure Spring”, tuttavia, che il rinnovato marchio della band si imprime davvero a fuoco. Si tratta di un quieto e carezzevole chamber-pop, accompagnato dal morbido baritono e dalla tromba di Olson, che evoca non a caso l’imminenza di una nuova, rinfrancante primavera. Il gruppo di Brooklyn riesce a fare meraviglie giocando con i ritmi blandi, con inflessioni lievi e insinuanti, sino a imporre all’ascoltatore una sorta di benevola assuefazione; predilige le tinte Pastello, si astiene dalle forzature a effetto e blandisce con garbo ma inesorabilmente, come se un dolce sortilegio fosse stato ordito. Le trame lente e ritornanti svelano una pur remota influenza kraut-rock nel songwriting di Gary che, alla radice di questo folk-pop, pare avvalorare l’idea di un’infezione che si propaghi poco alla volta e con superba delicatezza, salvo svelare all’improvviso qualche inattesa accelerazione come i rumorosi innesti pavementiani di ritorno in “Your Wagging Tail”, o il corpo estraneo di “The Occasional”, insozzata dal fuzz al punto da poter essere spacciata per una outtake dai primi Teenage Fanclub.
Se questi ultimi rappresentano il solo ponte verso il passato, sviluppi ulteriori di quella che diventerà la compagine statunitense sono rintracciabili, ad esempio, nelle marcate evocazioni fiabesche di una “Windy” dominata dai fiati come, in quella stessa fase, i Belle & Sebastian più aulici e ammalianti.
A far da padrone è comunque sempre questo ininterrotto (e non certo appariscente) incanto, piuttosto eloquente nel jangle-pop in odor di decadentismo di “Stuck”, con tanto di magnifica contorsione solista per Baron. Un po’ come nei Rem scapigliati dei primissimi passi, l’impressione è che tutti, a partire dall’Olson cantante (sulle tracce di Lou Reed ma anche di Dennis Wilson, di cui viene riproposta “Thoughts Of You”), brighino per essere registrati a un volume più basso del consueto e si mostrino sornioni per sedurre in via esclusiva grazie ai loro elusivi arabeschi pop. I vari frammenti piazzati a mo’ di filler servono ora da confino per le astrazioni psych e di deviante modernariato electro, ora per fotografare la magia nei dettagli di cui la band già si segnala come maestra.Il risultato è insomma un’opera alquanto oscura, ambigua e inafferrabile, ricca di un fascino tutto suo, assai prodiga in quanto a delizie melodiche ma nel contempo restia a fare a meno della propria irriducibile irrequietezza, quella psichedelia di grana finissima che in quest’occasione si lascia cogliere solo a tratti ma, un poco alla volta, non manca di lasciare il segno. La critica li saluta a ragione come i “nipotini dei Velvet Underground” per gli spregiudicati richiami che qua e là affiorano, alla maniera dei primissimi Yo La Tengo o, nei rari episodi ancora bagnati dal rumore, dei Sebadoh.
Per il tour che segue si sgancia Powers (ora al servizio di Azalia Snail) mentre vengono imbarcati un nuovo batterista, l’indo-americano San Fadyl (degli Individual Fruit Pie), e la promettente Sasha Bell, compagna di Jeff nella vita e negli ormai dismessi Guppyboy. Il quintetto è pronto per dare forma al suo album in assoluto più acclamato e riconoscibile, The Albemarle Sound, in uscita sempre per Merge nel marzo del 1999, per il quale torna a offrire un contributo da arrangiatore Joe McGinty.
La più British delle band americane
Ho sempre pensato ai Ladybug come una banda musicale riconvertitasi in rockband, mentre una jug band da portico trasformata in rockband non potrebbero che essere gli Essex Green.
(Jeff Baron)
Quella dei Ladybug Transistor, emersi in una fase in cui vanno per la maggiore il grunge (comunque al tramonto), il britpop e le chitarre particolarmente rumorose, è una proposta musicale a cavallo di folk, rock e pop in evidente controtendenza. Idealmente si riconoscono come formazione di stampo indie-pop, e prova ne è l’entusiasmo con cui in quello stesso anno accolgono l’invito di Stuart Murdoch a suonare al Bowlie Weekender Festival nel Sussex, evento organizzato proprio dai Belle & Sebastian. Di certo si impongono, in questa fase, come la più British tra le band statunitensi (emblematico che una delle canzoni si intitoli “The Great British Spring” e suoni frizzantina proprio come la band di Glasgow nelle sue uscite più briose). Riferimenti di punta sono ora la scena di Canterbury, il folk di Pentangle e Fairport Convention, il pop orchestrale dei Left Banke, Van Dyke Parks, gli Association, i Beach Boys ma anche i barocchismi del compagno di scuderia Stephin Merritt.
Pronti via, e il tocco è già quello dei sofisticati collezionisti di suggestioni musicali retrò. “Six Times” viene subito illuminata dalla tromba di Gary ma è poi l’incanto di un florilegio bandistico particolarmente rigoglioso, con bel plotone di ottoni e archi, a destare meraviglia. L’horror vacui spinge Olson a saturare in ogni ordine e grado gli spazi della riserva sonora a sua disposizione, ma per nostra fortuna il coreografo arrangiatore in lui si rivela un vero prodigio e l’insieme riesce fluido, armonico, senza nauseare per ridondanza o melensaggine e anzi attraccando presto nella regione della magia autentica: il capolavoro tascabile “Meadowport Arch”, tre minuti di svenevolezze melodiche in tonalità cangianti e dall’amabile retrogusto zuccherino, sposa al meglio l’eclettismo del leader, gli svolazzi pianistici e corali della Bell e i sobri virtuosismi di Baron, per un concentrato di pura vertigine pop. Lo stampo paradigmatico è così plasmato e il passaggio introspettivo che segue, “Today Knows”, dona con i suoi squarci inattesi ulteriore colore al tono monocorde dell’Olson interprete, alzando in maniera definitiva l’asticella del suo romanticismo melanconico e trovando nella doppietta una delle sue vette di sempre.
Il mood si conforma quello luminoso e primaverile evocato dalla già citata “The Great British Spring”, e persino estivo, se si chiama in causa anche lo splendore sunshine della cover di “Like A Summer Rain” (da Jan & Dean), con l’odore della muffa o le implicazioni necrofile del derivativo tenuti a debita distanza dalla freschezza, dall’entusiasmo, dall’estasi dei coretti wilsoniani e dalla goduriosa vena jangle di Jeff. The Albemarle Sound si configura insomma come disco gioioso ma non certo stupido, che necessita di un’assunzione oculata da parte dell’ascoltatore così da eludere il rischio di overdose da saccarina e squisitezze easy-listening (gli interventi flautati – nel vero senso della parola – della fatina Sasha, ad esempio): sono davvero tanti i leziosismi, seppur spesi all’insegna di una lievità non preventivabile considerato l’arsenale messo in campo. Se si esclude “Cienfuegos”, numero da caldo crepuscolo tex-mex che non t’aspetti e perla ammaliante dell’Olson trombettista (all’inseguimento, con buona autorevolezza, dei Calexico), nelle battute conclusive fanno capolino un po’ di faciloneria (la maldestra impostazione psichedelica e la Bell scolastica del brano di congedo) e qualche riempitivo di troppo, togliendo un po’ di smalto dopo la prima, memorabile facciata, a una raccolta di superbo artigianato orchestrale.
E’ un periodo di grande visibilità per il gruppo, il cui hype trova formidabili impulsi dall’ingresso nel collettivo Elephant 6 su invito di Robert Schneider degli Apples In Stereo (sulla scorta di quello già rivolto alla formazione sorella degli Essex Green) e da una pellicola di grande successo del 2000, “Alta Fedeltà” di Stephen Frears: su una delle pareti dell’appartamento del protagonista, interpretato da John Cusack, campeggia infatti il poster di un concerto di Ladybug Transistor e Of Montreal (oltre ai carneadi Claudia Malibu) dell’anno precedente. A proposito di tour, con quello nuovo entra nel gruppo anche la violinista svedese Julia Rydholm, in seguito collaboratrice di Jens Lekman.
Il sestetto così composto pubblica nel maggio del 2001 il suo album forse più ambizioso di sempre, Argyle Heir, sorta di quintessenza di tutte le sue peculiarità espressive e conferma su tutta la linea per la coppia di produttori, lo studio di registrazione e l’arrangiatore di fiducia. Tra gli ospiti il sax baritono di Deanna Varagona dei Lambchop.Sin dall’incipit di “Fires In The Ocean”, con più di una reminiscenza proprio dal cristallino (all’epoca ancora ignoto) talento e spirito affine di Kortedala, è il sound al velluto a destare una profonda impressione. Si apre così il disco più accurato dell’intera produzione Ladybug Transistor, quello in assoluto più incline alle tentazioni della calligrafia e maggiormente a rischio leziosismo. Si tratta anche dell’opera che richiede a Olson un vero superlavoro in termini di equilibrismo nell’allestimento ma che ripaga già in avvio con un’infilata di ballad sontuose – dal jangle superbo di “Echoes” al gioiellino marca Zombies di “Brighton Bound”, e da “Perfect For Shattering” al capolavoro wilsoniano di “The Reclusive Hero” – e dal delizioso stampo antiquario.
E’ un’opera coraggiosa quanto smodata nelle sue aspirazioni, confezionata con gusto, rigonfia e per forza di cose anche un tantino manierista, seppur a livelli più che tollerabili. Ma si tratta anche del lavoro musicalmente più vario e più pesantemente influenzato dalla stagione aurea del folk britannico, e sia l’affettato carosello di “Catherine Elizabeth” – autentica vertigine chamber-pop – sia l’immagine scelta per la copertina rafforzano il concetto con tutta l’eloquenza del caso.La qualità artigiana del gruppo, a livello di arrangiamenti soprattutto, ha raggiunto uno standard stupefacente che ben si evince dall’armonizzazione delle tastiere orgasmiche di Sasha con il plotone di fiati guidati dalla tromba di Gary e le chitarre curate da Jeff, oltre agli archi ovviamente (si faccia riferimento all’uggia disegnata dall’hammond nella mesta “Going Up North (Icicles)”, strumentale di rara forza evocativa, che riporta alla lezione dei migliori Broadcast). Il songwriting fa il possibile per tenere testa ai superbi allestimenti barocchi pur non godendo sempre della medesima incisività, ma è poi il baritono a scartamento ridotto di Olson a mantenere tutti coi piedi per terra, impedendo il volo pindarico definitivo e in fondo preservando il disco, molto opportunamente, da sviluppi virtuosistici che non potrebbero che rivelarsi insostenibili.
Se “Nico Norte” si impone tra i passaggi più sensuali del lotto, di quelli chiamati a esaltare in Gary l’aspirazione all’eclettismo di ogni maestro di pop orchestrale che si rispetti (della schiatta di Neil Hannon, per intenderci), il leit-motiv favolistico del predecessore è ribadito per ampi tratti da “Words Hang In The Air”, riuscendo assai meno stucchevole del temuto, e così pure dall’ampollosa ma delicata giostra di “Fjords Of Winter”, coi suoi ninnoli e il suo glockenspiel.
Un leggero calo nella seconda facciata non pregiudica la sostanziale riuscita di un album così pervicacemente fuori moda e fuori contesto da colpire nel segno. Certo come sempre, nel loro caso, se ne consiglia un’assunzione parsimoniosa per non ingenerare nausea, sempre che non si sia da principio intolleranti a simili sonorità.
Gita a Tucson e diasporaIn questa fase il nucleo fondamentale della band è ancora composto da due coppie di fidanzati (Gary e Jennifer, Sasha e Jeff) con la complicazione di un fratello e una sorella nell’intreccio. Finché le cose funzionano tutto gira a meraviglia, ma gli equilibri sono prevedibilmente assai fragili e le dinamiche si sgretolano alla prima folata di vento forte. Così l’album eponimo, in uscita nell’ottobre del 2003 per Track & Field, si presenta come una netta cesura rispetto al passato. Rotta la relazione con Gary, Jennifer ha lasciato e non prende parte alle registrazioni. Darà vita invece a The Garment District, un progetto solista nato come terzetto – complici il cantato di sua cugina Lucy Blehar e il basso di Jowe Head (Television Personalities, Swell Maps) – di orientamento psych-folk e con organi e tastiere di ogni sorta eletti a protagonisti incontrastati: tre album in cinque anni con molti stravizi di sbuffeggiante pop dadaista (debitore tanto degli Stereolab quanto dei già citati Broadcast) a referto e l’apertura di innumerevoli concerti di Julia Holter e Jenny Hval.
Ancora più significativa, da parte di Olson, è però la scelta di non registrare in proprio nella consueta oasi del Marlborough Farms ma di affidarsi a un produttore di tutt’altro stampo, l’esperto Craig Schumacher (l’uomo che ha contribuito a plasmare il marchio sonoro di Calexico, Giant Sand e Neko Case), volando direttamente al suo cospetto in quel di Tucson, Arizona, al celebre Wavelab Studio.
Tra gli ospiti, da segnalare soprattutto un paio di musicisti di rango del giro di Schumacher: il Calexico Paul Niehaus, che si occupa dei ricami di pedal steel, e Dennis Cronin dei Lambchop che affianca il frontman per una serie di duetti di tromba.Sin dall’abbrivio sono posti in evidenza due dei tratti distintivi di questa nuova raccolta: vivacità e tono confidenziale. Ma la ballatona che apre i giochi, “These Days In Flames”, presenta a sorpresa anche un Olson cresciuto enormemente come interprete, spigliato e forte di una felicissima inclinazione al melò (tra patetismo e contagioso candore, come nella rilettura di “Splendor In The Grass” di Jackie DeShannon). Non occorrono che pochi dettagli per registrare come le sonorità si siano fatte più calde, ad assecondare la svolta verso certi tòpoi della tradizione musicale a stelle e strisce. L’andatura è serrata come mai prima d’ora, in parte alleggerita dei più scenografici e barocchi tra gli orpelli della casa per dare forma a un rock della radici comunque rigoglioso e in vena di slanci melodici. Le canzoni, poi, per una volta si imprimono con personalità, refrain elaborati a regola d’arte e un’aura di epica spicciola, popolaresca, uno spirito da Pastorale Americana, e scorrono armoniose, serafiche, davvero una più bella dell’altra (“3=Wild”, una “Song For The Ending Day” stupefacente per trasporto, ariose evocazioni e il contrappunto offerto dalla coppia Baron-Bell con i rispettivi strumento feticcio).
La meraviglia trabocca ma appare più ponderata, meno pirotecnica o ovattata del consueto, mentre l’umanesimo tratteggiato dalle liriche ostenta una concretezza nuova, ben più terrena degli svolazzi aerei di ieri. Lo smaliziato Olson porta il suo (chamber-)pop frizzantino in territori roots e folk, svecchiando un genere o, meglio, offrendo una prospettiva più matura all’indie-pop di marca yankee, miscelando con sapienza spunti classicisti, cliché easy-listening e inserti bandistici (la sua fidata tromba non manca mai di stupire) e offrendo una seconda vita a tracce di recupero come “Gospel” (già “Edimburgh”), partorita da Jeff quando ancora militava nei Guppyboy.
Ma i massimi colpi di classe per una volta li riservano gli episodi scritti e cantati da una Sasha in stato di grazia, “The Places You’ll Call Home”, soprattutto (sui livelli delle cose migliori fatte con gli Essex Green se non superiore). La band non ha mai suonato con una così miracolosa fluidità, e vien quasi da sorridere pensando alle crepe ormai insanabili che in questa fase ne minano la stabilità. Con il senno di poi resta il prodigio di un pugno di brani davvero sensazionali, romantici e pungenti come quelli dei Jayhawks di dieci anni prima.The Ladybug Transistor è anche il titolo più orientato alle ballad upbeat dell’intero repertorio del gruppo, merito di una Sasha mai così tonica (la sprintosa e zuccherina “Hangin’ On A Line” sugli scudi) e di un Gary per una volta davvero disinvolto, persino gigione. Gli echi dall’universo di Schumacher sono pochissimi e inevitabilmente imbastarditi dalle proprie irrinunciabili (ed edulcoranti) scelte stilistiche, anche se le decorazioni à-la Calexico qua e là (“NY – San Anton”) si possono cogliere. Nei frangenti conclusivi si rallenta per lasciare spazio a un più consolidato impianto folk-cantautoriale, dominato con misura da un Olson assai credibile anche in un’orbita più canonicamente alt-country (“The Last Gent”, con il suo garbo d’altri tempi), rischiarata dal jangle della Rickenbacker di Jeff.
La rottura tra Olson e la Baron, frattanto, ha lasciato strascichi importanti e causa una sorta di effetto-domino, portando via un pezzo alla volta del cerchio magico. Il secondo è Sasha. Quando il disco esce, anche la Bell non fa più parte del gruppo, ufficialmente per dedicarsi a quella che è divenuta nel frattempo la sua principale occupazione, gli Essex Green, oltre al progetto solista Finishing School. Per entrambe le intestazioni il 2003 si chiude con un album a referto, l’apprezzato “The Long Goodbye” e il più manierista “Destination Girl”.
Nonostante le tensioni, l’amicizia di lungo corso tra Gary e Jeff convince quest’ultimo a restare in pista per un paio di ulteriori giri di giostra, che saranno però gli ultimi anche per lui.
Un uomo solo al comandoL’Ep Here Comes The Rain è l’antipasto del sesto album ufficiale. Il brano che presta il titolo alla raccolta, una cover dei Trader Horne, preannuncia il riposizionamento delle coordinate dalle parti di un indie-rock morbido, palpitante, estatico ma calligrafico, ormai dispensato con notevole disinvoltura ma senza più l’audacia che alle esplorazioni barocche di ieri non mancava. L’Olson di “Girl On A Swing” gioca nei panni del seduttore navigato tra i blandi velluti disegnati dall’organo, per quanto faccia poi forse eccessivo affidamento sul proprio limitato carisma e non gli riesca di incantare.
Appena meglio gli episodi più croccanti e movimentati come “Empty Bottles”, che pure colpiscono più per qualche estetizzante intervento della chitarra di Jeff che non per l’effettiva sostanza. Resta il mestiere, piuttosto sontuoso, ma per il resto il passo indietro appare incontestabile e non di rado l’edulcorazione raggiunge i livelli di guardia.Can’t Wait Another Day presenta un organico rinnovato, con la chitarra di Ben Crum dei Great Lakes e le tastiere di Kyle Forester dei Crystal Stilts, oltre al ritrovato teatro del confortevole Marlborough Farms, con Bill Wells al solito affidabile dietro la console. Per rimpiazzare il canto celestiale della Bell vengono chiamate le sirene Alicia Vanden Heuvel delle Aislers Set (già compagna di Olson per un breve periodo nel supergruppo Still Flying) e la svedese Frida Eklund degli Alma. Nonostante i rincalzi ce la mettano tutta, l’impressione non proprio entusiasmante suscitata dall’Ep è destinata a trovare presto più di un riscontro: buona energia, classe discreta ma ben poche emozioni. Il singolo scelto come opener, “Always On The Telephone”, intende replicare le suggestioni dell’eponimo e in parte ci riesce, più con le cesellature dell’elettrica, il ritmo secco e un notevole assolo di sax, che non per altri meriti. Come dimostra in maniera inequivocabile l’immagine in copertina, le gerarchie interne sono cambiate e l’unico elemento a meritarsi di dividere la scena con Olson, ormai padre padrone e unico protagonista in scena, è la Rydholm.
Il pop orchestrale di “I’m Not Mad Enough” è tanto scintillante e corretto nella forma, tanto levigato e serrato, quanto incapace di impressionare. A far difetto è il sangue, l’incarnato appare troppo pallido e le canzoni stesse finiscono per assomigliarsi un po’ tutte, invariabilmente interpretate dal cantante con la medesima espressività a basso potenziale. Così quello che si prefigura sembra essere un bell’eserciziario, un valido compendio sull’arte dell’arrangiamento (ma con diversi punti persi in quanto a fascinazione rispetto al ventaglio che gli organi della Bell e della Baron garantivano) e poco altro, che punta a compensare il fisiologico calo dell’ispirazione e lo svilimento di un songwriting che aveva abituato assai bene gli estimatori attraverso un’inflessione affettata e deludente. Eccessivamente preoccupato di incantare l’ascoltatore con delicatezze e affabilità, il gruppo finisce per tediarlo. Il taglio confidenziale non arriverà a fare miracoli (“So Blind”) ma se non altro pare la dimensione più calzante per Olson, decisamente a suo agio nei panni del crooner languido di “Terry”.
Contrariamente ai loro consueti standard, in questo caso è la seconda facciata a farsi preferire e segnare una moderata riscossa sul piano qualitativo: oltre a una più ruspante “In-Between”, la rilettura di “Broken Links” di Samara Lubelski riesce divertente e movimentata, ma è con “California Stopover” che Gary si ricorda come destare meraviglia e ritrova scampoli del suo charme senza tempo per sconfessare, almeno in coda, il fastidioso spettro dell’ordinaria amministrazione.
Sufficientemente evocativo e convincente anche il congedo bacharachiano (e da superbi contemplativi) di “Lord, Don’t Pass Me By”, recupero in extremis della magia di un tempo. Che rimane, tuttavia, lontana e per certi versi irrecuperabile.
Qualche settimana prima che la Merge pubblichi Can’t Wait Another Day, nella primavera del 2007, la band è scossa infatti dalla morte del suo sfortunato batterista, San Fadyl, ucciso da una violenta crisi di asma (di cui soffriva in modo cronico e a causa del quale si era trasferito in Svizzera da tempo).Il 2007 è anche l’anno del massimo successo dell’Olson produttore: a settembre la Lo-Max pubblica l’attesissimo album di ritorno del leggendario Kevin Ayers, a ben tre lustri dalla precedente uscita, registrato nel corso del 2006 da un fan devotissimo come Gary su esplicita richiesta del manager dell’artista, Timothy Shepard (colpito, a quanto pare, da alcune cover dei Soft Machine firmate dallo statunitense con il suo gruppo), tra New York, Tucson, Glasgow e Londra. Alle session di "The Unfairground", molto apprezzato da pubblico e critica e destinato a rimanere l’ultima testimonianza discografica del maestro di Canterbury, partecipano oltre a Olson anche Wells, McGinty, Fadyl e Baron, oltre a uno stuolo di altri musicisti-fan, tra cui Norman Blake e Euros Childs.
Tornando ai Ladybug Transistor, il vuoto lasciato da Crum e dal dimissionario Baron, spostatosi a Pittsburgh nel mentre, viene colmato da un paio di nuovi chitarristi, Mark Dzula (The Magic Caravan) e Michael O’Neil (JD Samson & Men), mentre il posto alla batteria viene occupato da Eric Farber (The Lisps) e Frida Eklund entra a tutti gli effetti tra i titolari come cantante.
Il settimo album del catalogo, Clutching Stems, arriva nei negozi nel giugno del 2011 e anche stavolta la copertina è un affare privato di Gary e Julia, se non altro per il loro status di veterani. Umori e scenari parrebbero essersi ulteriormente raffreddati, ma il giocare in una dimensione più minimale sembra per il gruppo una valida via d’uscita dall’impasse in cui era andato a cacciarsi.
Sin dalla title track il tono impressionista si rivela perfetto soprattutto per un Gary tornato a incidere anche con la voce, dopo l’anestesia generale della precedente uscita, sensazione poi confortata in “Light On The Narrow Gauge” da un taglio più vivace, frizzantino e sul primaverile andante, alla maniera dei Real Estate, dei Northern Portrait o di altri giovani epigoni del verbo smithsiano.Al di là delle morbide trapunte sonore, i Ladybug Transistor sembrano aver recuperato in fondo la loro vena più autentica con una ricetta tanto elementare quanto contagiosa, un easy-listening privo di complicazioni ma rinfrancante, un pop tutto di retroguardia che non nasconde le proprie sottili reminiscenze eighties, nei riff precisi e garbati (à-la Feelies) di “Breaking Up On The Beat” come nelle evocazioni Sarah Records di “Ignore The Bell” (un titolo che non può non suonare ironico e sa di resa dei conti).
La band perde qualche punto dietro ai rullanti – per quanto il drumming di Farber si dimostri più che funzionale per la nuova mission espressiva – ritrova brandelli del proprio classicismo (“Oh Christina”) ma soprattutto torna a lavorare al meglio sul registro malinconico, senza strafare. Il risultato è un disco più elusivo, quindi, una parziale reinvenzione del proprio sound caratteristico, seppur con esiti luminosi e una buona dose di freschezza, un rinnovamento privo di particolari colpi a effetto, ma più che sufficiente ad allontanare l’impressione di una band di sopravvissuti, intenta a vivacchiare con il solo mestiere.
Clutching Stems è l’ultimo squillo. Sei anni dopo la band di Brooklyn non ha più fatto pervenire ai suoi affezionati estimatori ulteriori dispacci, a eccezione di qualche data dal vivo negli Stati Uniti o in Scandinavia. Gary è stato ovviamente il più attivo, come ospite e produttore dei Burnt Palms, per esempio. Troppo poco, comunque, per eludere un sostanziale nascondino creativo. La parola fine, ad ogni modo, non è mai stata pronunciata ufficialmente ed è quindi lecito aspettarsi in futuro qualche nuova sorpresa da parte di Olson e dei suoi sodali.
THE LADYBUG TRANSISTOR | ||
Marlborough Farms(Park’N’Ride, 1995) | 6,5 | |
Beverley Atonale(Merge, 1997) | 7 | |
The Albemarle Sound(Merge, 1999) | 7 | |
Argyle Heir(Merge, 2001) | 7,5 | |
The Ladybug Transistor(Track & Field, 2003) | 8 | |
Here Comes The Rain Ep(Merge, 2006) | 5,5 | |
Can’t Wait Another Day(Merge, 2007) | 6 | |
Clutching Stems(Merge, 2011) | 6,5 | |
THE DISTRICT GARMENT | ||
Melody Elder (Night People, 2011) | 6 | |
If You Take Your Magic Slow(Night People, 2014) | 6,5 | |
Luminous Toxin(Kendra Steiner Editions, 2016) | 5 | |
SUNHEAD | ||
Seasonal Ep (Popfactory, 1994) | 6 |
Sneedle | |
(Theme To) Lout | |
Rushes Of Pure Spring | |
Oriental Boulevard | |
Meadowport Arch | |
Like A Summer Rain | |
Today Knows | |
The Reclusive Hero | |
Nico Norte | |
Brighton Bound | |
Catherine Elizabeth | |
Places You’ll Call Home | |
Hangin’ On A Line | |
Here Comes The Rain | |
Always On The Telephone | |
I’m Not Mad Enough | |
Clutching Stems |
Sito ufficiale | |
Bandcamp | |
The Garment District |